LA VIRTÙ DELLA FORTEZZA
LA VIRTÙ
DELLA FORTEZZA 1075-1.
1075. La
giustizia, integrata dalla religione e dall'ubbidienza, regola le nostre
relazioni col prossimo; la fortezza e la temperanza regolano le relazioni con
noi stessi. Tratteremo qui della fortezza, descrivendone:
·
1° la natura;
·
3° i mezzi di praticarla.
§ I.
Natura della virtù della fortezza.
Ne esporremo:
·
1° la definizione;
·
2° i gradi.
1076. Questa
virtù, che vien detta fortezza d'animo, forza di carattere, o cristiana
virilità, è una virtù morale soprannaturale che rinsalda l'anima nel
perseguire un bene difficile, senza lasciarsi scuotere dalla paura, neppure dal
timor della morte.
A) Il suo oggetto
sta nel reprimere le impressioni del timore che tende a intorpidire gli
sforzi per il bene, e nel moderare l'audacia che, senza di lei, diverrebbe
facilmente temerità: "Et ideo fortitudo est circa timores et audacias,
quasi cohibitiva timorum et audaciarum moderativa" 1076-1.
1077. B)
I suoi atti si riducono a due principali: intraprendere e sopportar
cose difficili: ardua aggredi et sustinere.
a) La fortezza
consiste prima di tutto nell'intraprendere e nell'eseguire cose
difficili: vi sono in fatti sul cammino della virtù e della perfezione molti
ostacoli, difficili a vincersi, sempre rinascenti. Non bisogna averne paura,
anzi affrontarli e fare animosamente lo sforzo necessario per superarli: è il
primo atto della virtù della fortezza.
Quest'atto suppone: 1) risolutezza,
per accingersi prontamente a fare il proprio dovere ad ogni costo; 2) coraggio,
per fare sforzi proporzionati alle difficoltà, generosità via via crescente con
queste, viriliter agendo; 3) costanza, per continuare lo
sforzo sino alla fine, nonostante la persistenza e i contrattacchi del nemico.
b) Ma bisogna
pure saper soffrire per Dio le molteplici prove e difficili che egli ci
manda, i patimenti, le malattie, gli scherni, le calunnie di cui si è vittima.
È spesso cosa anche più difficile
dell'operare: "sustinere difficilius est quam aggredi," dice
S. Tommaso 1077-1; e ne dà tre
ragioni.
1) Il tener duro suppone che uno sia
assalito da nemico superiore, invece chi assale si sente superiore
all'avversario; 2) chi sostiene l'urto è già alle prese con le difficoltà
e ne soffre, chi assale invece non fa che prevederle; ora un male presente è
più temibile di quello che solo si prevede; 3) la resistenza suppone che
uno rimanga fermo e duro sotto l'urto, per un tempo notevole, per esempio
quando si è inchiodati a letto da lunga malattia, o quando si provano violente
o lunghe tentazioni; chi invece intraprende una cosa difficile fa uno sforzo
momentaneo, che generalmente non dura poi così a lungo.
II.
Gradi della virtù della fortezza.
1078. 1°
Gl'incipienti lottano animosamente contro le varie paure che si
oppongono all'adempimento del dovere:
1) La paura delle fatiche e dei pericoli,
pensando che l'uomo ha beni più preziosi della fortuna, della salute, della
riputazione e della stessa vita: i beni della grazia, preludio della
felicità eterna; onde conchiudono che bisogna generosamente sacrificare i primi
per conquistare i beni imperituri. Si persuadono che il solo vero male è il peccato;
male quindi che dev'essere schivato ad ogni costo, anche a rischio di tollerar
tutti i mali temporali che potessero rovesciarcisi addosso.
1079. 2)
La paura delle critiche o degli scherni, ossia il rispetto
umano, che ci porta a trascurare il nostro dovere per timore dei giudizi
sfavorevoli che si faranno contro di noi, delle canzonature che si dovranno
subire, delle minaccie che ci scaglieranno addosso, delle ingiurie ed
ingiustizie di cui saremo vittime. Quanti uomini, intrepidi sul campo di
battaglia, indietreggiano dinanzi a queste critiche o a queste minaccie! E
quanto importa educar la gioventù al disprezzo del rispetto umano, a quel
maschio coraggio che sa infischiarsi della pubblica opinione e seguir le
proprie convinzioni senza macchia e senza paura!
3) La paura di dispiacere agli amici,
che è talora più terribile di quella d'incorrere la vendetta dei nemici. Eppure
bisogna ricordarsi che è meglio piacere a Dio che agli uomini, che chi ci
impedisce di fare intieramente il nostro dovere è un falso amico e, a voler
piacere a lui, si perderebbe la stima e l'amicizia di Nostro Signore Gesù
Cristo: "Si adhuc hominibus placerem, Christi servus non essem". 1079-1 A più forte
ragione non bisogna sacrificare il dovere al desiderio di vana popolarità:
gli applausi degli uomini passano; sola durevole, sola veramente degna di noi è
l'approvazione di Dio, giudice infallibile. Concludiamo quindi con
S. Paolo che l'unica gloria da cercare è quella che viene dalla fedeltà a
Dio e al dovere: "Qui autem gloriatur, in Domino glorietur. Non enim
qui seipsum commendat, ille probatus est, sed quem Deus commendat" 1079-2.
1080. 2°
Le anime progredite nella virtù praticano il lato positivo della
fortezza, sforzandosi d'imitar la forza d'animo onde Gesù ci diede esempio nel
corso di sua vita.
1) Questa virtù appare nella vita nascosta:
fin dal primo istante Nostro Signore si offre al Padre per sostituire tutte le
vittime dell'Antica Legge immolando se stesso per gli uomini. Ben sa che la sua
vita sarà così un martirio; ma questo martirio egli liberamente vuole.
Abbraccia quindi con ardore fin dalla nascita la povertà, la mortificazione e
l'obbedienza, si assoggetta alla persecuzione e all'esilio, si chiude per
trent'anni in un'intiera oscurità, onde meritarci la grazia di santificare le
azioni più ordinarie e ispirarci l'amore dell'umiltà; insegnandoci così a
praticar la fortezza e il coraggio nelle mille piccole circostanze della vita
comune.
2) Questa virtù appare nella vita pubblica:
nel lungo digiuno che Gesù s'impone prima di iniziare il suo ministero, nella
vittoriosa lotta che sostiene contro il demonio; nella predicazione, ove,
affrontando i pregiudizi ebraici, annunzia un regno tutto spirituale, fondato
sull'umiltà, sul sacrificio, sull'abnegazione e insieme sull'amor di Dio; nel
vigore con cui sferza gli scandali e condanna le casuistiche interpretazioni
dei Dottori della legge; nella premura onde fugge una popolarità di cattiva
lega e rigetta la dignità regale che gli si vuole offrire; nel modo dolce
insieme e forte con cui forma gli apostoli, ne raddrizza i pregiudizi, ne
corregge i difetti e dà lezione a colui che scelse come capo del collegio
apostolico; in quello spirito di risolutezza onde sale l'ultima volta a
Gerusalemme, ben sapendo di andare incontro ai patimenti, all'umiliazione e
alla morte. Così ci dà esempio di quel coraggio calmo e costante che dobbiamo
praticare in tutte le relazioni col prossimo.
3) Questa virtù appare nella vita paziente:
in quella dolorosa agonia in cui, non ostante l'aridità e la noia, non cessa di
pregare a lungo "factus in agonia prolixius orabat";
nella perfetta serenità che mostra al momento dell'ingiusta sua cattura, nel
silenzio che serba in mezzo alle calunnie e di fronte alla curiosità di Erode;
nel dignitoso contegno davanti ai giudici; nella eroica pazienza di cui dà
prova fra i non meritati tormenti che gli infliggono, fra gli scherni onde lo
abbeverano; e soprattutto in quella calma rassegnazione con cui, prima di
spirare, s'abbandona nelle mani del Padre. Ci insegna così la pazienza
fra le più dure prove.
Come si vede, c'è qui ampia materia
d'imitazione; e, a meglio riuscirvi, dobbiamo supplicar Nostro Signore di
venire a vivere in noi con la pienezza della sua fortezza, "in plenitudine
virtutis tuæ". Ma bisogna cooperare con lui alla pratica di questa
virtù, esercitandovici non solo nelle grandi occasioni ma anche nelle mille
azioncelle che formano il minuto complesso della vita, memori che la pratica
costante delle piccole virtù richiede pari, anzi maggiore eroismo delle azioni
strepitose.
1081. 3°
Le anime perfette coltivano non solo la virtù ma anche il dono della
fortezza, come spiegheremo parlando della via unitiva. Alimentano in sè
quella generosa disposizione d'immolarsi per Dio e di subire quel martirio a
fuoco lento che consiste nello sforzo continuamente rinnovato di far tutto
per Dio e di tutto soffrire per la sua gloria.
§ II.
Le virtù alleate della fortezza.
1082. Alla
virtù della fortezza si connettono quattro virtù: due che ci aiutano a far le
cose difficili, cioè la magnanimità e la magnificenza; e due che ci aiutano
a ben soffrire, la pazienza e la costanza. Come S. Tommaso
insegna, sono insieme parti integranti e parti annesse della
virtù della fortezza.
1083. 1°
Natura. La magnanimità, che si dice pure grandezza d'animo o nobiltà di
carattere, è una nobile e generosa disposizione a intraprendere grandi cose
per Dio e per il prossimo. Differisce dall'ambizione, che è
essenzialmente egoista e cerca d'inalzarsi sopra gli altri con l'autorità e con
gli onori; carattere distintivo della magnanimità è invece il disinteresse: è
virtù che vuole prestar servizio ad altrui.
a) Suppone quindi
un'anima nobile, nutrita di alto ideale e di generose idee; un'anima
coraggiosa che sa mettere la vita in armonia con le convinzioni.
b) Si manifesta
non solo coi nobili sentimenti ma soprattutto con le nobili azioni in
tutti gli ordini: nell'ordine militare, con azioni illustri; nell'ordine
civile, con grandi riforme o grandi imprese industriali, commerciali e simili;
nell'ordine soprannaturale, con un alto ideale di perfezione tenuto
costantemente di mira, con sforzi generosi per vincersi e superarsi, per
acquistar sode virtù e praticar l'apostolato sotto tutte le forme, fondare e
dirigere opere di beneficenza, lavorare nel campo dell'azione cattolica; sempre
senza badare al danaro, alla salute, alla fama e neppure alla vita.
1084. 2°
Il difetto opposto è la pusillanimità, che, per eccessivo timore
di cattiva riuscita, nicchia e rimane inoperosa. Per scansar passi falsi, si
commette veramente la più grande delle minchionerie, cioè non si fa nulla o
quasi nulla e così si spreca la vita. O non è meglio esporsi a qualche sbaglio
anzichè restare in perpetua inerzia?
1085. 1°
Natura. Quando si ha anima nobile e gran cuore, si pratica la
magnificenza o munificenza, che ci porta a fare opere grandi e quindi
pure grandi spese richieste da tali opere.
a) L'orgoglio e
l'ambizione ispirano talora coteste opere e allora non è virtù. Ma quando si ha
di mira la gloria di Dio o il bene del prossimo, si rende
soprannaturale il natural desiderio delle grandezze, e in cambio di
capitalizzar sempre i propri redditi, si spende nobilmente il denaro in grandi
e nobili imprese: opere d'arte, monumenti pubblici, costruzioni di chiese, di
ospedali, di scuole, di Università, di tutto ciò insomma che giova al pubblico
bene; ed è allora virtù, che ci fa trionfare dell'attacco naturale al denaro e del
desiderio d'aumentare le rendite.
1086. b)
Ottima virtù, che bisogna raccomandare ai ricchi, mostrando che il
miglior uso delle ricchezze loro affidate dalla Provvidenza sta nell'imitare la
liberalità e la magnificenza di Dio nelle sue opere. Quante istituzioni
cattoliche oggi languiscono per mancanza di danaro! Non sarebbe questo un
nobile impiego degli accumulati tesori e il mezzo migliore di fabbricarsi una
ricca dimora nel cielo? E quante altre istituzioni non occorrerebbero! Ogni
generazione porta sempre la sua parte di bisogni nuovi: qui chiese e scuole da
costruire, là ministri del culto da mantenere; talora miserie pubbliche da
alleviare; altre volte opere nuove da fondare, patronati, sindacati, casse di
previdenza e di pensioni, ecc. È un vasto campo aperto a tutte le attività e a
tutte le borse.
c) Non occorre
neppure essere ricchi per praticar questa virtù. S. Vincenzo de' Paoli non
era ricco, eppure vi è uomo che abbia praticato più largamente e più saviamente
di lui una magnificenza veramente regale verso tutte le miserie del suo secolo?
che abbia fondato opere che sortirono così durevole fortuna? Quando si ha
un'anima nobile, i denari si trovano nella pubblica carità; e si direbbe che la
Provvidenza si metta al servizio di questi grandi slanci di carità, quando uno
sa confidare in lei osservando le leggi della prudenza o assecondando le
ispirazioni dello Spirito Santo.
a) La spilorceria
o grettezza comprime gli slanci del cuore, non sa proporzionare le spese
all'importanza dell'opera da intraprendere e non fa che cose piccole e
meschine. b) Lo scialacquo invece spinge a fare spese
eccessive, a prodigare il denaro senza misura, senza proporzione con l'opera
intrapresa, oltrepassando talora anche le proprie facoltà. Questo vizio è pur
detto prodigalità.
Spetta alla prudenza tener la via di
mezzo tra questi due eccessi.
III.
La pazienza. 1088-1
1088. 1°
Natura. La pazienza è una virtù cristiana che ci fa sopportare con
animo tranquillo, per amor di Dio e in unione con Gesù Cristo, i patimenti
fisici o morali. Soffriamo tutti abbastanza da farci santi se sapessimo
soffrire da forti e per motivi soprannaturali; molti invece soffrono
lagnandosi, bestemmiando, e talora anche maledicendo la Provvidenza; altri
soffrono per orgoglio o cupidigia, onde perdono il frutto della loro pazienza.
Il vero motivo che ci deve ispirare è la sottomissione alla volontà di Dio, n. 487, e per indurvici, la
speranza della ricompensa eterna che coronerà la nostra pazienza, n. 491. Ma lo stimolo più
efficace è la meditazione di Gesù che patisce e muore per noi. Se Gesù,
che era la stessa innocenza, sopportò così eroicamente tante torture fisiche e
morali, per amor nostro, per riscattarci e santificarci, non è forse giusto che
noi, che siamo colpevoli e che fummo coi peccati nostri causa dei patimenti
suoi, consentiamo a patire con lui e cogli stessi suoi intendimenti, con lui
collaborando all'opera della nostra purificazione e della nostra
santificazione, onde parteciparne poi la gloria dopo averne partecipato i
patimenti? Le anima nobili e generose vi aggiungono un motivo di apostolato:
patiscono per dar compimento alla passione del Salvatore Gesù, lavorando così
alla redenzione delle anime (n. 149). Qui sta il secreto [sic]
della pazienza eroica dei santi e dell'amor loro per la croce.
a) A principio,
si accetta il dolore come proveniente da Dio, senza mormorazioni o rivolte,
sorretti dalla speranza dei beni celesti; si accetta per riparare le colpe e
purificare il cuore, per padroneggiar le cattive tendenze, specialmente la
tristezza e lo scoraggiamento; si accetta nonostante le ripugnanze della
sensibilità, e se si chiede che il calice si allontani, si aggiunge però che si
vuole, a qualunque costo, sottomettersi alla divina volontà.
1090. b)
Nel secondo grado, si abbracciano i patimenti con ardore e risolutezza, in
unione con Gesù Cristo, onde meglio conformarsi a questo Capo divino. Si gode
quindi di poter battere con lui la via dolorosa da lui battuta dal presepio al
Calvario; si ammira, si loda, si ama in tutti i dolorosi stati per cui passò:
nella miseria a cui si condannò entrando nel mondo; nella rassegnazione
dell'umile mangiatoia che gli serve di culla, ove soffre ancor più della
ingratitudine degli uomini che del freddo della stagione; nei patimenti
dell'esiglio; [sic] negli oscuri lavori della vita nascosta; nei travagli,
nelle fatiche, nelle umiliazioni della vita pubblica; ma soprattutto nei
patimenti fisici e morali della lunga e dolorosa sua passione. Armato di questo
pensiero, "Christo igitur passo in carne, et vos eâdem cogitatione
armamini" 1090-1, uno si sente
più coraggioso di fronte al dolore o alla tristezza; si stende amorosamente
sulla croce accanto a Gesù e per suo amore: "Christo confixus sum cruci"; 1090-2 quando i dolori
si fanno più vivi, posa compassionevole e amoroso lo sguardo su lui e ode dal
suo labbro: "Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam";
la speranza di parteciparne la gloria in paradiso rende più sopportabile la
crocifissione con lui: "Si tamen compatimur ut et conglorificemur" 1090-3. Si giunge
persino, come S. Paolo, a rallegrarsi delle miserie e delle tribolazioni,
persuasi che il soffrire con Cristo è consolarlo e compierne la passione, è
amarlo più perfettamente sulla terra e prepararsi a goderne maggiormente l'amore
nell'eternità: "Libenter gloriabor in infirmitatibus meis, ut inhabitet
in me virtus Christi 1090-4... superabundo
gaudio in omni tribulatione nostrâ" 1090-5.
1091. c)
Il che conduce al terzo grado, il desiderio e l'amor del soffrire,
per Dio che si vuole così glorificare, e per le anime alla cui santificazione
si vuol lavorare. Cosa che conviene ai perfetti, e specialmente alle
anime apostiloche, ai religiosi, ai sacerdoti e alle anime elette. Tale
disposizione aveva Nostro Signore nell'offrirsi al Padre come vittima fin dal
primo ingresso nel mondo, e la esprimeva proclamando il desiderio d'essere
battezzato col doloroso battesimo della sua passione: "Baptismo habeo
baptizari et quomodo coarctor usquedum perficiatur? 1091-1"
Per amor suo e per meglio somigliarlo,
le anime perfette abbracciano gli stessi sentimenti: "perchè, dice
S. Ignazio 1091-2, come i
mondani, che sono attaccati alle cose della terra, amano e cercano con grande
premura gli onori, la riputazione e la pompa tra gli uomini... così quelli che
si avanzano nella via dello spirito e che seriamente seguono Gesù Cristo, amano
e desiderano con ardore tutto ciò che è contrario allo spirito del mondo...
cossichè, [sic] se la cosa potesse farsi senza offesa di Dio e senza scandalo
del prossimo, vorrebbero soffrire affronti, calunnie, ingiurie, essere
considerati e trattati da stupidi, senza però averci dato motivo, tanto vivo è
il desiderio di rendersi in qualche modo simili a Nostro Signor Gesù Cristo...
onde, con l'aiuto della grazia, ci studiamo d'imitarlo quanto ci sarà possibile
e di seguirlo in ogni cosa, essendo egli la vera via che conduce gli uomini
alla vita". È chiaro che il solo amor di Dio e del divin Crocifisso può
fare amare in questa guisa le croci e le umiliazioni.
1092. Si
deve andar anche più oltre e offrirsi a Dio come vittima, positivamente
chiedendogli patimenti eccezionali, sia per ripararne la gloria, sia per
ottenere qualche insigne favore? Vi furono santi che lo fecero, e oggi ancora
vi sono anime generose che vi si sentono ispirate. In generale però non si
possono prudentemente consigliare tali domande, prestandosi facilmente
all'illusione ed essendo spesso ispirate da generosità irriflessiva che nasce
da presunzione. "Si fanno, dice il P. De Smedt 1092-1, in momenti di
fervore sensibile, e passato che sia quel fervore... uno si sente troppo debole
per eseguire gli eroici atti di sottomissione e di accettazione fatti con tanta
energia nell'immaginazione. Onde fierissime tentazioni di scoraggiamento o
anche mormorazioni contro la divina Provvidenza... e fonte poi di molte noie e
fastidi per i direttori di coteste anime". Non bisogna quindi domandare da
sè patimenti o prove speciali; chi vi si senta ispirato, consulterà un savio
direttore e nulla farà senza la sua approvazione.
1093. La
costanza nello sforzo consiste in lottare e soffrire sino alla fine, senza
cedere alla stanchezza, allo scoraggiamento o alla sensualità.
1° L'esperienza infatti insegna che,
dopo sforzi reiterati, uno si stanca di fare il bene, e si annoia di
star sempre con la volontà tesa; l'osservazione è di S. Tommaso: Diu
insistere alicui difficili specialem difficultatem habet" 1093-1. Eppure la
virtù non è soda finchè non ha la sanzione del tempo, finchè non è rinsaldata
da abitudini profondamente radicate.
Questo sentimento di stanchezza produce
spesso lo scoraggiamento e la sensualità: la noia che si prova in
rinnovare gli sforzi, allenta le energie della volontà e produce un certo
abbattimento morale o scoraggiamento; allora l'amor del godere e il dispiacere
d'esserne privi ripigliano il sopravvento, e uno s'abbandona alla corrente
delle cattive inclinazioni.
1094. 2°
Per reagire contro questa fiacchezza: 1) bisogna anzitutto
ricordarsi che la perseveranza è dono di Dio, n. 127, che si ottiene con la
preghiera; dobbiamo quindi chiederla con insistenza, unendoci a Colui che fu
costante sino alla morte, e per intercessione di colei che giustamente
appelliamo la Vergine fedele.
2) Bisogna poi rinnovare il pensiero
della brevità della vita e della durata infinita della ricompensa che coronerà
i nostri sforzi: avendo tutta l'eternità per riposarci, si può ben fare qualche
sforzo e tollerare qualche noia sulla terra. Se, cio non ostante, ci sentiamo
fiacchi e vacillanti, è il caso di istantemente [sic] chiedere la grazi della
costanza, di cui sentiamo sì vivo bisogno, ripetendo la preghiera di Agostino:
"Da, Domine, quod jubes, et jube quod vis".
3) Infine bisogna rifarsi
coraggiosamente all'opera con novello ardore, appoggiati all'onnipotente grazia
di Dio, anche contro l'apparente poco buon esito dei nostri tentativi,
ricordandoci che Dio non chiede la riuscita ma lo sforzo. Non dimentichiamo
peraltro che abbiamo talora bisogno di un certo sollievo, di riposo e di svago:
homo non potest diu vivere sine aliqua consolatione. Onde la costanza
non esclude il legittimo riposo: otiare quo melius labores; tutto sta a
prenderlo conforme alla volontà di Dio, secondo le prescrizioni della regola o
d'un savio direttore.
§ III.
Mezzi di acquistare o di perfezionare la virtù della fortezza.
Rimandiamo prima di tutto il lettore a
quanto dicemmo sull'educazione della volontà, n. 811, aggiungendo alcune osservazioni
che si riferiscono più specialmente al nostro argomento.
1095. 1°
Il segreto della nostra fortezza sta nella diffidenza di noi e nella assoluta
confidenza in Dio. Incapaci di fare nulla di bene nell'ordine
soprannaturale senza l'aiuto della grazia, diventiamo partecipi della forza
stessa di Dio e riusciamo invincibili se procuriamo di appoggiarci su Gesù:
"qui manet in me et ego in eo, hic fert fructum multum 1095-1... Omnia
possum in eo qui me confortat" 1095-2. Ecco perchè
riescono forti gli umili, quando alla coscienza della propria debolezza
associano la confidenza in Dio. Questi due sentimenti bisogna quindi coltivar
nelle anime. Se si tratta di anime orgogliose e presuntuose, si insisterà sulla
diffidenza di sè; se si ha da fare con persone timide e pessimiste, si
insisterà sulla confidenza in Dio, spiegando quelle consolanti parole di
S. Paolo: "Infirma mundi elegit Deus ut confundat fortia,... et ea
qua non sunt, ut ea quæ sunt destrueret: i deboli agli occhi del mondo Dio
sceglie per confondere i forti... ciò che non è per annientare ciò che
è" 1095-3.
1096. 2°
A questa doppia disposizione bisogna aggiungere profonde convinzioni e
abitudine di operare secondo queste convinzioni.
A) Convinzioni
fondate sulle grandi verità, in particolare sul fine dell'uomo e del cristiano,
sulla necessità di sacrificar tutto per conseguir questo fine; sull'orrore che
deve ispirarci il peccato, solo ostacolo al nostro fine; sulla necessità di
sottomettere la volontà nostra a quella di Dio onde schivare il peccato e
conseguire il fine, ecc. Sono coteste convinzioni che formano i principii
direttivi della nostra condotta, e i motori che ci danno lo slancio necessario
a trionfar degli ostacoli.
B) Ecco perchè
importa molto abituarsi ad operare secondo queste convinzioni; si baderà quindi
a non lasciarsi trascinare dall'ispirazione del momento, da subitaneo impulso
della passione, dall'abitudine o dal proprio interesse; ma prima di operare uno
si chiederà: quid hoc ad æternitatem? L'azione che io sto per fare
m'avvicina a Dio e all'eternità beata? Se sì, la farò; se no, me ne asterrò.
Così, riconducendo tutto al fine ultimo, si vive secondo le proprie convinzioni
e si è forti.
1097. 3°
A meglio superar le difficoltà, è bene prevederle, guardarle in faccia e
armarsi di coraggio contro di loro; ma senza esagerarle e facendo assegnamento
sull'aiuto che Dio non mancherà di darci a tempo opportuno. La difficoltà
prevista è mezzo vinta.
1098. 4°
Infine non si dimenticherà che nulla ci rende intrepidi quanto l'amor di
Dio: "fortis est ut mors dilectio" 1098-1. Se l'amore
rende animosa e forte una madre quando si tratta di difendere i figli, che cosa
non farà l'amor di Dio quando è profondamente radicato nell'anima? Non è
l'amore che fece i martiri, le vergini, i missionari, i santi? Quando Paolo
narra per quali prove passò, quali persecuzioni, quali patimenti sostenne, uno
pensa che cosa mai ne reggesse il coraggio in mezzo a tante avversità. Ce lo
dice egli stesso: l'amor di Cristo: Caritas enim Christi urget nos. 1098-2 Ecco perchè è
senza inquietudine per l'avvenire; chi potrà infatti separarlo dall'amore di
Cristo? "quis nos separabit a caritate Christi?" Enumera le
varie tribolazioni che può prevedere, aggiungendo che: "nè la morte, nè la
vita, nè gli angeli... nè le cose presenti, nè le cose future, nè le potenze...
nè creatura alcuna potrà separarci dall'amore di Dio in Gesù Cristo Nostro
Signore" 1098-3. Ciò che diceva
S. Paolo può essere ripetuto da ogni cristiano a patto che ami
sinceramente Dio; parteciperà allora alla forza stessa di Dio": quia tu
es, Deus, fortitudo mea" 1098-4.
Estratto dal libro: Compendio
di Teologia Ascetica e Mistica, ADOLFO TANQUEREY