Il rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale nella nouvelle théologie, per il Cardinale Siri
Estratto dal libro Getsemani* del cardinale Giuseppe Siri
Il rapporto tra ordine naturale e ordine
soprannaturale
Primo post
Tre casi significativi:
Se si torna indietro di una quarantina di
anni, si vede negli scritti di alcuni teologi, un rinnovato interesse circa il
rapporto tra quello che si chiamava, fino allora, ordine naturale e ordine
soprannaturale. È indispensabile capire che questo non è un argomento astratto,
una speculazione da «dilettante», da non poter avere conseguenze di lunga
portata nel pensiero e nella vita della Chiesa. Sia in teologia che in
filosofia e nella scienza sperimentale, pochi argomenti, pochi casi sono
assolutamente neutri.
Il P. Henri de Lubac (1) aveva formulato
in quel periodo considerazioni nuove, non assolutamente nuove, ma presentate
con un linguaggio nuovo e con applicazioni particolari. Nel 1946 pubblicava il
suo libro «Il Soprannaturale», ove è espresso tutto il suo pensiero di allora
(2). Affermava che l'ordine soprannaturale è necessariamente implicato in
quello naturale. Come conseguenza di questo concetto veniva fatalmente che il
dono dell'ordine soprannaturale non è gratuito perché è debito alla natura. Allora
esclusa la gratuità dell'ordine soprannaturale, la natura per lo stesso fatto
che esiste si identifica al soprannaturale. Qual'era la ragione addotta? Il
ragionamento fondamentale può essere espresso così: l'atto intellettuale
comporta la possibilità di riferirsi alla nozione dell'infinito e per questo il
soprannaturale è implicato nella natura umana di per sé.
Si resta colpiti dall'insistenza con la
quale l'autore vuole dare un significato particolare all'espressione di San
Paolo «rivelare in me il Figlio suo»,
significato che sembra andare oltre alla spiegazione ammessa da tutti gli
esegeti che hanno interpretato la parola «in me» (***), esattamente come il
Padre M. J. Lagrange (4).
Il Padre de Lubac scrive:
«Paolo ha pronunciato una tra le parole più
nuove e più ricche di significato che mai siano state pronunciate da uomo, il
giorno in cui, costretto a presentare la propria apologia ai suoi cari Galati
per ricondurli sulla retta via, dettò queste parole: «Ma quando piacque a colui
che sin dal seno di mia madre, mi prescelse e mi chiamò mediante la sua grazia,
di rivelare in me il Figlio suo... »
(Gal. 1, 15-16). Non soltanto - qualunque sia il prodigio esteriore di cui gli
Atti degli Apostoli ci hanno trasmesso il racconto - rivelarmi suo Figlio,
mostrarmelo in una visione qualunque o farmelo comprendere oggettivamente, ma rivelarlo in me. Rivelando il Padre ed
essendo rivelato da lui, il Cristo finisce di rivelare l'uomo a se stesso.
Prendendo possesso dell'uomo, afferrandolo e penetrando fino in fondo al suo
essere, spinge anche lui a discendere in sé per scoprirvi bruscamente regioni
fino allora insospettabili. Per Cristo la persona è adulta, l'Uomo emerge
definitivamente dall'universo». (5)
Mentre, come il Padre M. J. Lagrange
scrive, «in me ***» significa:
«Per mezzo di una comunicazione intima che
ha fatto conoscere a Paolo il Figlio di Dio, tesoro della sua intelligenza e
del suo cuore (Fil. 3, 8). Dando a «***» il suo significato naturale, si prova
nel versetto 16, non un terzo beneficio di Dio verso Paolo, ma la realizzazione
nella sua anima dell'appello del versetto 15». (6)
Il Padre de Lubac dice che il Cristo
rivelando il Padre e rivelato da Lui, finisce di rivelare l'uomo a sé stesso.
Quale può essere il significato di questa affermazione? O Cristo è unicamente
uomo, o l'uomo è divino. Tali conclusioni possono non essere espresse così
nettamente, tuttavia determinano sempre questa nozione del soprannaturale in
quanto implicato nella natura umana di per sé. E quindi, senza volerlo
coscientemente, si apre il cammino dell'antropocentrismo fondamentale.
In generale l'argomentazione speculativa è
condotta come se si escludessero i principi, le nozioni accettate fino allora
come principi fondamentali della fede. Come concludere con semplicità e logica
non artificiosa che il riferimento alla nozione d'infinito significa
automaticamente che l'infinito sia colto? L'argomento è stato però ripreso
venti anni più tardi nel libro «Il Mistero del Soprannaturale» (7) con
sfumature e più preoccupato delle conseguenze che tali proposizioni possono
rappresentare per gli spiriti. È molto grave, infatti, emettere come principio che
il riferimento all'ordine dell'infinito implichi che l'essenza dell'infinito
sia la natura umana.
Nessun sillogismo, sottile e complicato che
sia, può colmare la differenza tra la nozione dell'infinito che l'uomo può
avere in lui e la realtà infinita di Dio, positiva, presunta, sentita e nello
stesso tempo inaccessibile; la differenza tra l'aspirazione verso l'infinito e
questo stesso Infinito così come l'uomo lo concepisce. Certamente si può
affermare che l'aspirazione dell'uomo verso l'eternità esprime la finalità
eterna dell'anima creata, la possibilità per l'uomo di partecipare, nella
grazia, a mille illuminazioni della Vita eterna, ma non si può dire che questa
nostalgia implichi che l'uomo esista sin dall'eternità e che possa possedere la
pienezza eterna di Dio. Allo stesso modo, la nozione dell'infinito,
l'aspirazione verso l'infinito esprimono la possibilità per l'uomo di entrare
in contatto continuo con l'infinità di Dio. Non si può dire, però, che questa
aspirazione dell'uomo verso l'infinito significhi che l'uomo possa partecipare
per identità all'infinità divina. In questa aspirazione dell'uomo verso
l'infinito sono sempre presenti la nozione e la certezza dei nostri limiti. Il
nostro cammino può essere interminabile, ma la stessa essenza del nostro
cammino verso l'infinito manifesta la differenza tra la nostra nozione, la
nostra partecipazione e l'Infinito Divino.
Nel 1950, quattro anni dopo la
pubblicazione del «Soprannaturale», è stata emessa dalla Chiesa l'Enciclica di
Pio XII «Humani Generis». Ed a proposito di queste concezioni Pio XII dice
espressamente in questa enciclica:
«Alcuni deformano la vera nozione della
gratuità dell'ordine soprannaturale, quando pretendono che Dio non può creare
esseri dotati d'intelligenza senza chiamarli e ordinarli alla visione
beatifica». (8)
Indipendentemente dal consenso o dalle
critiche sollevate da questa enciclica, è incontestabile che Pio XII fu il
primo a mettere il dito sul punto estremamente delicato e pericoloso di questa
definizione dell'uomo e dei suoi rapporti con Dio. Se Dio, quando crea, imprime
nella creatura ciò che abbiamo concepito come soprannaturale, allora cambia la
nozione di questo soprannaturale e della gratuità; da cui deriva, malgrado
tutti gli sforzi per professare la gratuità dell'atto creatore di Dio, una
moltitudine di considerazioni sull'uomo, sulla sua libertà, sulla grazia, sui
rapporti dell'uomo con Dio, sulla libertà dell'uomo e sulla libertà di Dio,
ecc... Considerazioni che possono condurre anche come spesso hanno condotto -
al capovolgimento dei principi essenziali della Rivelazione. Facilmente questa
nongratuità dell'ordine soprannaturale - per ogni singolo caso - conduce ad
una specie di monismo cosmico, ad un idealismo antropocentrico.
***
Nel suo nuovo libro «Il Mistero del
Soprannaturale», il Padre de Lubac spiega alcune insufficienze d'espressione
del suo primo libro «Il Soprannaturale», ma sostiene sempre la stessa tesi e
vuole soltanto evitare nuovi malintesi. (9)
Egli produce e intreccia, con una sorprendente
sagacità, sillogismi e speculazioni, nello sforzo di equilibrare i due
concetti: da un lato il soprannaturale implicato nella natura sin dalla
creazione, e dall'altro la gratuità del soprannaturale, della grazia. Si
preoccupa di respingere l'accusa dell'«Humani Generis»... Chi ha letto il suo
libro si accorge chiaramente di questa preoccupazione del P. de Lubac e
sicuramente formulerà la stessa domanda, posta dallo stesso P. de Lubac verso
la fine del libro: «Per quale ragione ci dilunghiamo invano su questo argomento
con tanti discorsi e moltiplichiamo inutilmente tante frasi e diciamo una tale
moltitudine di parole? (10)
«Ecco forse, continua de Lubac, quello che
più d'un lettore avrà potuto dire, scorrendo questo lavoro. Ecco, ad ogni modo,
quello che l'autore non ha potuto mancare di domandarsi assai spesso, al
seguito d'un discepolo medievale di Sant'Agostino e di San Tommaso che un
giorno s'interrogava in tal modo, precisamente a proposito del nostro
argomento». (11)
Un umile interrogativo; la risposta però
che lo stesso P. de Lubac dà più sotto alla sua domanda lascia perplessi: «La
risposta è scritta nella natura della nostra intelligenza, che non può ricevere
la rivelazione divina senza che subito sorgano in essa mille questioni, che si
generano l'una dall'altra. Essa non può fare a meno di rispondervi. Ma nelle
sue spiegazioni, sempre barcollanti, per quanto avanti sembri andare, sa di non
andar mai incontro a terre sconosciute». (12)
Questa risposta del P. de Lubac rivela i
suoi criteri riguardo alle vie della conoscenza ed anche il suo atteggiamento
intellettuale riguardo al grande problema dei rapporti tra l'uomo e Dio. Questo
spiega l'impossibilità di trovare per questa via l'equilibrio di cui abbiamo
parlato ed una conoscenza che, in armonia con la Rivelazione , con la
miseria e la profonda aspirazione dell'uomo, dia pace. I nostri criteri
riguardo alle vie della conoscenza sono veri ed oggettivi quando scaturiscono e
sono in armonia stabile, chiara e immediata con i grandi dati eterni della
Rivelazione.
In ogni caso, il P. de Lubac parla di un
«desiderio naturale assoluto» della visione di Dio. Questa nozione del
desiderio naturale assoluto scarta, malgrado tutti gli sforzi speculativi
impiegati, la gratuità del soprannaturale, cioè della visione beatifica. Ed in
questo «l'intelligenza» a cui sopra si riferisce il P. de Lubac non può essere
da sola di grande aiuto. Infatti resta l'antinomia. Essa resta ed ha avuto
conseguenze molto grandi nelle coscienze.
Per rendersi conto dell'orientamento
generale del pensiero e del linguaggio del P. de Lubac e del suo ruolo nella
nuova teologia contemporanea, ed anche per rendersi conto di come resti
l'antinomia, di cui abbiamo parlato, basta riferirsi ad alcune formule e ad
alcune affermazioni fondamentali del «Mistero del Soprannaturale»:
-
Primo tipo di affermazioni:
«Il 'desiderio di vedere Dio' non potrebbe
essere eternamente frustrato senza una sofferenza essenziale». (13)
«La vocazione di Dio è costitutiva. La mia
finalità, di cui questo desiderio è l'espressione, è scritta nel mio essere
stesso, tale come è posto da Dio in questo universo. E, per volontà di Dio, io
non ho oggi altro fine reale, cioè realmente assegnato alla mia natura e
offerto alla mia adesione - sotto qualsiasi forma ciò si verifichi - che quello
di 'vedere Dio'». (14)
«In altri termini: il vero problema, se ce
n'è uno, si pone per l'essere, la cui finalità è 'già', se si può dire, tutta
soprannaturale, poiché tale è, in effetti, il nostro caso. Si pone per la
creatura per la quale la 'visione di Dio' imprime non soltanto un fine
possibile, o futuribile - persino il fine che conviene di più - ma il fine che,
a giudicare umanamente, sembra dover essere, poiché è, per ipotesi, il fine che
Dio assegna a questa creatura. Dal momento che io esisto, ogni indeterminazione
è tolta. E qualunque cosa sarebbe potuto essere prima, o qualunque cosa esso
sarebbe potuto essere in un'esistenza realizzata in modo diverso, nessun'altra
finalità sembra ormai per me possibile che quella che si trova ora, di fatto,
iscritta nel fondo della mia natura. Esiste un solo fine di cui, per
conseguenza, porto in me, consapevole o no, il 'desiderio naturale'». (15)
E, a questo proposito il P. de Lubac
afferma la corrispondenza del suo pensiero con la dottrina dell'«esistenziale
soprannaturale permanente, pre-ordinato alla grazia» del P. Karl Rahner, di cui
parleremo più oltre. (16)
- Secondo tipo di affermazioni:
«Il nostro Dio è 'un Dio che sorpassa ogni
capacità di desiderio' (Ruysbroeck). È un Dio, nei confronti del quale sarebbe
blasfemo e folle supporre che alcuna esigenza di qualsiasi ordine possa mai
imporglisi, qualunque sia l'ipotesi nella quale uno voglia porsi in spirito, e
qualunque sia la situazione concreta nella quale si possa immaginare la
creatura». (17)
«Dio avrebbe potuto rifiutarsi alla sua
creatura proprio come Egli ha potuto e voluto donarsi. La gratuità dell'ordine
soprannaturale è particolare e totale. Lo è in se stessa. Lo è per ciascuno di
noi. Lo è in 'rapporto a ciò che per noi, temporalmente e logicamente, lo
precede. Anzi - ed è questo che alcune teorie, che noi abbiamo discusso, non ci
è sembrato lascino vedere abbastanza - questa gratuità è sempre intatta. Lo
resta in ogni ipotesi. È sempre nuova. Resta in tutte le tappe della
preparazione del Dono, in tutte le tappe del Dono stesso. Nessuna
«disposizione», nella creatura potrà mai, in nessuna maniera, legare il
Creatore. Constatiamo qui con gioia l'accordo sostanziale non soltanto di
sant'Agostino, di san Tommaso e degli altri antichi, ma anche di san Tommaso e
dei suoi commentatori, a cominciare dal Gaetano; come anche di teologi che, nel
nostro stesso secolo, divergono più o meno nei loro tentativi di spiegazione.
Come il dono soprannaturale mai in noi è naturalizzabile, mai la beatitudine soprannaturale
può divenir per noi - qualunque sia la nostra condizione reale o semplicemente
pensabile - una meta 'necessaria ed esigibile'». (18)
Solo queste affermazioni, citate come
esempio, sarebbero sufficienti per mettere in evidenza l'antinomia e il vicolo
cieco nel quale il P. de Lubac fa entrare il pensiero ed il cuore, nel
tentativo di fondare la sua propria dottrina riguardo al soprannaturale. Si
sollevano numerose questioni senza possibilità di risposta o di un orientamento
del pensiero che dia pace. Come capire per esempio che il mio «fine reale» -
cioè «vedere Dio» - è «assegnato alla mia natura»? E che allo stesso tempo è
offerto alla mia adesione? Quando accade questo? Al momento della mia
creazione, o dopo durante il tempo della mia vita terrestre? Se accade al
momento della mia creazione, come posso scegliere la mia adesione? Se avviene
dopo, durante la mia vita, come posso dire che «la vocazione di Dio è
costitutiva» cioè la mia vocazione alla visione di Dio è una parte integrante
della creatura che sono?
Se «dal momento che esisto, ogni
indeterminazione è tolta», come potrebbe aver luogo allora la mia adesione dopo
i primi momenti della mia esistenza? Infatti, se tutto è determinato in modo
assoluto, come insiste de Lubac, non c'è la possibilità per me di adesione o di
non adesione.
Se porto in me, anche senza averne
coscienza - come dice il P. de Lubac - il «desiderio naturale», com'è offerto
questo fine alla mia adesione?
Il P. de Lubac ripete che Dio poteva non
crearmi. Ha però voluto crearmi. Allora ci si può chiedere: una volta che mi ha
creato, come posso dire che non è impegnato, sin dalla mia creazione, a darmi
la gioia di vederlo, poiché il desiderio naturale assoluto di vederlo, l'ha
messo egli stesso al centro del mio essere col suo atto creativo?
Se ammetto che con il suo atto creativo Dio
è impegnato e non può rifiutarmi il mio compimento, cioè la gioia di vederlo,
come potrei dire che «la gratuità dell'ordine soprannaturale è particolare e
totale; lo è in se stessa, lo è per ciascuno di noi»? Si potrebbe anche
pretendere che la gratuità dell'ordine soprannaturale è la gratuità della
creazione, cioè ammettere l'identità dell'ordine naturale e soprannaturale;
questo però il P. de Lubac non vuole ammetterlo. Accetta che ci sia la grazia
della creazione e che a parte ci sia la grazia della chiamata soprannaturale.
Come possiamo dire che «nessuna
disposizione nella creatura potrà mai in nessuna maniera legare il Creatore», e
nello stesso tempo dire che «la vocazione di Dio è costitutiva»? Tale
«disposizione», infatti, il Creatore l'ha imposta alla creatura. Come dunque
proporre che «la propria disposizione di Dio non lo lega in nessuna maniera»?
Quale idea potremmo avere allora del Creatore e della sua suprema libertà?
Non è né logicamente né spiritualmente
conveniente presentare in tutti i modi - com'è nel caso della citazione del P.
de Lubac sopra riportata - che Dio non è stato obbligato a crearci così come ci
ha creati, per affermare la gratuità dell'ordine soprannaturale; non è
conveniente, perché è confondere i problemi e le realtà. Dire infatti, che Dio
avrebbe potuto rifiutare di donarsi alla sua creatura, come ha potuto e ha
voluto farlo, è come parlare dell'inizio della creazione dell'uomo, perché la
frase significa che Dio ha già scelto di donarsi. E quando parliamo della
gratuità dell'ordine soprannaturale, parliamo di tutte le grazie e di tutti gli
interventi di Dio nella nostra vita terrestre, ciò senza nessun merito e
nessuna possibile esigenza da parte nostra.
Se «dal momento che esisto, ogni
indeterminazione è tolta», cioè se tutto è iscritto nell'uomo sin dal momento
della sua creazione e in modo assoluto, come dice il P. de Lubac, come la
creatura non avrebbe un'esigenza per gli appetiti in essa iscritti, e come concepire
che il Creatore di questi appetiti e di questi desideri «non sia legato in
nessun modo»?
Ci si
può porre un'infinità di tali domande che si estendono a tutti i domini e sotto
parecchie angolature, dalla definizione del soprannaturale fino alle più evidenti
e pratiche conseguenze nella vita della Chiesa. Più tardi, però, ed in una
prospettiva più globale, si potrà meditare più profondamente sull'insieme di
questo grave problema. Per il momento, è sufficiente non dimenticare questo: se
si può dire che l'uomo sin dalla sua creazione porta la possibilità di
ascoltare la chiamata di Dio per il fine soprannaturale al quale è destinato,
non significa che questa possibilità di ascoltare sia già la chiamata, e che il
soprannaturale, al quale l'uomo è chiamato, sia già presente in lui.
*Libro disponibile per il download all'indirizzo:
http://www.totustuus.it/modules.php?name=Downloads&d_op=getit&lid=313
(1) HENRI DE LUBAC S. I., nato nel 1896,
professore nella Facoltà teologica di Lyon-Fourvière e nell'Istituto Cattolico
di Parigi, perito al Concilio Vaticano II, membro della Commissione Teologica
Internazionale.
(2) H. DE LUBAC, «Surnaturel», Etudes historiques. Ed. du
Seuil, Paris 1946.
(3) H. DE LUBAC, Catholicisme, les aspects sociaux du dogme.
Ed.
du Cerf, Paris 1938; 4a ed. 1947.
(4) MARIE-JOSEPH LAGRANGE O.P.
(1855-1938), professore di esegesi nell'Istituto Cattolico di Toulouse e fondatore
dell’"Ecole Biblique de Jérusalem".
(5) H. DE LUBAC, Catholicisme, ed. cit. pp. 295-296
(6) M. J. LAGRANGE, l'Epitre aux Galates, Lecoffre ed., Paris 1918, p. 14.
(7) H. DE LUBAC, Le Mystère du Surnaturel, Aubier, Paris 1965; Ed. italiana, Il Mistero del Soprannaturale, Il Mulino
ed., Bologna 1967.
(8) cf. Denz. 3891.
(9) Il
Mistero del Soprannaturale, p. 76.
(10) «Ut quid in vanum bane materiam in tot
sermones prorumpimus, et frustra tot eloquia multiplieamus et in tantam
verborum multitudinem jacimus?». (Il
Mistero del Soprannaturale, p. 308).
(11) Il
Mistero del Soprannaturale, p. 308, citazione d'Egidio Romano.
(12) Il
Mistero del Soprannaturale, p. 308
(13) Il
Mistero del Soprannaturale, p. 80.
(14) Il
Mistero del Soprannaturale, p. 80.
(15) Il
Mistero del Soprannaturale, p. 82.
(16) Il
Mistero del Soprannaturale, p. 82 nota. 4.
(17) Il
Mistero del Soprannaturale, p. 306.
(18) Il
Mistero del Soprannaturale, p. 307.