P. GUIDO MATTIUSSI, S.J.: FEDE E MENTE MODERNA
Non è lecito tra noi mettere in dubbio che la fede, la vera fede di Gesù Cristo, sia possibile agli uomini di qualunque secolo e di qualunque cultura ; perchè il Signore ha comandato di annunciarla a tutti, e ha detto che chi non crederà sarà condannato : qui non crediderit condemnabitur . Dunque a tutti è possibile il credere; e «e giustamente si dice che la fede è un dono di Dio, conviene aggiungere che è un dono offerto a tutti, e ha colpa chi lo respinge. Eppure a molti sembra di asserire una sentenza ovvia e certa, dicendo che i dotti non possono credere. Chi crede, è persuaso di possedere la verità ; gli eruditi con i loro studi la vanno sempre cercando. Chi crede, si soggetta al giudizio altrui, o all'autorità di chi parla ; il sapiente vuole giudicar da se stesso. Chi crede, sta fermo nella dottrina professata da molti secoli ; chi studia va progredendo ognora, e rigetta *come viete e superate le opinioni antiche. Così molti increduli, i quali non sanno quanto la verità divina, che teniamo per fede, sia più alta di quella eh' è oggetto dei loro studi, e l'assenso di fede sia più certo.
I modernisti, tumultuanti pochi anni or sono, protestavano che la Chiesa, restando ierma nell'enunciazione dei suoi dogmi, formulati secondo la greca filosofìa, che fioriva dal tempo del Concilio di Nicea fino a quello del Concilio di Trento, o era destinata a finire, o si sarebbe ridotta a una greggia d'idioti : tutti gli studiosi sarebbero costretti ad abbandonarla. E i più sdegnosi gridavano di abbandonarla al suo destino; e dicesse pure d'avere Dio con sè, essi erano certi che Dio sta con l'umanità progrediente, e la Chiesa rimarrebbe disprezzata e sola. I più dolci piangevano sulla sorte di tante anime oneste e buone, assetate di verità, che la Chiesa non cura, perchè non vuole adattarsi alla nuova cultura e all'usato linguaggio ; a un linguaggio che le anime moderne possano intendere, alle idee con cui hanno formate le menti. Oh perchè lasciarle perire; II soave Maestro di Nazaret non le avrebbe trattate così; Egli che con parabole tutte ispirate al suo paese e al suo tempo istruiva sì bene il popolo circostante. Porta il nome di Cristo, ma non è più cristiana nello spirito e nell'azione, la Chiesa che ci lascia morir di fame e non sente pietà della nostra sete.
Così in sentenza il Tyrrell, e altri del suo sentire, inclinato a dolcezza. Ma con severo cipiglio di maestro che sentenzia e condanna inappellabilmente, il Le Roy, un professore di matematica trasformato in filosofo (la prova riuscì disgraziata anche al Descartes), alzando una voce sicura, dichiarò che nessuna autorità di Papi o di Concili potrà restituire un valore o un senso alle parole antiche e antiquate, che l'hanno perduto per sempre, È inutile qualunque discorso, che nomini supposto e persona, sostanza e accidenti, realtà assolute e relative; unità ipostatica, codsostanzialità, transustanziazione, e altre simili voci sesquipedali, non dicono più nulla a noi discepoli o maestri della nostra età. Se la Chiesa vorrà farsi udire o farsi intendere, dovrà prendere i vocaboli delle nostre scuole, come nel medio evo volle prenderli da Aristotele e da Platone. Erano voci usate e idee non dispregevoli a quei tempi; or son cadute e sorpassate ; è necessario parlarci secondo Kant e secondo Hegel, non inferiori a quegli antichi. Torna l'esempio di Gesù, che parlava con istile orientale e non con i modi occidentali, e argomentava secondo i pensieri allora correnti. Così essi, e quanto al benedetto Gesù, nominato con finta dolcezza e scoronato per essi della Divinità, mostrano di non ricordare com'Egli si facesse conoscere e intendere dai semplici e dagli umili, ma resistesse ai superbi, ai quali diceva di parlare in guisa che udendo non capissero e guardando non vedessero; come rigettasse tutte le inutili cerimonie indotte dei farisei ; come condannasse quelli appunto che s'erigevano a maestri, contro l'immobile verità della Scrittura e di Dio; come insómma fosse venuto ad esser segno di contraddizione e di odio per il mondo orgoglioso, la quale eredità lasciò alla sua Chiesa.
Possiamo sperare di ricondur costoro alla fede?
Noi sappiamo come questa sia opera divina, e sta la parola dei Signore Gesù: Nemo venit ad me, nisi Pater meus traxerit eum: è necessaria la grazia divina, ond'è ogni principio di vita eterna.
Ma la grazia suole operare in guisa da non parere violenta, o in modo sensibile miracolosa. È rarissimo il caso d'una subita mutazione, come quella di Saulo sulla via di Damasco. Vero è di più che il sentimento e l'affetto sogliono avere gran parte nella conversione di quelli che vengono dall'incredulità o da una falsa opinione alla verità cattolica. Tuttavia, come la fede è assenso intellettivo, di sua natura esige qualche preparazione dell'intelletto; e, se prima di credere a chi parla è necessario udire la sua parola, dobbiamo per credere a Dio accertarci ch'Egli ha parlato. E stando a questo, noi domandiamo se è possibile impresa quella di persuadere gli eruditi del tempo nostro ad abbracciare la nostra fede. Ossia, possiamo noi ragionare con essi in maniera da convincerli ? Per qual via dobbiam tentare l'impresa? Sono costoro capaci d'intenderci, o sapremo noi farci capire?
Perchè, senza dubbio, la verità divina è immutabile; e divina è la verità che gli Apostoli ci hanno predicato. Infallibilmente vere sono eziępdio le formole definite dai Concili e dai Papi. Non possiamo adattarci in guisa o da sconfessare la minima asserzione già fatta certa, o accettare una sola espressione, che ne alteri il senso e l'antica intelligenza : l'ha definito il Concilio Vaticano. Alla sdegnosa dichiarazione del Le Roy, professore di matematica, rispondiamo che da false filosofìe non possiamo prendere voci e concetti, ove la verità sarebbe distrutta ; che la Chiesa ha insegnato e definito sotto l'indefettibile assistenza di Dio e non può disdirsi ; che se il Le Roy non c'intende, tocca a lui studiare per correggersi de' suoi pregiudizi e diventar capace della nostra dottrina. Questo vale per lui e per tutti i suoi simili.
Chiunque di rifarsi sopra di sè si rifiuti, è inutile disputare, non può essere condotto alla fede. Sarebbe come far vedere a un cieco, mentre resta cieco, o far vivere un morto che resta morto. Dobbiam supporre che resistenza ostinata e invincibile non vi sia; anzi prevalga la buona natura e la sete intellettuale che cerca la verità. Qui vogliamo provarci a fare un'analisi, che ci mostri la particolare difficoltà, onde son tenute le menti dal sentir la forza delle ragioni conducenti alla fede. Non sarà un'analisi molto minuta, chè diverrebbe lunga assai ; ma tale da mettere in vista le precipue cagioni di cotal malattia, o le principali fonti onde il veleno troppo oramai diffuso suol derivare. Poi verremo, se Iddio vorrà, a indicare il rimedio di cotesto morbo letale, dichiarando come l'intelletto possa rinvenire dal suo errore, e guarito possa prepararsi a ricevere il dono della fede, benché nè pur questo faccia senza l'aiuto d'una grazia che a tutti è offerta. In terzo luogo diremo come venga ad emettere finalmente il vero atto di fede.
I - MENTI INDISPOSTE
Non intendiamo di enumerare e di confutare i singoli errori, nei quali chi si ferma, nega qualche verità presupposta alla fede, e così da questa rimane lontano necessariamente. Piuttosto intendiamo discorrere di quelle dottrine o di quei sistemi filosofici, ond'è guasto l'intelletto, sì che diventa ritroso a vedere i principi d'ogni scienza, a ragionar drittamente, all'esercizio naturale degli atti suoi. Più che un determinato errore, diventa un'abituale infermità della mente.
Senza dubbio è un errore gravissimo e fondamentale il materialismo, e chi vi si fissa nega radicalmente ogni verità divina e ogni fede religiosa. Esso induce pure una grande debolezza intellettuale, in quanto avvezza la mente a non elevarsi sopra i fantasmi e le facoltà sensitive ; di che diremo alcuna cosa più sotto. Ma ora, riguardando quell'errore come una falsissima negazione di qualsiasi entità superiore alla materia, e supponendo che chi delira così non vi si ostini per rea volontà, nè per libidine di far guerra alla Chiesa, osserviamo che non è impossibile discorrere con esso lui e mostrargli la contraddizione della sua sentenza. Gli chiederemo che cosa intenda per materia: e, se intende quello che volgarmente ci sta dinanzi, come sostanza estesa e mobile, e la cui attività si limita all'energia produttrice del moto sensibile, lo convinceremo che l'aver coscienza di sè e il percepire verità astratte e l'aspirare ad una felicita lontanissima da ciò che è corporeo, non può essere atto di quella medesima materia. Che se a questa attribuisce attività superiori, colui chiama materia ciò che non suol venire sotto questo nome, te allora è materialista di nome, senza saper quel che dice. Cederà all'argomento o non cederà, secondo che l'avrà capito, o vorrà attendere; ma logicamente sarebbe costretto a cedere.
Sia terzo esempio la negazione del soprannaturale, caparbiamente posta come necessaria e assoluta dai razionalisti. Ora come dimostrano costoro che il concetto di ente sopra natura mette insieme il sì e il no della stessa cosa ? Per natura intendiamo la propria costituzione delle sostanze, con ciò che dalle loro forze può venire. Ohi proverà che non v' è una cagione più alta di co teste cose, potente su di esse, valevole a produrre effetti più alti ? Debbono sentire il capriccioso arbitrio ch'è il loro, assumendo come principio certo quello che a noi appare certamente falso.
Tutti costoro sono falsi ed assurdi ; abusano dell'intelletto per dire assurdità, ma non hanno distrutto alla radice la facoltà intellettiva, negando di poter conoscere il vero: anzi pretendono di conoscerlo e di affermarlo. Invece è ora comune una strana perversione intellettuale, per la quale è toccato il valore primo ed essenziale della conoscenza, e ne sono condotti a non poter più affermare o negar nulla, a nè pur dubitare se una enunciazione sia vera o falsa; poiché arreticati in un inestricabile scetticismo, fanno perire il concetto assoluto di verità.
1. - Prima radice del dubbio: il kantismo
Un troppo facile ammiratore del pensiero moderno predicava un giorno dal pergamo: Signori, E. Kant ha fatto la critica della ragione, l'ha riconosciuta impotente ; così ha dimostrato la necessità della fede.
Non dubitiamo che quel sacerdote, interrogato s'egli intendesse di aderire al criticismo kantiano, rovesciando con Emm. Kant il mondo, e ponendo che non dagli oggetti esterni a noi venga la forma delle idee, sì che noi regoliamo il mondo fuori di noi, come un dormiente va creando il suo sogno ; egli avrebbe risposto di no. Eppure tal'è l'impressione volgarmente rimasta negli intelletti dal riguardare qual maestro sovrano dell'età nostra quel nebuloso solista, tanto si ripete che davvero egli ha fatto la critica delle nostre facoltà conoscitive, e primo si è reso conto della loro impotenza, mettendosi sì in un dubbio angoscioso, ma liberandosi dalle antiche illusioni, che con tutta disinvoltura potè anche un oratore sacro lanciare dal pulpito quella strana sentenza, senza accorgersi delle assurdità che accumulava, nè della rovina che portava alla fede.
Emmanuele Kant ha fatto la critica della ragione ! Sragionando alla malora, sia pure; parlando come chi sa quel che dice, certissimamente no.
Possibile che contro il vociar della plebe, non possa nulla l'evidenza del vero?
Per fare una critica che valga, ognuno concederà che è necessario un giusto criterio; per accertarmi se una linea è dritta, dovrò confrontarla a una riga supposta dritta; per vedere, bisognerà che possieda almeno un occhio. Or s'io non sono certo che la ragione abbia di sua natura un retto giudizio, se devo sospettare che, anche operando per intima necessità, o di fatto erri o possa errare ; qualunque cosa mi dica, non dovrò fidarmene, e dopo il più accurato studio dovrò dubitare come prima e riguardar come falsa ogni sentenza. Se non ho insomma una regola più alta e certa alla quale possa mettere in paragone l'oggetto del quale voglio constatar la giustezza, inutilmente andrò vagando. E se non possiedo un occhio capace di vedere, sempre rimarrò nelle tenebre. Ora l'intelletto è il nostro occhio spirituale, e se non vediamo con esso, non vediam certo alcuna luce diversa da quella che vedono i bruti ; l'intelletto è senza paragone la parte ottima e suprema dell'anima nostra, nè possiam regolarla con altra migliore. Potremo forse confrontarla con la Luce increata, per riconoscere che da essa deriva come un tenero raggio o una scintilla dai sole, potremo riflettere che ripugna la malizia e l'errore all'opera di Dio, in quanto precisamente viene da Lui, e per conseguenza debbon essere infallibilmente veraci e buoni quegli atti nei quali l'intelletto procede secondo l'impressione avuta dalla prima Gausa, ossia nei quali intende e giudica per necessità di natura. Ma questa pure è una riflessione che vale in quanto sono intrinsecamente certe le prime immutabili cognizioni; non è un ragionamento che già non supponga la nativa veracità del lume, ond'è l'anima mia avvivata.
La sola critica che della ragione può istituirsi, è quella che fu iniziata e condotta a termine dallo Stagirita: come la facoltà spirituale riflette sulla propria operazione, può vedere attentameute quale sia il processo che la natura dell'intelletto esige ; riconoscere per infallibile il processo che la natura dà come necessario; ammettere che può incorrere errore, ove esso proceda senza vera necessità; riconoscerlo, quando di fatto sia proceduto contro quello che per sè spettava alla natura intellettiva. Dunque accetterò come verità per sè note quei sommi principi, i quali appena presentati alla mente, ne estorcono l'assenso. Cederò ad una dimostrazione, in quanto i principi assunti e i fatti sensibili sono innegabili e il nesso logico è ineluttabile; sarà senza possibile difetto, finché seguo un processo, del quale ogni passaggio è manifesto, nè si può ricusare d'andare innanzi: con certezza assoluta dovrò conchiudere. Operando così, m^appoggio alla necessità della natura che non posso distruggere nè mutare , e così pensano invincibilmente anche coloro che negano; chè altro è proferire di seguito con finto nesso di enunciazione parole incoerenti, altro pensar veramente l'assurdo che è impensabile, e sta fuori deb l'oggetto adeguato della conoscenza intellettuale. Tale è in compendio lo studio dei logici antichi, i quali riflettendo sugli atti della mente, ne hanno riconosciuto l'ordine e la necessità, o talora la contingenza e la probabilità: non è possibile altra vera critica della ragione.
Contro tutto questo il sofista tedesco, dopo i lunghi studi, ha dichiarato la ragione impotente. Ci dispiace per lui e per i molti che ha fatto impazzire. Ma che importa il suo giudizio, s'egli dice che la ragione non ha valore alcuno, se sogna sempre, e mai non sa di avere dinanzi a sè un termine obiettivo, del quale debba giudicare? Troppo facilmente, e con giovanile entusiasmo eccitato dal pubblico grido, quell'oratore di cui dicevamo ha mostrato di assentire alla radicale illusione kantiana.
Egli poi godeva con buona intenzione in cuor suo, per la conclusione che gli pareva di poterne dedurre: con ciò il Kant ha dimostrato la necessità della fede. Al contrario, l'ha resa impossibile, e Satana ne dovette ridere con infernale sarcasmo. N'ori enim crede - remua, nisi rationales animas haberemus, protesta sant'Agostino. Chè in qualunque modo si venga alla fede, un po' di criterio per sapere di dover credere è presupposto. E tanto più, se ci si deve arrivare per la via conveniente ad un adulto che voglia rendersi ragione dell'obbligo di credere: non solo dovrà egli accertarsi che vi è Iddio, ma ancora del fatto che Dio ha parlato all' umanità. nemmeno il primo passo gli è ragionevolmente possibile, s'ei non si fida dell'evidenza e della sua facoltà di conoscere. Per il qual motivo non v'è più radicale distruzione della fede di quella che ritoglie il proprio pregio e la natia forza, limitata sì ma invincibile, alla ragione. Di che venne che tutti i fideisti, comunque diversamente vestissero il loro errore, o che la conoscenza umana dalla fede debba prender le mosse, o che ogni prima verità sia ricevuta soltanto per tradizione, o che ogni infedele al quale è proposta la fede sia obbligato a piegarsi subito, nè abbia il diritto d'informarsi prima intorno ai motm di credere, furono tutti condannati dalla Chiesa (1). La fede insomma è cosa ottima, anzi divina; ma deve esser buono il soggetto che la riceve. Or se la ragione non avesse la naturale bontà di poter attingere l'oggetto, rappresentandoselo qual' è, uè pur sarebbe capace di quel dono celeste. Da Emm. Kant, che ha voluto far cattiva e impotente la ragione nella sua stessa natura, non potè venire alcun bene. E la sua non è semplicemente un'opinione erronea, che con legittimi argomenti si possa combattere : è una radicale distruzione dell'ordine conoscitivo, la quale, facendo violenza all'intelletto, come un'assoluta negazione di tutto, toglie ogni mezzo di ragionare e di vendicar l'offesa fatta alla natura. Onde l'offesa risale all'Autore della nostra natura: a Lui nella sua opera, che sarebbe cattiva; a Lui in Se stesso, che non ha più ragione di assoluta verità. Cotali sistemi che tutto distruggono, non sono da trattar con rispetto, come sentenze probabili; son da esecrare come bestemmie impossibili.
2. - Il kantismo accettato in parte
Ora io non so quanti sieno al mondo che fanno lo sforzo di tener per vero tutto il sistema kantiano; dico lo sforzo, perchè è cosa astrusa e contraria alla natura, o alle prime invincibili concezioni dell'intelletto. Pur vediamo per esperienza che molti sono infetti di quel veleno; si può dire che n' è contaminato il pensiero comune, ossia il pensiero della turba infinita che va dietro all'opinione corrente e non ha forza di resistere a quella che alto è gridata dai più animosi. I più vorrebbero peraltro temperar gli errori, fermandosi a mezza via. Ma la logica è potente, e per essa quelli ancor che incominciano con poca parte di errore, finiscono con aver disastrose le conseguenze, forse al pari di quelli che fin da principio l'hanno abbracciato interamente.
Avviene adunque con molta frequenza che le persone, alle quali è proposta una verità con buone e chiare prove, seguendo il moto della natura, da principio ne siano convinte; ma poi, quasi per atteggiarsi a filosofi, e volendo esser pari ai dotti del tempo, male si ripieghino sopra di sè, dicendo: Ma così pare, ragionando con quei principi e in quel modo. Gon principi diversi e con diverse impressioni altri forse conchiuderà con ugual forza e cen sentenza contraria. Ammettiamo che i primi affermino la loro sentenza con probabilità: bisogna sempre diffidare del proprio intelletto, e sospendere la certezza: ognuno con ugual diritto vede a suo modo. Ossia finalmente, la verità è nel pozzo, e chi la pesca? È scetticismo kantiano.
Dopo questo, è inutile ricominciare il ragionamento. Converrebbe ridurre manifestamente l'opposta sentenza ad essere in contraddizione con se stessa. Or non è facile condur sempre le dimostrazioni al principio primo, mettendo con evidenza sotto gli occhi Vè e il non è accozzati insieme da chi pensa altrimenti. Anzi per lo stesso principio di contraddizione ci avvenne di leggere in un libro di apologetica: Le principe de contradiction paraît une loi nécessaire di otre esprit . Avete inteso? Non dice una assoluta necessità dell' ordine reale, sibbene una legge del nostro pensiero. Eppure quell'autore in buona coscienza si accingeva a mostrare la verità della nostra, religione. Qual verità poteva intendere ? Questa sola, che si può, o forse si deve, pensare come tra noi si pensa, senza sapere se la realtà risponda al pensiero. Ne verrebbe semplicemente che si può, o "orse si deve, pensare così, perchè la religione cristiana bene risponde alla legge del nostro pensar soggettivo. Troppo poco, anzi nulla è cotesto. Noi dobbiamo credere che la fede cattolica è unicamente vera, perchè, e di Dio e dell'opera sua e dell'ordine al fine da Lui stabilito, dice le cose come realmente sono, in quel modo che, stando il comune buon senso, diciam che fa giorno quando fa giorno.
Tutti i moderni hanno paura di qualsiasi principio astratto. Per ciò che toccano e palpano, la stessa fantasia li costringe, e però son portati ad ammettere che ponendo la paglia asciutta dov'è fuoco, la paglia sarà bruciata. Lo sforzo contrario nella scuola dell' Artigò, per il quale non v'è assolutamente nessuna legge, nè relazione di causa ad effetto, ma soli e puri fatti che forse all'improvviso appariranno in tutto diversi, è sì violento agli stessi sensi, che pochi vi riescono a parole, con la mente nessuno: invano ornai si affatica a sostenere quella chimera qualche discepolo affezionato al vecchio maestro. Ma ove trattisi di enunciazioni puramente intellettuali, gli scettici sono frequenti assai, e quasi tutti i formati nelle moderne scuole, ancorché non vogliano negar tutto, hanno paura dell' astrazione, hanno paura di affermare obbiettivi e certi i loro pensieri, e senza osare dire affatto di no, né pur si risolvono a dir di sì.
Sia per esempio il principio di causalità: ogni cosa che novamente è, dipende da un'altra che influisce sull'essere di quella. Ovvero: ogni cosa che è, senza avere in sé la ragione del suo essere, dipende da un' altra preesistente. Con questo principio si arriva a Dio. Oh troppo alto! Ragionando pure con chi non sia del tutto scettico, ma sia educato modernamente, ci sentiremo dire che abbiam forse diritto di enunciar quel principio nell'ordine dei fenomeni, in quanto vediamo ciascun d'essi dipendere da un altro che lo precede; non abbiam diritto di trascendere, affermandolo fuor dell'ordine fenomenico e riguardo a tutto insieme quest'ordine.
Sì, abbiam diritto. Basta riflettere che la necessità di asserire una cagione di tutto ciò che non è eterno, né da sé determinato ad essere, non è posta per nulla in alcunché di proprio ai fenomeni, o alla natura sensibile e corporea;, sibbene è contenuta nella prima nozione dell'ente, che assurdamente vorremmo restringere ai corpl. Ponete d'aver dimostrato che ad un triangolo si può circoscrivere un circolo, prescindendo dall' essere quel triangolo equilatero e isoscele: certo il teorema non è ristretto all' isoscele o all' equilatero. Similmente la necessità della causa è manifesta, perchè tutto ciò che esiste deve avere una ragione dell'essere piuttosto che del non essere. Se l'avesse in sé sola, già sarebbe esistita prima e non verrebbe a nuova esistenza. Or viene ad esistere e non era. Dunque dev'averla in qualche altra cosa che l'ha preceduta e su di essa ha influito : vuol dire che ne fu cagione. Qui non entra ragion particolare d'alcun ente. Dunque vale per ogni ente.
Oh, ci dicono, noi siamo portati a dir così, perchè l'esperienza ci mostra quel fatto nelle cose presenti ; non abbiam diritto di sorpassar l'esperienza.
Abbiam diritto e necessità di estenderci a tutto quello che nella esperienza o formalmente o virtualmente è contenuto, cioè a tutto ciò che come legittima conseguenza dai fenomeni stessi possiam dedurre.
Ma l'esperienza non si estende fuor dei fenomeni ! Così gli avversari.
E noi : formalmente no, ma virtualmente si estende a tutte quelle ragioni, che l'intelletto apprende in qualunque cosa, che apprende pure in qualunque fenomeno gli sia messo innanzi.
Il fenomeno presenta un moto corporeo e null'altro! Non è vero: nel moto corporeo presenta la nozione di qualche cosa che è, ossia la nozione di ente, come anche i concetti di mutazione, di successione, di atto crescente e tendente ad un termine, di connessione, di dipendenza, di diversa intensità, di azione e di passione, di somiglianza e diversità, ed altre ancora che nell'oggetto fatto pei sensi presente all'intelletto, questo di sua natura percepisce.
Sorge il kantista a protestare : Ma cotesti son noumeni pensati dalla mente nostra, senza sapere se abbiano e possano avere alcuna realtà.
Certissimamente hanno realtà, com'è reale quell'oggetto sentito, nel quale son presentati all'intelletto, capace di conoscerli. Dite, se vi piace, che son pensati, e certo son numeni, in quanto sono nella mente (voj;), e il solo senso non ne è capace. Ma non per questo l'ente pensato, con tutto ciò che lo determina e idealmente lo segue, è men reale e obbiettivo ; come non perchè io sento una bastonata, è men reale, nella sua sostanza e nella sua durezza, il bastone per cui mi viene quel colpo, che solo è percepito dal senso dolorante.
Ma non è davvero un'illusione, o non è un moto tutto soggettivo, il percepire ciò che è insensibile nell'oggetto presentato ai sensi, corporeo certo, e niente intellettuale? Anzi diciamo che lo stesso oggetto sensibile meglio ancora è intellettuale, in quanto, meglio assai che dal senso, dall'intelletto sarà conosciuto. E molto più obiettivo del senso è l'intelletto. Perchè il senso si riferisce certamente ad un esterno immutativo, dal quale riceve qualche impressione, e a questa si risente, et ipsum affici sensus est eius sentire , come dice l'Angelico (I q. q. XYII art. II). Ora l'impressione patita, a che segue il sentire o il portarsi del senso all'oggetto, dipende dalla disposizione del paziente e ne segue la natura e il modo. Si sforzò dunque ad una vana illusione che volle insistere sul principio che l'azione e la passione sono una cosa sola nel moto, come se l'effetto, ricevuto alla maniera del reeipiente, dovesse sempre avere una ragione formale identica all'atto per il quale l'agente è attivo. E invano altri pretenderà che la sensazione immediatamente mi riveli la reale e obiettiva costituzione del suo primo sensibile. Nè l'orecchio dice come sia costituito il suono; nè l'occhio sa come sia costituita la luce: appena dopo molte prove di varie mutazioni e di confronti, ne potremo raccogliere qualche cosa (2).
Ma l'intelletto nell'oggetto sentito, e così a lui ancora presente, apprende qualche cosa che è ; e in questo s' inchiude la nozione di ente, che assolutamente è la prima. Non c'è bisogno che sia determinata nella maniera della sensazione, anzi sopra cotal determinazione si estende e si eleva. L'apprende, non secondo qualsiasi passione prodotta nel soggetto che intende ; sibbene immediatamente la percepisce nell'oggetto, come nota necessaria ed essenziale del medesimo.
Pessimamente adunque parve al Kant che il noumeno fosse o la sola passione della mente che pensa o che da quella prendesse il modo. Senza dubbio, l'intelletto forma il pensiero, perchè è ini effetto; ma in nessuna parte prende da se stesso la ragione di ciò che pensa. Perchè è tale facoltà e di tal grado, essa ha tal maniera di entità nell'atto, tal perfezione nell'adeguarsi a ciò che conosce ; ma tutta è dalla cosa stessa la nozione formalmente concepita. Il contrario può avvenire soltanto perchè v' è inganno o errore ; ma l'intelletto allora vien meno dalla natura intellettiva, e manifesta la sua deficienza. Questa può aver luogo dov'è complesso di apparenze diverse e un procedere fuor della retta via per incontri accidentali. Ma non può accadere negli atti più semplici e diretti per sola intuizione ; ripugna affatto nei prmi e in quelli che sono appieno determinati dalla natura stessa dell'intelletto. Perchè sarebbe rea la stessa natura, a che non resterebbe rimedio, e sarebbe inutile ogni discussione, dannosa ogni ricerca.
Così soprattutto è formata la primissima nozione di ente, che s'avvera in tutto ciò che esiste e in tutto ciò che può esistere. L'intelletto l'apprende perchè senza di essa nulla può darsi e nulla può concepirsi ; la vede meglio che l'occhio non veda il colore nella superfìcie illuminata che gli sta dinanzi; vede che all'ente è opposto il non-ente e il non essere, e con ciò vede quelle prime verità, che nella prima nozione sono virtualmente contenute; ossia quelle, senza le quali nè pur quella nozione sarebbe possibile; e quelle infine che negate importerebbero la distruzione di quel medesimo primo concetto. Se ad alcuno tutto ciò non è chiaro, è dannosa fatica il proseguire : per la scienza, ritorna il detto sdegnoso dello Stagirita che parimente è inutile ragionar con un ceppo; per la fede, diventa impossibile il primo passo. La grazia di Dio potrà vincere con miracoli; ma colui che resiste a quei principi, si fa come il fanciullo, ostinato a non dire A, per non dover poi proseguire fino alla Z, con la noia di passar tutte le scuole.
Ha posto veleno nella radice dell'albero della scienza Emm. Kant, quel giorno che attribuì al soggetto senziente e pensante la determinazione di tutto ciò che dicesi conosciuto, stoltamente vantandosi d'avere così, qual migliore Copernico, rovesciato il mondo (3) : ha distrutto il concetto medesimo di conoscenza.
Ma quelli pur che negano di aderire in tutto al perverso sistema, se in qualunque parte diffidano della natura intellettiva, e sospettano che nel formulare i principi vi sia qualche influsso delle impressioni soggettive, o che un altro intelletto penserebbe forse altrimenti, e che un'educazione diversa potea condurre a pensieri diversi, ovvero che inizio di ogni ragionamento sia alcunché d'arbitrario, o che in realtà s'incominci dal credere volontariamente ; tutti sono nella radice del conoscere avvelenati. Saranno forse atterriti dalla universale negazione (come ne fu atterrito lo stesso Kant), e non ci vorranno venire ; ma logicamente ci debbono arrivare, e non hanno rimedio al loro male. Perchè, se per sua natura l'intelletto erra, dove si potrà accertare il limite dell'errore ? Ora s' incorre in falsità, appena in tutto o in parte ciò che è proprio del soggetto conoscente si attribuisce all'oggetto. E da alcuni non fu inteso l'Angelico, là dove dice che altro è il modo della natura appresa nelle cose esistenti, altro nell'intelletto. Per rispondere al dubbio di chi temeva falsità nel conoscere, per la diversità tra il concetto universale e l'oggetto singolare, egli notò che l'astrazione consiste nell'apprendere soltanto la natura comune senza attingere la concretezza individuale; chiaramente poi è diverso lo stato della natura, com'è astratta nella mente, e com'è singolare nella realtà. Qui non è alcun errore, perchè l'intelletto con ciò non attribuisce alle cose nulla che non vi sia, nè pone in esse il modo che esse prendono nella mente in quanto sono pensate. Chi non capisce così l'Aquinate, non lo capisce, e gli attribuisce un errore, di cui non è ombra nella dottrina di lui.
Insomma se un minimo che di ciò che è proprio all' intelletto, o del modo del pensiero, o del modo che l'oggetto acquista perchè accolto nella mente, ove anche la pietra è conosciuta con un atto spirituale, se un minimo che di tutto questo, diciamo, fosse attribuito alla cosa pensata, interverrebbe errore; e se qualsiasi errore fosse necessario all'intelletto, sarebbe perversa e dannosa la sua natura (4). Quello che l'intelletto conosce, serbando il proprio modo della natura, deve essere per sè buono, e qui la bontà consiste nell'essere certamente vero.
2. - Il primo assenso intellettivo è volontario ?
Affine all'errore di riguardare i principi come in sè non necessari, ma formati secondo l'indole nostra piuttosto che secondo l'obiettiva realtà, è l'opinione di alcuni, che cominciamento d' ogni scienza sia la fede, in quanto noi crediamo gli assiomi o le supreme enunciazioni. Or si crede perchè si vuole, non è vero? Il Balfour ha svolto questo pensiero nella sua opera lhe Foundation of Belief; e molti vi hanno fatto plauso, come ad una nuova dimostrazione che la fede è necessaria. Ma già dicemmo che tutti i fideisti servon male la stessa fede, e la fede che s'appoggia alla nota testimonianza altrui non puh esser prima. Qui dunque intervenne una nuova illusione per il seguente sofisma. È propriamente scientifica la notizia acquistata per efficace dimostrazione, ossia la scienza è frutto del ragionamento. Ma questo non può procedere all'infinito, o deve finalmente partire da una enunciazione non più dimostrata. Or se non è dimostrata è creduta. Dunque in principio v'è la credenza, e di qui necessariamente si parte.
Si sono illusi, opponendo alla scienza presa in quel senso rigoroso e stretto l'assenso volontario o la fede; mentre invece dovevano opporre alla conclusione scientifica la necessaria intuizione. L'intuizione è il primo atto intellettivo, e però dagli antichi fu semplicemente chiamata intelletto , prendendo questa voce in senso di atto, non di facoltà. L'intuizione è il modo di conoscere più perfetto, che compete alle più alte intelligenze, o agli spiriti puri, per tutto ciò che ad essi si presenta come oggetto intelligibile. L'intuizione anche all'uomo conviene, ma solo riguardo alle verità, per sè note anche a lui: sventuratamente son poche e si restringono a quelle prime verità, senza le quali perisce la stessa nozion di ente, e che nessuna può negare, in quanto non altro fanno che enunciare un attributo manifestamente incluso nella ragion del soggetto. Ma sono scarse assai le proposizioni che così possiam formare, attesa la condizione dell'anima nostra, che dipende dai sensi nell' acquistar conoscenza delle diverse nature, e queste attinge soltanto come rivelate dagli esterni fenomeni. Tuttavia quanto al modo, l'ottima parte dell'umana conoscenza consiste in quelle prime intuizioni, òhe sono i semi delle scienze, poiché secondo i dati delle seguenti esperienze interne ed esterne, saranno esse principio e causa di tutte le conclusioni. Ond'ù che son esse ancora il supremo criterio di verità per tutte le affermazioni a noi possibili : esse hanno da sè certezza assoluta, e questa di là si deriva a tutto ciò che possiamo dedurre ragionando. Hanno poi quella certezza piena, secondo l'oggettiva necessità delle prime nozioni, e secondo il lume intellettuale che ce le mostra: nozioni e lume diversamente a noi partecipate da quella infinita Essenza, che è norma sovrana di tutto ciò che si svolge nel pelago sterminato dell'ente e del vero.
Così l'ottima parte del nostro sapere, per il modo di terminarsi immediatamente all'oggetto e per l'infallibile certezza, è posta nella spontanea intuizione dei sommi principl. Ma l'adesione della mente a cotesti principi, non è credenza , se non per un'impropria estensione della voce credere , come è pure usata dall'Alighieri in quel verso:
a guisa del ver primo che l’uom crede ;
o certo non è un credere che dipenda dalla volontà; anzi è ineluttabile necessità dello stesso intelletto. Arriveremo più tardi al credere che dipende dall'impero volitivo ; qui antecede l'impero e viene dalla natura conoscitiva.
Da tutto questo appare come sia una stranezza derivata dal kantismo, cotesta che i moderni eruditi più si fidino del ragionamento che della intuizione, anche prima ed evidente. Così alcuni geometri proseguono le loro dimostrazioni d'infiniti teoremi; ma, se pensano ai principi, stanno sospesi, e non si fidano della nettissima immagine che presenta loro le parallele sempre dritte ed equidistanti. Così in meccanica razionale, alcuni giungono ai più riposti teoremi, supponendo la composizione dei moti e delle forze secondo i noti principi, ai quali si appoggiano nei calcoli più complessi determinando le orbite e le perturbazioni ; ma se ritornano a quegli stessi principi, mettono in dubbio ogni cosa. Il male è minore in coteste scienze particolari. Grande è invece rispetto alla scienza universale e suprema che è la metafisica, dalla quale tutto pende, anche l'ordinarci alla vita oltremondana. Pende, io dico, almeno idealmente; perchè spesso l'uomo si regge senza logica secondo un affetto e un' impressione. Ma se la logica non ha sempre ragione d'un individuo, finisce con averla della moltitudine, e costante e indistruttibile è il lavoro delle idee. Chè le troppo nuove conseguenze fan paura ai primi, non ai seguenti; come è avvenuto per il liberalismo e per l'anarchia nei popoli inciviliti, e anche per il kantismo tra i filosofi.
Quello che abbiam detto è stranezza kantiana; perchè Emm. Kant pretese di dare la filosofia del pensiero, ossia del nesso tra gli atti dell'anima, non delle cose. Ora i principi primi sono immediatamente attinti all'ente reale che è primo oggetto della mente ; il ragionamento connette i giudizi e forma i nuovi appoggiati ai precedenti. Quindi il fidarsi di questa serie intellettuale ; non così delle intuizioni onde si è partiti. Con ciò si riduce ogni cosa ad una inutile logomachia ; come era tutto un vano sforzo d' ingegno lo spiegar con cicli ed epicicli le apparenze dei pianeti nella falsa supposizione geocentrica.
Così torna l'ingiuria all'intelletto che diventa un sogno perpetuo, alla natura che diventa cattiva nell'inganno, all' Autore d'ogni cosa che ci ha posti in sì rea condizione. E diventa invincibile la risposta di quelli che dicono essere la nostra religione un magnifico sistema ; tutto si concatena, che è una meraviglia a vedere ; ma è manchevole il fondamento. Si arriva a Dio, supposto il principio di causalità : ma questo è necessario ? Ecco la nullità di qualsiasi processo intellettuale ; ecco l'errore massimo, che fa della filosofia, o piuttosto antifìlosofia kantiana, non un'opinione, non una semplice illusione, ma una bestemmia universale, che distrugge e scienza e fede e l'universo e Dio.
4. - Anche il ragionamento incerto
Dal radicale soggettivismo segue un'altra stranezza; e questa è che nello stesso ragionamento, più che al contenuto obiettivo dei concetti, badano i moderni ad una certa affinità d'immagini o di pensieri, sì che arrivano a conchiudere secondo che lor piace, senza necessità veruna di cose tra lor connesse; nè poi sanno discernere da un sofisma illusorio un sillogismo davvero efficace.
Noi proviamo l'esistenza di Dio Creatore, mostrando come la realtà delle nature contingenti, il moto delle cose potenziali, l'ordine meraviglioso dell'universo, esigono Colui che da sè esiste o ha l'essere per sua natura, Colui che tutto muove e che tutto dispone con sapienza. Qui no; i moderni non si arrendono. Oppongono le antinomie kantiane ; vecchi sofismi che in una o in altra forma l'antica Scuola avea pensati e disprezzati; fuggono con sciocche eccezioni, prese da ciò che avviene accidentalmente, per difetto della creatura, non voluto impedire da Dio che ne trae beni maggiori ; mostrano in ogni modo di non penetrare nei veri concetti e di non sentire il nerbo dei sillogismi. Sarà poi proposta una assurda osservazione di Emm. Kant, che è meglio ammettere Iddio, affinchè possa compensare dopo morte l'uomo che ha sostenuto la propria dignità, adempiendo il suo dovere (ah superbo idolatra!), e molti diranno che Emm. Kant ha supplito al difetto delle prove tomiste per l'esistenza di Dio. Davvero per questa via non si arriva, nè al buon senso nè alla fede.
Similmente, avviene un miracolo; un fatto evidentemente contrario al solito corso della natura; come quando sotto il ginocchio destro dell'operaio Rudden istantaneamente si rifanno tre centimetri
di ossa corrose dalla tabe e si riconnettono : pregava in una cappella dedicata alla Tergine di Lourdes: il fatto è attestato e giurato da oltre a quindici medici. C'è intervento di Dio? Oh, chi lo sa? L'aspettazione, il desiderio, la fede, una forte suggestione, ecco altrettante cause possibili. Ossia, ecco altrettanti sofismi del non causa pro causa direbbero gli antichi. Che stranezza d'intelletto è codesta, per la quale una parola anche priva di significato basta a quetar la mente ; e le sode ragioni addotte da altri non hanno efficacia alcunaf Tutta la scienza conosce da lunghi anni che i tessuti organici esigono per rifarsi un lungo processo di cellule che si sdoppiano; tutto il genere umano sa da secoli che una piaga purulenta non si chiude e le ossa cariate non si rassodano in un istante. Se dunque la natura a questo non giunge, eppure si fa, una potenza più alta interviene : è chiaro? Ma per dire di sì, converrebbe mantenere il buon senso : è la sola difficoltà. Per dir di no, basta un'arbitraria connessione di fantasmi o di parole, e a questa si fermano.
Ancora un esempio nei fatti dello spiritismo. Evidentemente un tavolo non sente e non parla; evidentemente le fantasie del cervello umano non valgono a muovere da sè stesso i corpi esteriori. Eppure ci sono i movimenti di quei tavoli, senza proporzione con il lavoro esercitato da quei che si toccano con le dita estreme ; ci sono le risposte alle domande, nelle quali pure i presenti non convengono, nè sanno che risposta verrà. Ebbene, qualcuno ha detto che quei movimenti sono eccitati dal magnetismo delle persone circostanti e son regolati dai pensieri e dai fantasmi dei loro cervelli. Bastò lanciare una tale spiegazione che non ispiega nulla, perchè volgarmente si credesse di dover rinunciare alla ricerca di più vera cagione.
Sono poi senza numero i ragionamenti futili e assurdi, che si ripetono tra gli avversari: della nostra fede. Tutte le religioni, diceva Strauss, hanno origini mitiche: dunque anche la cristiana. Come se dicessi : Tutti gli animali crepano senza altra vita: dunque anche l'uomo. - Ovvero: Tutti son diversi da David Strauss: dunque nè pur lui è David Strauss. - Le specie viventi, hanno detto altri, si evolvono in migliori forme : dunque non c'è il Creatore. Come se dicessi : son figlio de' miei genitori ; dunque non c'è Iddio. Del resto è falsa anche la premessa. - La psicologia moderna, scrisse il Loisy, non ammette che un uomo prevegga il suo avvenire : dunque nè pur lo potea sapere Gesù di Nazaret. Risum teneatis amici ? - E un professore d'illustre università: La vita ha suggerito l'idea dell'anima: dall' ani - nismo venne spontanea la religione : dunque la religione è opera umana e non divina. Così egli dice, e gli par tanto chiaro! Ma è chiaro che, se uno non è bestia, deve con la ragione condursi ad adorare Iddio, e però qualche religione è suggerita dalla stessa ragione naturale ; non è per nulla chiaro che Iddio non abbia rivelato e imposto una religione soprannaturale. - E non sarebbe penuria d'altri esempi, nei quali appare la vanità del discorso e la troppo facile seduzione delle menti male educate. Poco si bada all'obiettivo valor dei giudizi : si lascia che l'intelletto proceda a caso, connettendo, ciascuno a suo modo, le diverse idee. Fra gli scettici, anche per tutto ciò che la natura dimostra necessario, ammette ognuno ciò che gli piace.
5. - Volontarismo e pragmatismo
E questo sembra venire a proposito per dimostrare l'inanità dello sforzo kantiano, quando il nuovo Copernico sognò di ristorare l'universo rovinato. Tentò di riparare al disastro della ragion pura con la ragion pratica, volle supplire all'intelletto con la volontà. Non ci tratterremo a far sentire l'assurdità, peggio che se alcuno, dopo essersi strappati gli occhi, cercasse rimedio nella voglia di vedere ; peggio che se volesse ottenere il moto, effetto d'una forza naturale, dopo aver distrutta la forza, chè come la natura è principio del muoversi, così l'intendere è del volere il bene inteso. Eppure qualcheduno fu riconoscente ad Emm. Kant della nuova apologetica, delle nuove dimostrazioni di Dio e dell'anima, che çi ha fornite. Oh perversione d'intelletti !
Quindi si venne a dire che unico argomento per mostrar vera la religione è l'efficacia della medesima sulla vita onesta, e che sola l'anima onesta la può conoscere: la conosce non con altro che con volere il bene. Così insegnava il Blondel, con il suo grosso volume V Action; così il Laberthonnière con parecchi opuscoli e articoli tendenti a volgarizzare l'idea complessa del Blondel. Molti sorsero appresso con il sistema che dissero del pragmatismo ; secondo il quale niuno deve pretendere che i dogmi sieno obiettivamente veri, come sono espressi dai teologi e dai Concili; ma soltanto ci son proposti quali norme del vivere, dovendo noi regolarci nelle diverse circostanze, come se quelle enunciazioni dogmatiche avessero l'obiettiva realtà che sembrano indicare.
Questa ultima conclusione, è per avventura più logica, ma certo àncora più ardita, che non fosse il volontarismo di Emmanuele Kant, quando ogli tentò di ricostruire con la ragione pratica l'universo distrutti» dalla speculativa. Perchè con i secondi sofismi egli veramente tendeva ad affermare e la libertà e l'anima e Dio, negati o messi in forse dai primi; mentre i pragmatisti, supponendo vere per convenienza le prime leggi morali, nell' ordine delle cose credute non tendono ad affermarle, ma solo a dire che ci conviene operare come se fossero vere. E così nulla è ordinato a persuaderci che veramente esse sono così. Eppure una piena e obiettiva realtà esige la nostra fede. Quad fuit ab initio , quod audivimus, quod vidimus oculis nostris, quod perspeximus et manus nostras contr ectaverunt de verbo vitae , an • nuntiamus vobis (I Io. I, 1), protesta S. Giovanni. E con dire: non doctas fabutas sequuti v'insegnammo ad esser cristiani, ci fa accettare la sua testimonianza san Pietro (II Pet. I, 16). E sappiamo che vedremo in cielo la stessa verità che abbiam creduta: sicut audivimus y sic vidimus in civitate Dei nostri . E finalmente: seio cui credidi et certus sum . La volontà deve seguire una norma che come vera e obiettiva è proposta dall'intelletto ; deve amare un bene che come realmente amabile e beatificante è stato prima conosciuto. Senza di che tutto sarebbe finzione e un vero amore sarebbe impossibile, e non sarebbe cosa degna di Dio, a cui è detto nel salmo : principium verborum tuorum Veritas .
Or se alcuni pure che volevano aver fede (pensando in cotal modo, certo non l'avevano) erravano in quella maniera, quanto più debbon essere lontani dal concepire con certezza un'obiettiva verità coloro che prendono le idee moderne come norma suprema dei loro pensieri e non si curano in alcuna guisa di aderire alla nostra fede? Checche si dica e si ragioni, parrà loro impossibile che si tratti mai di vera realtà, e saranno convinti che è impossibile aver fermo giudizio se non perchè si vuole averlo, o perchè il sentimento lo suggerisce. Ognuno vede come in tal guisa la religione è ridotta ad un sogno. Questo sogno potrà piacere, potrà recare ad un'anima sensitiva qualche conforto: ma non più durevole e forte di quello che sia un'illusione. Non può sembrare altro che tale a chi non crede ancora. E se dall'ordine delle sue idee è detenuta in somigliante opinione, come potrà ragionare, sì da convincersi del contrario? Si ostinerà a dire che è affare di sentimento, e che cotesto sentimento egli non l'ha. Ancorché l'avesse, non per questo crederebbe veramente, ma prenderebbe una religione falsíssima; l'abbia o non l'abbia, non è capace d'avviarsi alla verità.
6. - Immagini e idee
Specialmente è un disastro intellettuale quella confusione in ci vengono costoro della fantasia con l'intelletto. Per quanto la matematica possa complicarsi e così diventar difficile, il suo oggetto cade per s è sotto la percezione dei sensi e sotto il potere dell'immaginazione. Qui chiaramente è rappresentato l'oggetto, che non esce del continuo e del figurato, e ognuno può averne una propria e chiara immagine. Ora nell'ordine spirituale, che è più veramente intellettuale, non è così. Abbiamo noi sempre bisogno di accompagnarci in ogni pensiero con qualche immagine della fantasia : l'anima unita al corpo astrae le specie dei fantasmi, e non opera come intellettiva senza concorrere qual sensitiva : ma per gli oggetti eccedenti l'esteso, deve contentarsi di qualsiasi più rimota analogia tra l'oggetto com'è immaginato e lo stesso com'è pensato. Pensando lo spirito, immagineremo per es. alcunché d'aereo o un soffio o un'ombra: ben ci guarderemo dal pensare che lo spirito sia simile a coteste cose. Soltanto, è vero che come a suo modo l'aria è leggera e sottile e non si vede, così lo spirito è senza alcun peso e quantità e non ha ostacolo dai corpi ; può insieme aver forza motrice e vitale; come il vento è invisibile, e può muovere un corpo al quale applichi la sua virtù. Nè sempre le analogie possono dichiararsi sì nettamente: eppure è necessario nelle astrazioni valersi della fantasia, senza lasciarsene sedurre, mentre le sue immagini sono improprie e lontane. Il contrario avviene negli oggetti fisici, e per sè anche nei matematici; e chi è avvezzo esclusivamente al modo di questi, ha poi gran pena a intendere altrimenti, e non gli par mai che alcuna conclusione sia provata, e tanto meno con evidenza. E poiché grande stima suol farsi di quegli studi dei quali gode la società i risultati pratici, e il mondò pur li ammira senza esserne distolto per conseguenze morali; ne viene nella moltitudine, anche degli eruditi, disistima e discredito dei ragionamenti filosofici, e molti ne ridono come d'inutili sottigliezze o di vaporose chimere. E poiché senza trattare argomenti di alta intellettualità, non si arriva alle convinzioni metafìsiche e storiche, le quali ragionevolmente debbono precedere la fede, ognuno sente come debba parere sbarrata la via a coloro che non credono, i quali sogliono in quel modo materiale e grosso aver formata la mente.
7. - Disprezzo della metafìsica
Da tutte le parti dell'errore dominante ai dì nostri dovea venire, e venne di fatto, un grande disprezzo della metafisica. I noumeni sono illusioni nostre; forse rimane qualche verità nei fenomeni: forse io dico, perchè chi sa mai se vi è esterna cagione del nostro sentire, o se la creduta visione non sorge in noi da noi, come un dolor di denti? E se lo spazio e se il tempo sono forme soggettive, chi può dire come sia fatto quest'universo che ci par di vedere? Ma guai se un moderno pensatore risale ai principi! Non capisce e non sa più nulla: meglio sarà non pensarci, e proseguire. Questo porta infatti l'uso comune per tutto ciò che riguarda l'esperienza sensibile e la misura quantitativa delle cose sentite. Checché sia dei principi, ove paiono venire innanzi inestricabili problemi, la fisica e la matematica sono universalmente accettate per vere. Ci sarà almeno quella verità ipotetica, che afferma le seguenti conclusioni, posta la precedente convenzione di supporre i primi dati, ingenuamente suggeriti dalla natura. Forse così, preso un simbolo per rappresentare la radice quadrata dell'unità negativa, il matematico va innanzi nei suoi calcoli ed annuncia nuovi teoremi. Ma pei moderni coleste sono, e non altre, le cognizioni che meritano nome di scienza, alle quali aggiungeranno in secondo grado la critica storica; con rigore e assolutamente, son quelle. Lo studio delle questioni astratte e ideali, e in capo a queste la metafisica, paiono personali invenzioni e maniere arbitrarie di rappresentarsi e di fìngere l'universo e le occulte cagioni. Arbitrarie o fantastiche al pari della poesia, e con questa, nelle moderne università dello Stato, son esse relegate alla sfera inferiore della letteratura. Personali, in quanto ognuno vede a suo modo, e ciascuno ha diritto di pensare come gli piace, e niuno ha il diritto di disprezzare le opinioni altrui, ancorché sieno negatrici e distruggitrici di tutto l'ordine morale e del divino. Possiamo riferire il pensiero d'un autore, e scrutare come egli ci sia venuto, e vedere se è coerente a se stesso: ma giudicare se sia vero o falso, esorbita dall'ufficio concesso al critico, è un cessare di essere oggettivi per chiudersi veramente in un sentir soggettivo: così ora si dice che tutta la verità consiste nel fatto di pensare in tal maniera, non nel pretendere di rappresentare quale è in se stesso l'ordine delle cose. Ognuno pensa come a lui piace: perciò filosofia e metafísica sono letteratura e poesia: le sole vere scienze sono l'esperienza esterna e il calcolo matematico.
Ora è manifesto che così s'induce un eccesso di agnosticismo, il quale ricade nello scetticismo di che prima dicemmo. Ma senza tornare su questo, notiamo come sia infelice la tendenza volgare a stimar solo le scienze materiali e a non far caso alcuno delle verità razionalmente più sublimi e più importanti: è un restringer la mente agli oggetti più grossi e bassi, negando di poter sorgere a ciò che è migliore e per sè più intelligibile; è una cattiva educazione dell'intelletto a concepir solo ciò che è sensibile, immaginabile. Ammettasi, se si vuole, che dallo studio delle scienze esatte venga qualche buona disposizione all'intelletto: vien metodo rigoroso e ordine netto di ciò che prima si definisce e si assume, per proceder poscia ai diversi teoremi; viene uso di stretta dimostrazione, che non supponga mai nulla di ciò che dovrà provarsi e che verrà più tardi in considerazione. Ma guai, se l'intelletto esclusivamente è avvezzo ed educato a quel modo di procedere e di scorgere la verità! Non vedrà poi altro che le verità matematiche o fìsiche; non sentirà la forza d'altre dimostrazioni, pure efficaci secondo ragioni più alte in materia spirituale; non avrà intuizione d'alcuna verità astratta, ma soltanto di cose per sò e propriamente immaginate ; non avrà criterio per discernere il vero dal falso negli argomenti più importanti alla vita. Così per una pura matematica non c'è prova storica o filosofica o morale che valga mai.
Materiale e grosso lo diciamo, in quanto rimane nell'ordine della materia e della quantità, nè sa elevarsi sopra di esso. Purtroppo alcunché del medesimo materialismo scientifico ha indebolito le menti anche in molti dei nostri, per i quali non è più questione di condurli alla fede che già professano, ma ben si tratta di conoscere a fondo, quanto per noi si può, gli argomenti filosofici e di penetrare nelle discussioni teologiche. Per la comune educazione, sono in grande onore le discussioni critiche e le analisi dei documenti antichi ; ma tntto ciò che appartiene a speculazione puramente intellettuale non ispira che diffidenza, e il ragionare per via d'intrinseci argomenti è venuto in disistima. Quindi lo staccarsi dalla sublime spiritualità dell'Angelico Dottore, ancorché volentieri si portino le parole di lui per affermare le verità più facili, ove tutti convengono, ed egli sia pur citato in punti diffìcili traendo poi a forza il suo pensiero in contrarie sentenze. Così lo stesso Rosmini diceva che si gloriava di esser discepolo dell' Aquinate.
Ma agli argomenti di lui si dà ormai poca importanza; ma le tesi teologiche voglion ora esser trattate e provate solo per via d'autorità, con testi antichi di Padri e con i documenti della tradizione cristiana; questa è detta scienza verace, e non si cura il resto, se non come un'appendice non necessaria e non utile. Con che alla teologia veramente scolastica del medio evo, e anche dei secoli XYI e XYII che seguirono da presso il Tridentino, sostanzialmente si rinuncia; o si ritorna, se vuoisi, a Pietro Lombardo, non a Tommaso d'Aquino. Il quale, postasi la questione se il maestro di teologia deva provar le sue asserzioni con molte testimonianze d'autori, risponde potersi avere così certa notizia storica che la cosa è come si dice; ma non se ne avrà certo conoscenza scientifica, e con ciò l'uditore certificahitur quiäem quod ita est f sed nihil scientiae vel intellects acquiret , et vacuus absoedet (Quodl. IV. art. XYIII).
Ma se la disistima della ragione che cerca il vero in questioni così delicate e riposte è penetrata anche nelle file dei credenti, quanto più non è essa profonda e disastrosa tra coloro, cui la fede non conforta ancora e non eleva ad affermare con certezza le sublimi verità rivelate da Dio? Tra costoro, salvo l'occuparsi dannosamente di astruserie venute a noi dal settentrione, e che nè pur essi intendono, per dir di no a tutto, il materialismo scientifico è affatto grossolano. Da una parte hanno esagerato il rigore delle prove che esigono nelle questioni storiche ; dall' altra, avendo quasi la mente occupata o impedita da una farragginosa erudizione, procedono comunemente con un criterio incapace di apprezzare rettamente il valore delle testimonianze e dei fatti, di conoscerne le cagioni e la portata, di dedurre le legittime conseguenze, di veder sopratutto che un evento è soprannaturale, o che dimostra uno speciale intervento di Dio.
Già, se per un kantista la natura è affatto ignota, quanto meno gli fu possibile giudicare che un dato effetto superi la natura ! Ma sono giunti a far correre tra molti, i quali pur dicevano di credere, la strana opinione, che un fatto può essere oggetto di storia, un prodigio, no. Onde mai tale stranezza? Da questo: che il concetto di soprannaturale appartiene ai noumeni, la storia deve restar nei fenomeni. Ma che diranno se lo stesso fatto sensibile è un miracolo? Bruttamente hanno confuso il fatto medesimo, per sè attestato dai sensi, come questo che il coqgp di Lazzaro già puzzava nel sepolcro, poi alla voce di Gesù fu vivo e sano, con il giudizio, non molto riposto in verità, ma non proprio dei sensi, che cotesto tornare a vita d'un morto è un fatto miracoloso. Per la storia a noi basta che ci racconti il fatto materiale ; quel giudizio sì facile, lo potremo fare da noi. Ma venirci a dire che il fatto stesso, visibile e palpabile (l'hanno visto anche i lividi Farisei) non può essere percepito dai sensi, e non può essere narrato stoicamente, è un rinunciare al senso comune e un mostrarsi non a metà ma del tutto impazziti. E allora, come volete più ragionare, per condurre quei poveretti alla fede?
Oh si finisca di ripetere quella immane assurdità, che Emm. Kant ha messo a posto le facoltà conoscitive, o si è ben reso conto di quel che valgono ! No, le ha distrutte. Si finisca di dire che primo ha saputo riflettere sul valore dei sensi e della ragione: no, ha confuso tutto, e andò innanzi come un sonnambulo, volendo rifare all'oscuro il cammino che l'antica scuola aveva percorso splendidamente. Si finisca di credere eh' egli abbia fatto fare un passo alla filosofia: no, le ha tagliato i nervi, in modo che per parte di lui essa è immobile e impotente e morta.
8. - Kant superato dai suoi seguaci
Per quanto sia stata fondamentalmente disastrosa l' opera di Emm. Kant, non egli tuttavia si fermò nel proposito di consummar la rovina, distruggendo ogni verità. Anzi fece come colui che, dopo avere eccitato un incendio, se ne spaventa, e vuol gettare acqua e si affanna a spegnere il fuoco. Non osò mantener fino all' ultimo le conseguenze del suo criticismo ; si sforzava di credere alla realtà dei fenomeni, sperava di ristorare con la ragion pratica le rovine apportate dalla speculativa in ordine all' anima e a Dio. Senonchè la logica che in un primo maestro impaurito vien meno, si fa più ardita ne' seguenti ; e questi, non più atterriti dalia novità, andarono innanzi sino alla totale distruzione del vero e dell'ente.
Tra a essi primeggiò Giorgio Hegel, che a sua volta divenne il maestro creduto e ammirato : Enrico Bergson in Francia, Benedetto Croce e Giovanni Gentile in Italia, lo James e il Royce in America, sia pure che abbiano dato a' lor sistemi qualche nota caratteristica, nel fondo delle idee proposte sono hegheliani.
La filosofìa kantiana fu propriamente così, nel senso moderno, superata. Stoltamente usano di questa voce i moderni riguardo alla filosofia scolastica, che nè hanno intesa nè confutata, ma sol bestemmiata ignorandola. Invece i nuovi maestri hanno inteso il Kant, ne hanno adottato i principi e son andati oltre deducendone le conseguenze alle quali il primo non volle giungere : questo è superare. Il kantista come tale ignorava, ma non osava negare, ogni proporzione tra quello che pareva oggetto percepito e la percezione; non osava dire che il pensiero nostro produce le cose, ma solo che dava ad essa la forma, secondo cui le apprendeva. Fu spontaneo l'andare innanzi, e il dire non esserci bisogno per pensare uè di oggetto nè di eccitamento alcuno. Neghisi ogni realtà che preceda gli atti conoscitivi: la mente umana, non solo foggia a suo modo, ma assolutamente finge e crea fuor di sè l'universo e Dio e lo stesso soggetto pensante. Ogni cosa è in quanto è pensante ; nè più v'è da distinguere materia da spirito, nè cosa da cosa, nè termine da conoscente. Sono gli atti dei quali abbiamo coscienza, non distinti da sostanza alcuna, come da comun principio che sia operante e soggetto. Questo aveva veduto in parte il Ļocke, quando negò che la sostanza si distinguesse dal complesso delle parvenze e degli accidenti, in che a noi sembra manifestarsi. Il pensiero creatore supera e compie quella dottrina ; come supera e compie ogni altra filosofìa, inceppata sempre dall'enigma insolubile della proporzione da assegnare tra la conoscenza e il conosciuto.
Se l'essere delle cose non è altro che l'esser pensate, resta appena la realtà del pensiero, e svanisce ogni cura di confrontarlo ad un termine. A questo era giunto, ventiquattro secoli or sono, l'antico Protagora, di cui rideva Aristotile ; e l' Aquinate se ne occupava, come di un delirio spregevole, nel secondo articolo dell'ottantesima quinta questione nella sua Somma; » e appunto ne deduceva come evidente assurdità il grande insegnamento hegheliano, esser vero tutto ciò che si pensa, e il sì e il no d'una stessa cosa comporsi insieme: verum est quod videtur, et sequitur contr adictoiia esse simul.
E ormai qual limite metteremo a cotesta sì facile creazione? C'è la piccola difficoltà che si suol segnare, secondo le immagini acquistate prima nella reale percezione : ma anche questa sarà vinta, e sarà possibile ogni svolgimento pčďř' strano. Molto leggero diventa il trasformarsi delle specie; molto facile il perpetuo divenire del panteismo. Anche questo è ideale, e nella virtù intellettiva pone la ragion sufficiente dell'essere universale e infinito. Pesterebbe da intendere come esistano cotesti pensieri, come precedano ogni verace esistenza, come sussistano nella loro vacuità, e s'infilino senza un perchè, e mettano coscienza senza un soggetto. Ma basta non rifletterci e andare innanzi; chè il sogno potrà proseguire sino al risveglio dell' al di là. Siamo certo al colmo delle nebbie grigie e delle chimere evolventisi tra le nubi settentrionali. Or come poterono siffatte larve apparire anche sotto il vivido sole del mezzogiorno e turbare gli eredi dell'ingegno greco o latino ? - « Latin sangue gentile, - sgombra da te queste dannose some. - Xon far idolo un nome - vano, senza soggetto: - chè il furor di lassù, gente ritrosa, - vincerne d'intelletto, - peccato è nostro, e non naturai cosa ». - O Francesco Petrarca, come hai detto bene !
Eppure anche il gentil sangue latino si è lasciato inoculare cotesto veleno. Anche tra noi è venuto di moda chiamar filosofo soltanto chi possiede fantasia bastante per foggiare un nuovo sistema. È quasi un principio indiscusso che la verità non esiste o non è posseduta da nessuno, e convien sempre procedere a nuove finzioni, e queste hanno sempre ugual diritto ad essere accolte, criticate, forse ammirate. In quanto dicono novità, superano le antecedenti. Per lo più si ricade in errori antichi. Ma l'erudizione stessa, salvo le rare eccezioni, par limitata agii scrittori più famosi tra i recenti: ond'è che niuno s'accorge del riprodursi con nuova maschera vetuste figure di filosofi già condannati non pur nel medio evo, ma eziandio tra i Greci migliori. Così accennavamo di Protagora, capo dei remoti idealisti. Così per tutto lo scetticismo, già famoso tra i sofisti derisi dallo Stagirita. Parimente il Bergson mette a base delle sue negatrici sottigliezze V omnia flnunt, ?:ãvTa pei, d'Eraclito : non possiamo afferrare alcuna verità perchè tutto fugge e si cambia; nè abbiam tempo di dire che una cosa è, ch'ella è già un'altra! Ma da molti secoli si è risposto, prima che della mutazione stessa vi è un soggetto costante, come lo stesso io fu giovane ed ora è vecchio; secondo, che il pensiero può astrarre, prendendo ciò cbe è comune e lasciando quel cbe è mutato nei diversi stati; terzo, che anche nel contingente v'è alcunché di necessario, come è necessario che si muova chi corre. Similmente, tutto quello che pare più ragionevole nelle idee di J. Boyce, il quale per via storta, cioè negando il principio di causalità, arriva pure al Dio di Aristotele (che non è altro dal nostro, ma non senza qualche macchia nel sole), sbaglia certo, e annaspa inutili sofismi, insegnando che in tanto v'è realtà rispondente all'idea, in quanto la volontà fa terminare il pensiero ad un oggetto. Basta a confutarlo il saper distinguere l'intelletto pratico dallo speculativo ; e San Tommaso, nel parlare dell' uno e dell'altro, dice tutto quello che potè dir di vero il filosofo americano; e questi male applicò al secondo ciò che è proprio del primo, e male dimenticò necessariamente essere primo lo speculativo, che alla stessa volontà propone l'oggetto. Tutti cotesti, e gli altri, dei quali è tra i recenti scrittori indefinita fioritura, sono capricci, immaginati con ingegno, ma restanti ognora nel campo dei sogni, perchè, non voluti regolare sulla realtà delle cose; sono fantasie volontarie, come le arie trovate da un musico, a cui per il Royce è simile il filosofo che distingue le forme; sono chimere impossibili.
Tutto contrariamente, la nostra fede, e tutto ciò che ad essa conduce, non altro vuole che la veiissima e schiettissima realtà delle cose: e dire e pensare come in noi e fuor di noi le cose sono. Dio è necessariamente Colui che è; Egli creò il mondo che volle creare, ma questo è come a Lui piacque di crearlo e ordinarlo; noi siamo soggetti nell' intendere a veder le cose come sono, nell'operare a seguire la legge che ci è imposta. È chiaro che chiunque partecipa di quelle vanissime filosofie, mentre non rinuncia ad esse, della nostra fede è incapace.
Tanto più che la superbia di tutti quei maestri, la quale nel Croce e nel Gentile diventa esplicita e formale, vuole assorbire nella filosofia la religione, guardando questa come una forma secondaria, e un pensiero fiacco di povere menti, o un sentimento vago d'anime sensitive. Non è meraviglia, poiché, pensando a lor modo, si foggiano pure un falso Nume, se pur non negano ogni Divinità. Osano far tanto primo e indipendente il loro pensiero, che da esso dipende anche Dio; e, meglio che questi non abbia creato l'uomo, l'uomo si finge il suo Dio e lo crea. Questo vuol dire essere atei. Pur fingeranno di accogliere qualche forma religiosa, come un istinto dell'umana natura, che ha bisogno di elevarsi così sopra la scarsa perfezione delle cose presenti e finite. Ma non è altro che un divenire anche questo, tendendo idealmente ad alcunché di migliore. Il crederci, come fanno spesso le donne, è segno d'ingenuità ; il misurarlo dall'alto in basso, giudicandolo come una forma dell'universale evoluzione, è filosofìa. La quale è molto bene rappresentata nel superbo Faraone, a cui Mosè si fa innanzi volendo parlare in nome di Ohi lo manda, facendo pure prodigi. A questi si chiudon gli occhi, alle parole gli orecchi e si risponde sdegnosamente : Quis est Dominus ? Non novi eum.
Non volevan venire a tanto delirio, ma ne erano partecipi i modernisti, rinnovatori dei gnostici antichi, pretendendo di misurar con la gnosi, o con la scienza umana, la verità dei misteri, e dare forma a tutta la religione. Poiché la filosofia ora è giunta, dicevano, all'altezza di Kant e di Hegel, abbiam diritto di esigere che a questa si conformi la credenza cristiana, e ne prenda almeno il modo dell'esposizione. Pareva chiaro al Loisy che i nostri dogmi non son venuti belli e fatti dal cielo. A Kicea si sono formulati i primi canoni : certo con le parole e con i concetti appresi alla lingua greca e alla filosofia socratica, perchè tale era la coltura di que' Padri. Altro sarebbe stato, se la Chiesa fosse fiorita sulle rive del Gange : chi sa quanto di buddismo avremmo nel nostro Credo ! Certo i bramini vi avrebbero introdotto il loro modo di concepire Iddio, assai più vicino alla presente cultura, e meno ci ripugnerebbero che non ripugnino ai moderni i dogmi grecizzanti. Ma è tempo ormai che si rinunci alle formule d' una filosofia superata, prendendo le altre suggerite dalle nuove scuole di Kant e di Hegel, alle quali sian giunti. Cosi cantano in coro, e annunciano la verità relativa, 1' evoluzione dei dogmi, il perpetuo divenire della dottrina religiosa secondando la cultura; è il perfetto modernismo , che risponde al suo nome, non mai fermandosi ad una sentenza immutabile, ma cercando sempre come chi non trova mai, andando superbo dell'ultimo risultato finora ottenuto.
Di qui la meraviglia che la Chiesa ricusi di porre in dubbio le sue affermazioni, e non accetti di esaminar novamente le origini della sua esistenza: non ne vedono altra cagione che il timore d'essere confusa e di accorgersi che i vantati portenti son favole. Tra gli eruditi di tutto si disputa, tutto è sottoposto a nuovo esame. Perchè la Chiesa se ne ritrae?
Quanto all'ammettere un vero dubbio, se ne ritrae per 1' assoluta certezza di possedere la verità. E non all'umana scienza dubitando farebbe torto, sì alla parola di Dio, che non è lecito mettere in forse, poi che una volta fu accertata e creduta. I martiri diedero il sangue, e a versare il nostro dobbiamo tutti esser pronti, quanti siamo veramente cristiani, ossia cattolici; nè sia lecito sospender l'assenso che si è dato a Dio.
Quanto poi al dubbio metodico , che è di chi procede ragionando e dimostrando, come se ancora ignorasse la verità (così procediamo insegnando un teorema di geometria), non è vero che la Chiesa ritraggasi dallo studio e dalla discussione. Ma ben si guarda dall'accettare la disputa con gli avversari, che non cercano la verità, anzi la fuggono, e con tutti quelli i quali dall'esito delle loro discussioni, secondo che capiranno di dover cedere o non capiranno, faccian dipendere la verità della religione rivelata: ancora, sarebbe ingiuria alla certissima parola di Dio, Non accetta la disputa, con coloro che assumono principi assurdi o vogliono nella storia seguire metodi irragionevoli. Se incominciano dallo stabilire che il soprannaturale è impossibile, o che non può essere storicamente constatato, ecco a priori è distrutta e ogni rivelazione divina e ogni prova del divino intervento. Se stabiliscono che la loro filosofia debba prendersi come norma di verità, con ciò stesso si deve rinunciare alla ragione, e non possiamo. Se pretendono che le regole critiche sieno quaii si usano tra gli increduli: dieci che han visto non valgono, uno che dubita prevale a tutti; siam fuori d'ogni ragionevolezza e a questi patti iniqui la Chiesa non accetta discussione. Con metodi giusti ed equi, con buon ragionamento, con principi seri, nè i Padri* nè gli Scolastici, nè i dotti cristiani d'alcun tempo, si son ritratti mai.
La Chiesa stessa come tale non disputa: essa è maestra dei popoli, ed è certa d'aver sul labbro la parola infallibile. Insegna dunque e annuncia dogmaticamente la verità, che Dio le ha consegnata. E non teme di restar sola. Tutte le anime sincere e illuminate dall'alto saranno con lei; guarderà con occhio di compassione tutti coloro che per superbia svaniscono nei loro pensieri, e sempre più vanno implicandosi nelle reti della sofìstiche insanie, e credendo di esser sapienti divengono stolti, come diceva l'Apostolo.
Questa questa, esclamano, questa è superbia: tra noi nessuno pretende a tanta certezza di verità.
Non è superbia la nostra, perchè s'appoggia a Dio, non alla forza dell'uomo, e ben in Dio possiamo gloriarci, e dobbiamo di Lui essere certissimi. Gli altri non pretendono a certezza, perchè appoggiati solo a se stessi; perchè eziandio, per non cedere a noi, si sono sviati, e sanno ora d'aver smarrita la via, ma non sanno come rintracciarla, e vanno errando in un dubbio perpetuo.
Intellettualmente, è notte oscurissima sotto un cielo nuvoloso: a tale son ridotti delle stranissime filosofìe, per le quali i pensieri non sono che ombre e sogni, o chimere vaganti in uno spazio immaginario. A un intelletto che ha distrutto sè stesso, come può brillare l'astro della fede? Logicamente, non è possibile. Speriamo nell'incoerenza dell'uomo e nella grazia di Dio.
(continua )
(1) Vedi l’Enchiridion del Denzinger, ed. X, nn. 1622-1927; 1469-52, e il oapo I neli t Cost. De fide del Concilio Vaticano.
(2) Il senso è oggettivo in quanto veracemente percepisce qualche cosa fuor di sè che lo eccita a sentire; lo percepisce a suo modo, e non è nato a dire nè che cosa sia, nè come sia costituito. Anzi questo è impossibile. Perchè l'oggetto sentiti è l'immutativo dell'organo senziente. Ora l'immutativo dell'organo è certamente un complesso di forze e di moti: d'elasticità e di vibrazioni per l'udito, di magnetismo e di varie fasi elettriche per la visione. D'altra parte ripugna affatto che il senso percepisca ciascuno di cotali elementi : converrebbe che ciascuno da «è fosse già sensibile. Questo avviene nelle vibrazioni sonore, ove ciascuna è sens:bile al tatto, che può talora distinguere la variata pressione di ciascuna vibrazione ; non può distinguerle l'orecchio, che sente il complesso delle vibrazioni così rapide e così ampie e intense. Male dunque ci fideremmo del senso che ci attestasse una semplice qualità omogenea, dov'è tutt'altro. Senonchè prescindendo da questo, di che il senso non sa e non dice nulla, esso percepisce a suo modo un oggetto esterno : poi sente diversamente i diversi oggetti, e così dirige la vita animale, che è il primo e proprio scopo del sentire.
(3) Copernico ha raddrizzato la storta immagine ci e poneva la terra al centro dell'universo; Emm. Kant da parte sua ha tentato davvero di rovesciare o distruggere l'universo, ponendo che la norma delle cose è iu ciascuno di noi. E io non so come gli attribuiscano la conoscenza dei fenomeni, posto che egli insegna essere forme soggettive lo spazio e il tempo Senza spazio che diviene il mondo corporeo? Senza tempo, che è di tutti i moti da noi misurati in cielo e in terra ? È poi ridicolo il sofisma kantiano: Noi dappertutto scorgiamo spazio e tempo: dunque ce li mettiamo noi. Siccome è proprio e primo oggetto del nostro conoscere il mondo corporeo, ed è corporea tutta la natura estesa e mobile, è obiettivamente necessario che tutte le cose a noi per sè noto sieno misurate da spazio e tempo. 11 sofisma diverrebbe argomento buono contro quelli che costringessero allo spazio anche gli angeli.
(4) Qualcheduno ci avverte : ora questo voi attribuite al senso : chè l'occhio percepisce come semplice qualità la bianchezza, e voi negate che tale sia. - Sì, neghiamo ; perchè non possi am trascurare i molti fatt i fisici e fisiologici, dai quali consta il contrario. Nè questo diminuisce l'umana conoscenza, perchè una superiore facoltà ci dà modo di apprezzar giustamente la proporzione del senso al suo immutativo esterno ; e ci fa sapere che quella medesima bianchezza, con molte esperienze bene studiata e analizzata, è tutt' altro che una semplice qualità; e ci fa notare che il senso non è nato a conoscere la reale costituzione* dell' oggetto dal quale è eccitato e a cui si porta ; chè da una parte l'agente esterno deve essere complesso, dall'altra ripugna che il senso ne percepisca gli elementi, ciascuno dei quali già dovrebbe essere per sè sentito ; ci fa riflettere che il senso è per sè ordinato a reggere la vita animale, discernendo un sensibile dall'altro, ma senza nulla dire che cosa sia ciascuno ; che è colpa dell'intelletto prendere troppo leggermente dal senso una testimonianza ch'esso non dà: che non dipendono dai varii sensibili le supreme nozioni, ove sono i semi delle scienze.
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