DON ENNIO INNOCENTI: HENRI DE LUBAC
INFLUSSI GNOSTICI
NELLA CHIESA D'OGGI
DON ENNIO INNOCENTI
Attiriamo innanzitutto critica attenzione sull'opera di H. De Lubac.
Non possiamo certo qui dilungarci in esami approfonditi di tutte le sue opere. Del resto non ce ne è bisogno perché basta, al nostro scopo, evidenziare la difesa che De Lubac ha fatto di Pico della Mirandola, di colui, cioè, che fu tra i principali artefici dell'accreditamento della gnosi spuria in ambiente cristiano, nel Quattrocento, con immense ripercussioni in tutta Europa.
Introduzione
Nella terna che evochiamo De Lubac, è l'autore di maggior rilievo e, certo, quello che ha esercitato maggior influsso in Italia. Tutte le sue opere vi sono state tradotte e di varie sono state fatte più edizioni (la potente Jaca Book si è addossata l'onere della sontuosa edizione dell'Opera Omnia ed è probabile che essa sia effettivamente assorbita dal mercato italiano).
Nei confronti di altri noti autori inquinanti egli ha riscosso anche il maggior successo umano, essendo riuscito a convertire ai suoi punti di vista non solo la gerarchia della sua congregazione religiosa, ma anche la stessa Santa Sede, che l'ha infine insignito, a titolo meramente onorifico, del cappello rosso, fatto questo che ha certamente accresciuto il suo accreditamento presso i semplici.
Henri de Lubac nacque nel 1896 ed ebbe una formazione umanistica, filosofica e teologica nelle stesse scuole frequentate da Teilhard, del quale divenne poi il precipuo confidente e difensore.
Egli fu in simbiosi con la problematica modernista (Blondel, Le Roy, Buonaiuti) fin dalla gioventù e fu proprio tramite un autore in odore di modernismo (il Rousselot) ch'egli indirizzò tempestivamente i suoi studi su quelle dottrine riguardanti l'esigenza del soprannaturale che fecero di lui il principale esponente della "nuova teologia".
Ritroviamo in lui le istanze di storicizzazione sbandierate da Chenu, tanto che la sua teologia è stata definita, per antonomasia, "teologia storica": trattasi, infatti, d'una riflessione teologica sulla storia della teologia (una riflessione non solo asistematica ma anche piuttosto disorganica): attraverso la storia di quella mutevolissima e difettosissima scienza (?) chiamata teologia, la storia dei dogmi, delle religioni, delle filosofie gnostiche moderne... egli presenta la sua idea misterica ed ecumenica della Chiesa che ha vari punti in comune con quella di Congar.
Le tappe della sua carriera sono queste: nel 1913 entra in noviziato, nel 1917 soldato viene gravemente ferito alla testa, nel 1930 diventa professore di teologia fondamentale alla Facoltà Teologica dei gesuiti lionesi (un altro "mito", come il domenicano Le Saulchoir), nel 1938 esce il suo libro programmatico in sintonia con l'aura progressista del momento (Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme), nel 1941 si unisce alla "Resistenza", nel 1946 fa uscire Surnaturel; nel 1950 esce il preoccupante Histoire et Esprit ed è sospeso dall'insegnamento, dal 1951 al 1954 scrive i suoi libri aperturisti sul Buddismo, nel 1954 riprende l'insegnamento, nel 1957 riceve l'esplicita approvazione di Pio XII, nel 1958 è eletto "Membro dell'Istituto" a Parigi, nel 1960 è assunto tra i periti teologici del Vaticano II, nel 1983 è "creato" cardinale.
È opportuno chiosare qualcuna di queste tappe:
1) Catholicisme: mentre Mounier tentava di egemonizzare il dialogo politico, De Lubac esaltava il carattere comunitario del cattolicesimo e la funzione mediatrice della storia (in dialogo col marxismo). Più tardi, in Le drame de l'humanisme athée (1944), De Lubac renderà più spinto il dialogo (dando spesso ragione a Nietzsche contro il cristianesimo). Anche in Proudhon et le Christianisme (1945) egli è benevolentissimo col nemico.
2) Quando apparve Surnaturel (1946) i recensori avevano già preso nota che in Catholicisme il P. De Lubac aveva deprez-zato il Limbo, in De la connaissance de Dieu (1941) aveva cianciato d'idea inconscia e preconcettuale di Dio, in Corpus Mysticum (1944) aveva messo in ombra la transustanziazione. In Surnaturel tutti i maggiori teologi cattolici videro subito il tentativo di sminuire la novità e la trascendenza assoluta dei misteri, di scalzare la gratuità del soprannaturale nella natura. Con buona memoria della Pascendi si percepì il pericolo di questa posizione ambigua e delle sue ripercussioni pratiche sul piano dell'azione temporale dei cristiani. Nel 1965 l'opera riapparve in due volumi; ma uno comprendeva scritti (rimaneggiati, ma piuttosto slegati) precedenti Surnaturel, l'altro non costituiva affatto un chiarimento e un superamento, sicché il problema posto dall'Humani Generis resta intatto.
3) Histoire et Esprit è una stupefacente rivalutazione di Origene, i cui cedimenti gnostici sono ben noti. A Gioacchino da Fiore (in uno studio, peraltro assai lacunoso) De Lubac riconocerà, più tardi, la subordinazione alla gnosi, è vero, ma anche il merito di aver sottolineato la storicità del cristianesimo. Purtroppo la difesa che De Lubac ha tentato di Pico della Mirandola è autosvelamento delle proprie segrete simpatie. È su questa tematica che va collocata la manipolatrice difesa che De Lubac ha intrapreso a favore di Teilhard e del suo "eterno feminino". Purtroppo anche in Paradosso e Mistero della Chiesa De Lubac introduce nella Chiesa una dualità di opposti che evoca quella tipicamente gnostica.
4) De Lubac ha stimato il buddismo come il più grande avvenimento spirituale della storia insieme al cristianesimo. Questo giudizio appare, a molti, abnorme, ma anche enorme-mente pericoloso, posto in relazione con quanto De Lubac dice altrove sugli aspetti positivi del pensiero ateo, verso i quali egli vorrebbe massima disponibilità all'accettazione da parte dei teologi cattolici. Acriticità? Scarsità di preparazione filosofica e di penetrazione speculativa? Collegamenti con la teologia del-l'immanenza?
5) L'influsso di De Lubac dopo il 1960 non va esagerato.
a) Certamente le posizioni da lui sostenute all'interno della Commissione Teologica durante l'iter del Concilio sono impressionanti, ma è anche vero che gli Atti finali del Concilio vanno letti senza gli occhiali di De Lubac. La polemica contro la Chiesa "chiusa" e "giuridica" lascia il tempo che trova, la tematica della Chiesa "mistero" e "sacramento" è stata sviluppata e accreditata da ben altri che De Lubac. Il tentativo di De Lubac di eliminare la Chiesa dall'oggetto della Fede è stato cancellato dallo stesso Paolo VI (nel Credo del Popolo di Dio) e la cattiva traduzione del Credo della Messa avallata dalla CEI è solo un incidente di percorso destinato all'oblio. Per quanto grande sia stato il peso di De Lubac nella redazione finale della "Gaudium et Spes", il valore teologico e l'autorità di questo documento restano tra i più discussi.
b) I raccordi tra alcuni documenti papali (encicliche di Paolo VI e di Giovanni Paolo II) e il pensiero di De Lubac sono innegabili, ma va notato: 1) Nonostante che l'enciclica sia, nella sua formalità, un documento di magistero ordinario, non tutti i suoi passaggi hanno la stessa autorità, com'è facile arguire dal contesto (capita, talvolta, che l'Alto Autore voglia evidentemente colloquiare con considerazioni personalissime); 2) L'assunzione nelle encicliche di formule già pronte non è di per sé un fatto che renda la formula meno discutibile se essa è oscura (dire, per esempio, con De Lubac, che l'Incarnazione stabilisce un vincolo organico tra Dio e ogni uomo, è ripetere una frase oscura).
c) L'influsso di De Lubac è stato contraddetto non solo da teologi di primo rango (Garrigou - Lagrange, Joumet, Philippe de la Trinité, Gherardini) ma anche da numerosi cardinali che si schierarono subito a fianco del card. Siri, fin dalla prima edizio-ne del suo Riflessioni sul movimento teologico contemporaneo (altri si sono aggiunti, poi, con l'edizione di Getsemani). Siri qualificò senza ambagi l'opera di De Lubac come eversiva.
d) Lo "sfondamento" di De Lubac sulla questione Teilhard è solo apparente. L'adesione di Arrupe non conta nulla. La nota lettera del Card. Casaroli ad uno strombazzato convegno su Teilhard non ha inteso affatto cancellare il giudizio del S. Uffizio (com'è stato ufficialmente precisato) relativo ai "gravi errori filosofici e teologici" di Teilhard. Ne segue che, nonostante le apparenze, il nonagenario De Lubac è coinvolto da quel giudizio. Pace all'anima sua.
Pico come alba incompiuta
Pico aveva riscosso simpatie in Francia e lì il discorso "fiorentino" avrebbe poi avuto varie occasioni di essere ripreso e sviluppato. Garin proprio in Francia ottenne attentissima udienza alle sue competenti riflessioni su Pico. Non meraviglia, pertanto, che in ambiente ecclesiastico abbia interloquito il dotto gesuita H. De Lubac con un libro che è stato tradotto in italiano da Jaca Book, Milano 1977 col titolo L'alba incompiuta del Rinascimento. Ci riferiamo ora a questo volume.
La foto di copertina, enigmatica, attira l'attenzione: riproduce un particolare del famoso dipinto di Piero della Francesca etichettato "Madonna e Santi e Federico da Montefeltro" (1472 - 1474): precisamente, il pendolo (un uovo? l'uovo cosmico?) che dalla punta della nicchia rovesciata incombe sulla "piena di grazia", "Venere" dei tempi redenti.
Il geometrismo di Piero della Francesca trova in questo particolare, se non ci sbagliamo, un'espressione di tensione metafisica, quasi a significare un "centro" assoluto, un luogo divino.
Qui, però, sotto il pendolo, è non la Vergine Madre
"umile ed alta più che creatura", bensì il nome di Pico della
Mirandola (l'alba incompiuta). De Lubac (appassionante, assicura il presentatore Bouyer, ma anche appassionato) vi parla di Pico, dei suoi ideali e del-l'importanza di alcuni suoi scritti.
Il personaggio
Al Conte della Mirandola, giovane fervidissimo negli studi e negli amori, non arrise la fortuna (né per i primi, né - a dire il vero per i secondi, dei quali, peraltro, non è punto il caso di occuparsi). Ebbe, infatti, l'ambizione di recarsi a Roma, con gran pubblicità, per confrontarsi da protagonista in una disputa collettiva coi dotti che avrebbero accolto il suo invito a discutere su novecento argomenti di ogni genere di scienza, una gran parte dei quali presentati secondo la propria opinione. Sennonché, più di cento di quelle sue tesi apparirono subito preoccupanti a Roma: 72 (la simbolica dei numeri è sempre suggestiva!) vertevano, infatti, sulla cabala (dottrina che i cattolici non hanno mai stimato come oro colato e, pur nella costante difesa del Vecchio Testamento, mai hanno identificato con la pura saggezza degli antichi padri della fede); altre 41 riguarda-vano quel "santopadre" chiamato Averroè.
Sul finire del Quattrocento la Chiesa di Roma era molto tollerante (eccetto che per le stregonerie), ma la presentazione pichiana dei predetti argomenti apparve a varie persone influenti poco accettabile, tanto che su Innocenzo VIII si fecero tali pressioni da indurlo a ordinare la sospensione della disputa e a nominare una commissione per l'esame delle tesi proposte.
Tre di queste risultarono ai commissari pontifici come eretiche, altre tre parvero ritenere il sapore dell'eresia; altre sette furono considerate variamente censurabili. In base a tale rapporto il Papa proibì la disputa.
Pico si difese per iscritto trincerandosi dietro autorità. Di tale difesa il Papa raccolse solo questo: che il Conte non avrebbe più sostenuto le tesi annunciate; e se ne compiacque. Invece, ben presto, le tesi furono pubblicate all'estero. I curiali si domandarono cosa significasse una tale iniziativa. Pico fornì loro la risposta fuggendo; lo si accusò, pertanto, di malafede e venne spiccato contro di lui l'ordine di arresto. Ma Lorenzo il Magnifico interpose la sua protezione e il fascinoso giovane poté rifugiarsi a Firenze.
Qui egli ebbe notevole peso nella decisione di richiamar-vi il Savonarola col quale, anche dopo la morte del Magnifico, si mantenne in buoni rapporti. Ciò, peraltro, non gl'impedì di rivolgere al Papa Alessandro VI calorose lodi [1] e di ottenerne, nel 1493, un lusinghiero contraccambio di lode per la sua "mirabilis quaedam divini ingenii sollertia" e, quel che più conta, piena pace ecclesiastica.
Pico, però, non poté portare avanti i suoi progetti di studio perché morì improvvisamente (e qualcuno ha avanzato l'ipotesi d'una morte non naturale), a Firenze, il 17 novembre 1494 (lo stesso giorno in cui Carlo VIII entrava, hasta femine fulta, nella Città del Fiore; particolare, anche questo, diligente-mente annotato dallo stesso De Lubac).
Interpretazioni moderne di Pico
A parte la disavventura capitatagli con Innocenzo VIII, Pico è stato oggetto, anche in tempi a noi vicini, di interpretazioni che confermano la pericolosa ambiguità del pensiero da lui entusiasticamente espresso all'alba del rinascimento paganeggiante che avrebbe portato l'Europa su strade molto divergenti dalla tradizione cristiana.
Ammette il presentatore Bouyer: "Pico, per molti studiosi recenti (sic) del sedicesimo secolo, è divenuto, con il suo De dignitate hominis, il simbolo anticipato di una umanità che rende se stessa il centro del mondo e pretende di esserne l'unica padrona, già soppiantando, almeno implicitamente, il Dio Creatore. Più esattamente ancora, egli avrebbe preceduto taluni dei nostri esistenzialisti, per cui l'essenza dell'uomo consiste nel non averne una fissa, ma nel poter divenire tutto ciò che ambirà essere. Così, fin dall'alba del Rinascimento sarebbe stato tracciato il programma di Feuerbach: riconquistare e attribuirsi tutti gli immaginari poteri che l'uomo da sempre ha proiettato sulla figura divina, per farli realmente suoi e insediar-si al posto di quel Dio detronizzato" (o. c. p. VII).
L'interpretazione di Pico sarebbe, dunque, illuminante per l'intero dramma dell'umanesimo ateo. De Lubac afferma che quello di Pico è "il messaggio più profondo di tutto il Rinascimento" (ivi, p. 55), ma è un fatto che dal secolo scorso questo messaggio è visto come un'anticipazione del modernismo e uno svuotamento dei dogmi cristiani.
Secondo uno studioso di Wroclaw, "Pico sarebbe al punto di partenza di una linea che, attraverso Bruno, porta a Bacone e a Cartesio, cioè alla ricerca di una metodologia destinata a fare degli uomini i maestri e i padroni della natura, gli sfruttatori e i conquistatori del cosmo, i creatori di un mondo umano ricco di opere meravigliose" (ivi, p. 259).
A questa va aggiunta un'interpretazione sovietica, secondo la quale Pico avrebbe insegnato questo: "Dio non ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, così come affermano i teologi ortodossi del cattolicesimo, bensì ha dato all'uomo stesso la capacità di creare la propria immagine" (p. 192); che è quanto dire:l'uomo è autocreatore. Saremmo così in pieno naturalismo. Tutti sciocchi costoro?
De Lubac propone la sua interpretazione "cristiana" prescindendo dal vaglio dell'entusiasmo cabalistico di Pico, quasi dando per scontato che si possa dare una versione cristiana della cabala. Eppure San Paolo ammoniva i cristiani alla "colluctatio" contro le potenze superiori e la cabala è la superba scienza delle potenze superiori.
Il giovane signore della Mirandola apparirebbe così come un geniale precursore dei filosofi che hanno trovato la loro forma estrema nell'esistenzialismo sartriano (ivi, p. 65). Vittorio Rossi e Giovanni Gentile (ivi) ritenevano che l'uomo pichiano fosse creatore. Garin lo ritiene padre di se stesso, un puro Dasein divino perché si fa Dio (p. 66). Questi interpreti sarebbero degli sciocchi, come i censori romani?
De Lubac ammette: "Pico fa sfilare, senza far distinzione di sfumature, tutta la scuola neoplatonica: Plotino, Porfirio, Giamblico e Proclo, Ermia e Damascio, Olimpiodoro. Ma il suo orizzonte è più vasto di quello di molti umanisti del suo tempo e di tutti i tempi.Non si limita alla nostra antichità classica. La sapienza non è venuta ai greci dai barbari, come noi stessi l'abbiamo ricevuta dai greci? Si compiace, dunque, di citare Zoroastro e Salmosside, Ermete Trismegisto, Avenzoar il Babilonese, gli Oracoli Caldei... Concede uno spazio abbondante e questo è più originale agli antichi misteri ebraici, ai dogmi dei cabalisti come a quelli dei mori, che ha testè scoperti. L'Islam, questo vicino feroce e potente della Cristianità, è sempre presente nei suoi pensieri; così si preoccupa di diffon-derne abbondantemente la voce: non solo quella dei suoi filosofi, Avicenna, Averroè, Avempace, Alfarabi, ma quella dei persiani e del saraceno Abdallah, e ancora quella di Alkindi, senza dimenticare la grande voce dello stesso Maometto. Infine non è meno felice di poter evocare i canti di Orfeo, il mito di Osiride, l'oracolo di Delfi, e Bacco e le Muse..." (p. 88).
I censori romani avevano qualche motivo per domandarsi se il giovane che stava loro davanti con tanta sicurezza non fosse inquinato di gnosticismo! E come dovevano giudicare il suo favore per la metempsicosi (pp. 77, 237)?
Più tardi il materialista Pomponazzi pretenderà di prender le mosse da Pico (p. 221). Sono stati stabiliti raccordi tra Pico e Bruno (p. 226). Tutto infondato?
Non è in discussione se Pico sia morto da santo, bensì se abbia pensato da cristiano al tempo in cui fu giudicato degno di severo giudizio. Il raccordo stabilito da De Lubac tra Pico e Teilhard de Chardin non supera davvero il Monitum del Sant'Uffizio sugli "errori filosofici e teologici contenuti nell'opera del P. Teilhard de Chardin".
Basterà forse all'accreditamento dell'ortodossia di Pico il ditirambo del presentatore di questo libro? Purtroppo egli ha suscitato apprensive riserve per certe sue recenti opere, nelle quali l'interpretazione dialettica della Trinità rivela che l'autore è parente dello gnosticismo più che della fede, della dottrina e della Chiesa Cattolica.
Le interpretazioni moderne di Pico risultano più conforta-te che criticate da questi ambigui avalli.
Giudizio sul giudizio
De Lubac si tira indietro quando si tratta di giudicare la cabala e l'insieme del pensiero di Pico, ma non quando si tratta di giudicare la conclusione cui pervenne la commissione pontificia che ebbe l'incarico di informare il Papa sul pensiero di Pico.
Il nostro autore non copre le responsabilità del giovane conte della Mirandola: "Aveva pur sempre coscienza dell'audacia di parecchie sue tesi, dell'ampiezza palesemente smisurata del suo progetto, della strana novità che doveva rappresentare la sua utilizzazione apologetica di scritti ebraici dal linguaggio oscuro, ancora sconosciuto a quasi tutti..." (p. 182). La sua mancanza di scrupolo nell'usare un linguaggio quanto meno pericoloso (p. 189), la sua imprudenza nell'issare la bandiera d'una "philosophie nouvelle" (p. 279); il suo sfarfallare esoterico (p. 287), le ambiguità della sua magia naturale (p. 361)... sono esplicitamente ammesse dal De Lubac.
E, ovviamente, De Lubac è perfettamente consapevole delle ragioni che militano a favore dei giudici romani di Pico: "Rompendo, con un'audacia non pienamente cosciente, con la vecchia tradizione cristiana, avrebbe espresso le aspirazioni e le ambizioni di un'età ormai rivolta verso la terra e verso ogni tipo di cambiamenti e di progressi imprevedibili, grazie alle infinite possibilità dell'uomo. Bisognerebbe, dunque, riconoscere la chiaroveggenza dei teologi di Innocenzo VIII, rappresentanti del passato, che reclamarono ed ottennero la sua condanna" (p. 247). Di più: De Lubac riconosce che il giudizio della commissione, ratificato dal Papa, era stato, tutto sommato, "benigno" (p. 445).
Ciò nonostante De Lubac mostra una strana durezza nel giudicare il lavoro della commissione "raffazzonato in dodici giorni" (p. 443) e fa capire di considerare priva di logica e di teologia la sentenza di questi asini dottori (p. 448).
Ancora più duro nel giudicare la fermezza con cui il Papa Innocenzo VIII, che si era dovuto piegare al desiderio di Lorenzo il Magnifico, non volle riaprire il discorso con Pico: "Innocenzo, senza nulla sollecitare, rifiutò di ritornare pubblicamente sulla sentenza pronunziata. Durante tutto il suo pontificato, questo papa mediocre, che nella vita di tutti i giorni era debole, condiscendente, versatile, diede prova, come disse lo storico delle eresie Domenico Bernino, di una prudenza consumata, o, traduciamo piuttosto: di rigidità dottrinale e di prevenzione contro ogni nuovo metodo di pensiero" (p. 449)!
L'atteggiamento di De Lubac non sembra logicamente plausibile. Egli fa venire il sospetto di difendere il suo eroe per partito preso. E quale potrebbe essere la ragione di questo partito? Non c'è da cercare lontano: De Lubac si identifica, in qual-che modo, con la causa di Pico: difendendo Pico, difende se stesso: l'alba incompiuta è lo stesso De Lubac.
De Lubac ha anteposto al suo libro una premessa in cui ci fa sapere d'aver incontrato Pico "ad una svolta dell'esistenza, quasi mezzo secolo fa" e di non averne più abbandonato la consuetudine, imparando molto da questo teologo laico ch'egli ritiene possa ispirare "ancor oggi opportune riflessioni".
De Lubac ha scritto questa premessa nel 1974: mezzo secolo prima egli metteva mano alla sua famosa opera Surnaturel [2], concepita con un audacissimo disegno.
Infatti De Lubac conobbe, tramite il suo amico Valensin, il filosofo Blondel, fu entusiasta cultore di Rousselot, subì l'influsso di Maréchal, fu sempre solidale con Teilhard... il problema dell'esigenza del soprannaturale fu concepito da De Lubac in questa particolarissima, inequivocabile cornice di scambi, con l'intento di offrire un punto d'incontro [3].
In Surnaturel (accolto con severe critiche da parte dei maggiori teologi del tempo) De Lubac spiega che tutta la colpa del disastro teologico contemporaneo è da imputarsi ai commentatori di S.Tommaso, il quale naturalmente - starebbe dalla parte di De Lubac (da cui spuntava l'alba d'una "théologie nouvelle" capace di mirabili sintesi).
De Lubac, pertanto, incontrato Pico a questa svolta della sua esistenza, attinse molto da lui.
Pico, infatti, s'era posto problemi - ma sì! - analoghi: “È inevitabile porsi il problema: la sua sconfinata ammirazione per la dignità dell'uomo non potrebbe averlo portato a falsare il rapporto tra Dio e l'uomo, così come veniva insegnato nella tra-dizione cattolica? Il suo entusiasmo per il privilegio di una libertà quasi divina non potrebbe avergli fatto svuotare pratica-mente ogni idea di peccato e di grazia? Non sarebbe inoltre arrivato al punto di compromettere nella sua mente, addirittura di sopprimere la distanza insormontabile che separa la creatura dal Creatore e impone conseguentemente la soprannaturalità della salvezza?" (p. 113).
E qui viene a proposito la menzione delle ricerche pichiane sulla religione naturale (p. 327) e, soprattutto, il suo periglioso dialogo col Ficino (pp. 6869). Non sono d'altronde soltanto questi i punti di raccordo tra De Lubac e Pico. Dice De Lubac: "È per una maggiore fedeltà alla tradizione cristiana che degli umanisti cristiani come Erasmo e Pico volevano, ciascuno a proprio modo, strapparla all'usura dei secoli. Volevano disinsabbiarne il corso, liberarla da alcune forme che, nel passato più recente, l'avevano, essi pensavano, obliterata o impo-verita appesantendola. Volevano renderle vigore e fecondità (p. 258).
I salvatori della patria.
Non son parole che valgono anche per il "padre e maestro indiscusso della "nouvelle théologie" alla ricerca d'una concordia universale (p. 279)?
Pico è "Capo della Concordia", diceva già il Ficino (p. 311); ma De Lubac non ha forse nutrito propositi analoghi? L'irenismo di Pico viene così caratterizzato dal celebrato
teologo francese: "Avrebbe, almeno in un primo tempo, cercato l'unità sognata nella direzione di una religione naturale, di cui i culti storici, religione cristiana compresa, non sarebbero stati sino ad allora che delle espressioni più o meno vicine? Come abbiamo visto nell'analisi dell'Oratio, se non si vogliono trovare degli inverosimili sottintesi, niente autorizza a soffermarsi su una simile ipotesi. Se si interessa tanto ai libri della cabala è, al contrario, perché crede di trovarvi l'annuncio, in una forma più o meno velata, dei dogmi precisi della fede cattolica dei cristiani, prima di tutto quello della Trinità e della divinità di Cristo. Nel nome stesso di Gesù, interpretato secondo il metodo e i principi della cabala, egli vede questi due dogmi fondamentali rivelati con precisione. Gli piace scoprire diversi simboli della Trinità nella teologia orfica" (pp. 313-314). Ecco un suggerimento interessante per lo studioso delle opere di De Lubac, autore famoso per far teologia attraverso la storia e per avanzare idee "nuove" attraverso la patristica.
De Lubac partecipa col più intimo affetto alla vicenda romana di Pico e quando il suo eroe si difende, il maestro della nuova teologia non si trattiene dall'annotare una sentenza che non appare priva di sapore autobiografico:" Lo capiamo. Ma siamo timorosi per lui. Il suo torto è duplice: ignora le consuetudini; ma più ancora, ha generalmente troppo ragione" (p. 415).
Non è da trascurare un altro vestigio della assimilazione fra Pico e De Lubac. Questi, infatti, non ha resistito alla tentazione di accostare ripetutamente Pico a Teilhard de Chardin. Li accomuna in una indulgente apologia di sapore agiografico (vedi, per es., p. 183), li difende in accoppiata contro i sospetti delle menti compassionate come timide [4], avalla i loro concetti quando li può definire identici (p. 76), sottolinea inquietanti analogie (pp. 190, 382, 446). Ora tutti sanno che la difesa tentata da De Lubac in favore di Teilhard de Chardin assai più che il compimento d'una doverosa amicizia: è la coerenza d'un impegno solidale.
Siamo dunque del parere che la spiegazione dell'incongruenza logica del giudizio di De Lubac sulla vicenda romana di Pico sia questa: De Lubac ha visto nella vicenda romana di Pico troppo della sua: difende se stesso.
Ma egli ha torto. Proprio mentre De Lubac ultimava il suo lavoro su Pico, il cardinale Siri dava alla stampa la prima parte delle sue "Riflessioni sul movimento teologico contemporaneo" (libro stampato dalla Fraternità della Santissima Vergine, Congregazione fondata da un insigne maestro di spiritualità, Padre Theodossios Maria della Croce); in questa edizione è messa in chiaro l'obbiettiva eterodossia del pensiero di H. De Lubac.
Una censura meritata
Già nel "libro-programma" del 1938, Catholicisme, De Lubac aveva affermato che il Cristo con la sua rivelazione aveva rivelato l'uomo a se stesso.
Il card. Siri domanda: "quale può essere il significato di questa affermazione"? E risponde: "O Cristo è unicamente uomo oppure l'uomo è divino"
E difatti la tesi del Surnaturel è la seguente: l'ordine soprannaturale è necessariamente implicato in quello naturale. E questa, riassume il card. Siri, ne sarebbe la ragione: "l'atto intellettuale comporta la possibilità di riferirsi alla nozione d'infinito, e per questo il soprannaturale è implicato nella natura di per sé".
E insiste: "Come concludere con semplicità e logica non artificiosa che il riferimento alla nozione d'infinito significa automaticamente che l'infinito sia colto?... Nessun sillogismo, sottile o complicato che sia, può colmare la differenza tra nozione dell'infinito che l'uomo può avere in lui e la realtà infinita di Dio...".
L'arcivescovo di Genova ritenne che la posizione di De Lubac non salva la gratuità dell'ordine soprannaturale, ciò che espone al pericolo di slittare verso "una specie di monismo cosmico, un idealismo antropocentrico".
Purtroppo, dice Siri, "nel suo nuovo libro Il mistero del Soprannaturale, il Padre De Lubac spiega alcune insufficienze d'espressione del suo primo libro Surnaturel, ma sostiene sem-pre la stessa tesi...".
Siri non manca di mettere in rilievo che il pensiero di De Lubac corrisponde alla dottrina dell'esistenziale soprannaturale permanente preordinato alla grazia, dottrina insegnata da un altro famoso gesuita, Karl Rahner, di cui troppo tardi "L'Osservatore Romano" indicò la discesa relativistica.
Risulta, pertanto, evidente che l'alba del Surnaturel fu, sì, incompiuta, ma per un'unica ragione: dietro di essa non veniva il Sole: era invece l'annuncio di una falsa luce.
Gli onori ecclesiastici ricevuti poi da De Lubac non cambiano nulla, specialmente adesso che De Lubac sta "dov'è silenzio e tenebra la gloria che passò".
Conclusione
Abbiamo ritenuto doveroso indicare in Henri De Lubac una fonte d'inquinamento teologico particolarmente insidiosa perché mascherata. La difesi di Pico della Mirandola è, in realtà, una autodifesa dello stesso De Lubac, degli errori sul soprannaturale per i quali egli fu, a suo tempo, oggetto di critica da parte di quasi tutti i principali teologi cattolici e, se badiamo alla sostanza, di condanna da parte dell'Humani Generis.
La mascheratura a cui De Lubac è ricorso con la riedizione aggiornata del "Soprannaturale" non è riuscita ad ingannare i teologi più avvertiti e ortodossi e il Card. Giuseppe Siri ha denunciato pubblicamente che De Lubac persevera nel suo errore.
La mascheratura del "Pico" è riuscita a suscitare un coro di ammirati consensi perché i plaudenti non hanno capito a chi serva, in realtà, l'accreditamento del cabalista conte della Mirandola.
Sappiamo che qualcuno ha supposto "azzardato" l'accostamento da noi operato. A togliere ogni perplessità è stato un famoso discepolo di De Lubac che ha scritto un libretto sul suo maestro utilizzando confidenze accuratissimamente compilate da quest'ultimo: H. U. von Balthasar [5]. L'ex-gesuita svizzero è inequivocabile: Pico è l'immagine compiuta di ciò a cui De Lubac aspirava, è l'autore modello che si muove come lo stesso De Lubac.
Non solo. Noi avevamo percepito, nella solidarietà stabilita da De Lubac tra l'opera di Pico e quella di Teilhard de Chardin, una ulteriore confessione di solidarietà con le tesi fondamentali che caratterizzano il teilhardismo. Ebbene: H. U. von Balthasar ci dà perentoria conferma: De Lubac non intende assolutamente fare alcuna concessione sulla questione dell'ortodossia di Teilhard de Chardin; in altre parole: De Lubac si contrappone al Monito della Sede Apostolica sui gravi errori filosofici e teologici contenuti nell'opera di Teilhard de Chardin e rivendica la perfetta ortodossia del gesuita evoluzionista (ossia -per chi ritiene doveroso il religioso assenso al Magistero
Ordinario - De Lubac sposa gli stessi errori di Teilhard). È strano che, ammettendo questo, H. U. von Balthasar lamenti che De Lubac non sia ben accolto "nei circoli" (!) della gerarchia della Chiesa.
La reazione suscitata dal "Surnaturel" fu "simile a quella riservata all'amico Teilhard", riconosce il teologo svizzero, che aggiunge: l'opera di De Lubac è intimamente connessa con le tesi dell'evoluzione cosmica di Teilhard ("tutta la problematica del desiderium naturae di De Lubac si radicalizza in Teilhard: tutto l'universo, a partire dal suo stadio più basso, la pura mate-ria, non è niente altro", pag. 94). L'opera di De Lubac in difesa di Teilhard, insiste H. U. von Balthasar, "dimostra che l'evoluzionismo e il movimento verso il punto Omega della storia sono essenzialmente biblici e tradizionali" (pag. 42)!
La stessa terminologia moderna (anzi: personale) usata dal De Lubac per trattare questioni assai approfondite nella tra-dizione ecclesiastica, corrisponde ad una esigenza imperiosa espressa apertamente da Teilhard ("Tutta la teologia del soprannaturale... deve assolutamente essere trasposta..." pag. 75). Perciò riteniamo: anche secondo l'ex gesuita svizzero la gerarchia cattolica, in comunione con la Sede Apostolica e soli-dale con i suoi alti avvertimenti, è in errore.
Un collega ci ha scritto per esprimere il suo dispiacere su un solo punto del nostro discorso: quello in cui abbiamo detto che le citazioni patristiche di De Lubac appaiono strumentali, una orchestrazione di difesa preventiva. Ebbene, anche su que-sto punto H. U. von Balthasar pare darci ripetutamente ragione. Per esempio, là dove dice che tali citazioni servono a velare e a svelare l'opinione dell'autore "così come l'intenzione nascosta di un drammaturgo emerge nella sua forma vera tramite le voci del coro" (pag. 28). L'ex-gesuita svizzero, inoltre, aggiunge nuovi motivi che ci rinforzano nella nostra diffidenza verso De Lubac.
Restiamo pensosi sull'insistenza con cui De Lubac si è messo a difendere "i grandi vinti" (pp. 3335) e ad accusare talvolta non senza veemenza insigni luminari della Chiesa e correnti autenticamente cattoliche; sulla sua (esagerata) ammirazione per il buddismo e per altre mistiche meritevolissime di censura; sulla stupefacente superficialità con cui egli parla di "hegelismo convertito" oppure di marxismo redimibile (accusando di autentica incredulità chi ritiene il marxismo intrinseca-mente perverso, ossia irredemibile); sulla sua condivisione di dottrine protestantiche; sul discredito che egli getta spesso in faccia alla tradizione ecclesiastica e perfino in faccia allo stesso Magistero della Chiesa, reo di non aver impedito deviazioni che hanno reso necessario il marxismo... e ci domandiamo se, per caso, l'errore di De Lubac non sia ancora più profondo e più grave di quello da noi già percepito.
E un'analoga inquietudine suscita, in noi, verso H. U. von Balthasar, la lettura del suo citato libretto: l'autore esalta il suo maestro come un genio prodigioso, un santo evangelico, un martire, soprattutto, perseguitato dalla Chiesa (naturalmente) con accuse assurde, con provvedimenti crudeli, con censure terroristiche alle quali l'eroico De Lubac, a differenza di altri più timidi di lui, quasi David solo contro Golia, avrebbe fatto fronte, impavido e micidiale, nella luce di Dio.
Del resto lo stesso H. U. von Balthasar non si avvede di confortare le argomentazioni che il card. Giuseppe Siri ha diretto contro la tesi basilare di De Lubac.
Eh, sì! Bisogna rileggere l'opera di H. U. von Balthasar in chiave diversa da quella usuale.
Note:
[1] L'atteggiamento di Alessandro VI verso gli ebrei è oggetto di riserve e discussioni, ma la questione non sembrerebbe incidere su quella che qui ora ci occupa. Sul significato riconciliatore del documento di Alessandro VI, vedi De Lubac p. 452.
[2] L'opera uscì nel 1946 (secondo alcuni "sodali" di De Lubac, faceva parte di una "covata" culturale della "resistenza" nientemeno! ecclesiastica: tesi che pare del tutto ideologica, fabbricata col senno di poi per mero conformismo). Dopo l'enciclica "Humani Generis", De Lubac fu sospeso dall'insegnamento della teologia, ma ritornò "sopra il moggio" con l'avvento del nuovo papa, durante il Concilio. Nel periodo di "silenzio" (ancora nel 1957, nonostante fosse noto l'ammorbidimento di Pio XII, De Lubac rifiutava di parlare di teologia con qualsiasi persona che capitasse a Lione prove-niente da Roma), De Lubac si dedicò allo studio del buddismo e della storia della esegesi. La sua opera sul "soprannaturale" ricomparve, riveduta, nel 1965, in due volumi, editi poi anche in Italia da "Il Mulino" (ambigua editrice legata ad ambienti mondialisti con l'obbiettivo di ammorbidire i cattolici e disporli a tutti i compromessi, sotto guida liberale, ossia relativista). In questo libro su Pico viene citata anche l'ediz. del '46.
[3] Nel '38 uscì il suo libro sul cattolicesimo (nel quale si parla di cristianesimo anonimo), libro definito dal suo discepolo von Balthasar il libro programma. Nel '41 uscì De la connaissance de Dieu, che cadde sotto la censura. Allora De Lubac inaugurò la sua strategia di difesa: il ricorso alle autorità patristiche.
[4] Sospetti di panteismo, vedi p. 11. Qualcuno potrebbe tentare un altro accostamento fra i due sulla base delle amicizie femminili. Pico, come abbiamo accennato, fu-anche in questo - uomo del suo tempo e del suo ambiente (p.393), ma De Lubac porterebbe subito in campo l'Éternel Feminin, ch'egli stesso cita a p. 370.
[5] H. U. VON BALTHASAR: Il padre Henri De Lubac. La tradizione fonte di rinnovamento, Milano 1978.
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