P. ANTONIO MESSINEO, S.J.: AUTORITÀ E LIBERTÀ

 




Padre Antonio Messineo, S.J.
La Civiltà Cattolica, Vol I
Roma, 1945


L'autonomia assoluta della volontà, dalla quale, per effetto di una semplice trasposizione di soggetto, sono rispettivamente derivate le due correnti opposte dell'individualismo libertario e dello statalismo oppressore, all'esame obbiettivo fattone si è dimostrata insostenibile perchè internamente contraddittoria. Se, infatti, come ogni altro ente visibile, tanto l'uomo quanto lo Stato portano fin dalla nascita una legge immanente profondamente innestata nello loro stessa essenza, legge che li guida nell'esplicazione di ogni loro attività e si impone in modo categorico, la loro volontà non può in qualsiasi modo venir concepita come perfettamente autonoma e scaturigine originaria della norma, cui deve obbedire. 


D'altra parte lo stesso concetto di legge, col dualismo di superiore e inferiore che essa suppone, e quello di obbligazione morale, che dice legame indeclinabile causato da un comando categorico e tassativo, manifestano la contraddizione interna del principio, ammesso il quale, si dovrebbe conseguentemente negare l'esistenza di ogni vera norma morale e giuridica ed ammettere, come unica regola della vita, se regola può chiamarsi, l'arbitrio senza limiti dell'individuo e dello Stato. Conseguenze così gravi inducono la ragione a rigettare il principio dell'autonomia : nè l'uomo, nè lo Stato hanno una volontà assolutamente libera. 


Ma respingendo in modo così categorico l'autonomia della volontà, sulla quale ha costruito i suoi schemi il pensiero moderno, non si vengono a distruggere le maggiori conquiste da esso ottenute in favore della libertà, non si viene anzi a distruggere la libertà stessa del soggetto umano? Questo timore non avrebbe nessuna ragione di sorgere, se, come si è visto, dal principio dell'autonomia, non sono solamente seguite le teorie esageratamente favorevoli alla libertà dell'uomo, ma sono derivate ancora quelle che lo hanno totalmente subordinato al potere dello Stato. E ciò basterebbe da solo a manifestare come l'autonomia sia una spada a doppio taglio, la quale, messa in mano all'individuo, recide i nervi dell'autorità sociale, e, messa in mano allo Stato, può troncare addirittura la testa dell'uomo. 

 

E tuttavia a dissipare l'equivoco, donde nasce il dubbio sopra esposto, è necessario farsi a chiarire che cosa sia positivamente la libertà, perchè, solamente quando se ne sia compresa l'intima essenza, si può passare con sicurezza a dirimere la questione della sua coesistenza con l'autorità entro l'organizzazione sociale.

 

Una distinzione antica, malauguratamente dimenticata, separava la libertà fisica dalla libertà morale, o meglio distingueva nella libertà un doppio aspetto, l'uno fisico e l'altro morale, dei quali il secondo serve a meglio determinare e specificare il primo. La libertà fisica , o l'aspetto fisico della libertà, è quella facoltà congenita, in virtù della quale la creatura razionale possiede l'autodominio dei propri atti, e può per conseguenza, con una risoluzione che scaturisce dalla sua potenza volitiva, deliberare, scegliere fra due opposti o contrari, passare all'azione o arrestarla nel suo corso, preferire l'inerzia all'attività. O se si vuole, la libertà fisica è la stessa volontà dell'uomo, in quanto domina il campo interno ed esterno dell'azione, con un potere di scelta, che le permette di determinarsi in modo autonomo. 



Questo potere di elezione e di dominio è una facoltà congenita, perchè accompagna necessariamente la natura razionale, come una sua proprietà essenziale connessa col suo essere spirituale. L'uomo ha un suo proprio modo di operare, diverso specificamente da quello dei viventi a lui inferiori, dove non brilla la luce dello spirito. Mentre questi passano all'azione sotto l'impulso dell'istinto, al quale obbediscono ciecamente senza potere di autoriflessione, che faccia loro cogliere la natura dello stimolo e il fine cui esso tende; ossia mentre le creature irrazionali operano sotto l'influsso di una legge ferrea, con un fine ma non per un fine coscientemente perseguito ; la creatura razionale, nell'emissione dei suoi atti specifici , opera sempre con un fine e per un fine, in quanto all'azione precede una riflessione spirituale, che la rende consapevole e cosciente del termine cui tende. L'azione in tutto il suo processo entra in questo campo luminoso e vi rimane fino al suo totale compimento. 


La luce irraggia dal faro dell'intelligenza, la quale ha per ufficio di ponderare il valore di ogni singolo scopo particolare, scoprire in esso la parte di vero o di falso che vi si contiene, per presentarlo poi alla facoltà appetitiva, vale a dire alla volontà, affinchè questa a sua volta si muova per accettarlo o respingerlo, secondo l'aspetto sotto il quale le viene presentato. Ora l'oggetto specifico della volontà è il bene in universale, come quello dell'intelligenza è il vero assoluto, essa resta quindi necessariamente determinata soltanto quando l'intelligenza le presenta un bene universale ed assoluto. In tutti gli altri casi, in cui il proiettore spirituale illumina col suo fascio di luce un bene limitato, un oggetto o uno scopo nel quale non si esaurisce la ragione di bene, rimane in potere della volontà di aderirvi o no, di amarlo o respingerlo, di perseguirlo o di trascurarlo. La radice della libertà risiede pertanto nella natura razionale dell'uomo e nella tendenza delle sue facoltà spirituali verso il vero e il bene assoluto. 

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Alla libertà fisica si oppone, con contrasto incolmabile, una doppia necessità : la necessità detta interna, derivante da una legge di natura fissa e indeclinabile, da uno stimolo fisico o biologico, donde l'effetto segue ineluttabilmente, poste le condizioni richieste, così come avviene in tutte le operazioni del mondo inanimato e animato, dove non ha sede lo spirito : la necessità detta esterna, causata da coazione o violenza fisica , che, premendo sugli organi corporei, rende inefficace la reazione della facoltà spirituale. 


Da ciò appare come la libertà fisica non sia da confondere con la pura spontaneità, errore grossolano nel quale sogliono incorrere molti poco accurati studiosi di psicologia umana e altrettanto poco accurati costruttori di sistemi filosofici. La spontaneità, infatti, esclude soltanto la coazione esterna, non la necessità interna. Un atto si dice spontaneo quando fluisce dalle sue potenze produttive, senza l'influenza di un agente esterno che forzi la causa; quando cioè questa si muove da se stessa, per proprio impulso, obbedendo allo stimolo di una legge conforme alla sua natura. Spontaneo è l'atto col quale l'uomo digerisce il cibo o compie altre funzioni fisiologiche, e spontaneo è anche quello col quale egli lo cerca e lo appetisce ; ma fra i 

due passa una differenza sostanziale, in quanto il primo non può essere arrestato, operando gli organi sotto l'influsso di una legge biologica, e il secondo può esserlo, finchè l'uomo conserva l'equilibrio delle sue facoltà . Ogni atto libero può, dunque, dirsi spontaneo, ma non ogni atto spontaneo può dirsi libero, essendo essenziale alla libertà psicologica l'esenzione da qualsiasi necessità interna.


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Con questa ultima distinzione, abbiamo esaurito la descrizione della libertà fisica. Da essa si ricava che l'uomo può e deve con pieno diritto definirsi un ente naturalmente ed essenzialmente libero, donde la verità della frase del Rousseau, a suo luogo citata, se si riferisce alla libertà finora descritta. L'uomo è nato libero. L'errore del pensatore ginevrino e di tutti coloro che, come il Kant e seguaci, hanno costruito la teoria morale e sociale sul concetto di autonomia, non consiste nel proclamare l'uomo libero fin dalla nascita, ma nella perniciosa confusione da essi fatta tra la libertà fisica, e la libertà morale, estendendo a quest'ultima i requisiti della prima. 


Dal fatto che l'uomo nasce con una facoltà congenita di autodominio e di autodeterminazione, la quale gli permette la massima flessibilità di comportamento, si è indebitamente dedotto che egli gode della medesima assoluta padronanza di sè e delle sue azioni anche nel campo della morale e del diritto, sopprimendo conseguentemente qualsiasi legge o norma, che potesse essere in qualsiasi modo a quella pregiudiziale. Da questa erronea trasposizione è derivata l'idea dell'autonomia. 


La gravità dell'errore si coglierà ancora meglio, se si tiene presente il concetto di libertà morale. Essa può genericamente definirsi la libertà di agire secondo ragione. Dimostriamo questa definizione generica. Come ogni ente visibile si dimostra provvisto dalla natura di un principio interno, dal quale viene costantemente guidato in diverso modo nello svolgimento della sua attività specifica, così anche l'uomo deve essere stato provvisto dalla medesima natura di un principio interiore, che lo dirige nell'emissione dei suoi atti e nella multiforme sua operosità cosciente. Essendo egli, d'altra parte, un essere spirituale, che si distingue da tutti gli altri specificamente per la sua razionalità, questo principio interiore specifico non può essere altro se non la sua stessa ragione. L'uso della libertà deve pertanto adeguarsi alle esigenze di un tale principio spirituale, deve essere razionale. 


Quali sono in concreto queste esigenze ? Esse si possono dedurre dallo esame obbiettivo dell'azione veramente umana. E' un dato di esperienza immediata, verificabile da chiunque ami ripiegarsi su se stesso, che l'uomo opera per un fine, che l'intelligenza vede e pondera sotto l'aspetto del vero e la volontà desidera e ricerca sotto l'aspetto del bene. Nulla può attrarre a sè l'intuito della facoltà razionale se non racchiude un vero reale o che tale le appaia, come nulla può muovere la volontà, se non porta l'impronta del bene reale o apparente. Da questa esperienza si conclude che il fine, cui l'essere razionale tende, seguendo l'inclinazione più profonda della sua natura, è un vero che sia bene, un bene che sia vero . 


L'esigenza massima della ragione consiste, pertanto, nel principio sommo: fa il bene e fuggi il male, e conseguentemente la libertà morale, come facoltà di operare secondo ragione, consisterà propriamente nella libertà di fare il bene e di fuggire il male. Che cosa aggiunge, dunque, la libertà morale alla libertà fisica ? Aggiunge l'esistenza di una legge interna, con la quale l'uomo nasce e che è obbligato a seguire in tutte le sue operazioni, se vuole operare conformemente alle richieste della sua natura : legge interna che si esprime nel massimo precetto di fare il bene e di fuggire il male, donde poi derivano tutti gli altri precetti particolari, che regolano la condotta interna ed esterna, privata e pubblica del soggetto umano. 


Quando, dunque, si dice che l'uomo nasce libero si enunzia una verità indiscutibile, se implicitamente si ammette che questa sua originaria libertà è intrinsecamente limitata fin dal principio dalla legge somma della ragione e da tutte le altre norme morali e sociali, che da quella digradano come conseguenze pratiche. In altri termini, la proposizione è vera, se contemporaneamente si ammette che non vi è un solo momento, in cui l'uomo venga totalmente abbandonato all'arbitrio della sua volontà, e che, nell'istante medesimo in cui, ricevendo l'essere, riceve almeno in potenza la facoltà di autodeterminarsi, trova nella sua natura razionale una legge, alla quale quella facoltà deve sottostare. La libertà conseguentemente non è arbitrio, non è potere di fare e di disfare a proprio piacimento, di seguire capricciosamente qualsiasi impulso, ma è una proprietà dell'essere razionale, nettamente delimitata dalle norme morali e di giustizia. 


Quanto si è detto dell'uomo individuo vale analogamente della volontà dello Stato, giacchè essendo lo Stato un composto spirituale, per riflesso della spiritualità sostanziale dei suoi membri, deve soggiacere come quelli alla legge suprema della ragione e alle norme particolari e specifiche, che da essa derivano e lo riguardano. La sua libertà di azione non può significare discrezionalità di volere o autonomia assoluta, ma facoltà di operare al conseguimento di un bene, che in questo caso sarà il bene sociale. 


Se si tiene presente la distinzione finora spiegata, si vedrà subito come con essa si possiede la chiave del grave problema, che nasce dalla coesistenza del principio di autorità e di libertà nell'organizzazione sociale. I due principii sarebbero assolutamente inconciliabili, se la libertà dell'indidviduo e dello Stato equivalesse ad un'autonomia totale delle loro rispettive volontà, poichè in tal caso, non esistendo veruna norma obbiettiva, che si imponga indipendentemente da una loro previa accettazione, la libertà dell'individuo eliderebbe del tutto l'autorità dello Stato, mentre l'autonomia della volontà collettiva sopprimerebbe radicalmente la libertà dell'individuo. 


Ma se la libertà è una facoltà di autodeterminarsi secondo le leggi dettate dalla sana ragione, un potere di tendere al bene senza ostacoli, è possibile determinare i confini, dentro i quali l'una e l'altra possono muoversi, senza timore di interferenze dannose. Si tratta ora di stabilire concretamente le norme naturali, che circoscrivono i due campi di azione. 


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Moviamo dal principio sopra stabilito, che la vera libertà consiste nella facoltà di fare il bene. Se è possibile, dunque, determinare quale sia specificamente quel bene, cui deve essere diretta l'attività sociale, si avrà anche il punto esatto di riferimento, dove l'opera dell'individuo e dello Stato si incontrano, non per sopraffarsi ed elidersi, ma per assommarsi e integrarsi, e si avrà insieme la linea divisoria delle due libertà apparentemente contrastanti . A tale intento basterà volgere lo sguardo al fine naturale ed essenziale, in vista del quale l'ordine obbiettivo e l'ordinatore supremo vogliono che gli uomini vivano in società e obbediscano ad un'autorità, giacchè il fine naturale è sempre un bene proporzionato alla natura del soggetto.

 

Come è stato dimostrato in altro luogo, il fine sociale consiste nel benessere temporale, integrativo della persona umana e della famiglia, composto da svariati elementi materiali, intellettuali e morali, i quali concorrono a mettere in grado l'uomo di raggiungere i fini prevalenti della vita. Il mezzo poi, suggerito e imposto dallo stesso ordine di natura per conseguirlo, consiste nella collaborazione ordinata e pacifica sotto la direzione suprema di un'autorità competente. Mantenendo l'occhio fisso a queste verità ormai acquisite, si potranno dedurre agevolmente alcune norme fondamentali, le quali regolano l'uso della libertà e l'intervento dell'autorità. 


Dalla considerazione del fine discendono, innanzi tutto, i seguenti principii pratici. Fuori dell'ambito di competenza dello Stato rimane l'ordine soprannaturale, rispetto al quale l'individuo conserva una piena indipendenza, soggetto soltanto a quell'autorità di ordine superiore, la cui esistenza gli venisse comunicata e confermata dalla rivelazione. Se, infatti, lo scopo della vita sociale risiede nel benessere temporale dei soci , ossia in quella somma di condizioni esterne, che forniscano loro la sufficienza dei mezzi idonei a raggiungere la perfezione naturale, l'azione del potere pubblico non 

può estendersi direttamente ai beni essenzialmente interni e di ordine superiore, quali sono quelli che stanno sopra la natura. Se inoltre l'operosità sociale si esaurisce totalmente nel tempo, in quanto tende unicamente a sopperire ai bisogni della vita terrena, non può l'autorità, che ne guida lo svolgimento ordinato sostituirsi in nessun modo alla società positiva divina, alla quale è stato commesso l'ufficio di illuminare e santificare la creatura redenta in ordine alla sua salvezza eterna.

 

L'individuo e la Chiesa devono, pertanto, godere in questo settore della massima libertà : l'uno nel professare la propria religione, nel rendere gli atti di culto privati e pubblici, nell'ordinare la propria vita secondo le prescrizioni della fede abbracciata ; l'altra nello svolgimento della sua opera di salute a favore dell'uomo. Non bisogna però da questo limite, imposto alla volontà dominatrice dello Stato, concludere, come ha fatto il laicismo, che l'autorità sociale debba assumere un atteggiamento agnostico rispetto al problema religioso, considerandolo come un affare esclusivamente privato, giacchè dal fatto che il potere pubblico non possa legittimamente ingerirsi nel campo riservato all'autorità della Chiesa, non segue che possa ignorarlo. 


Oltre i doveri di culto che anche la società ha verso l'ente supremo, dal quale dipende, l'autorità che la regge ha anche il dovere positivo di interessarsi di quanto concorre al bene pubblico, in modo diverso secondo le proprie attribuzioni e competenze, o direttamente o indirettamente, direttamente quando le cause benefiche rientrano dentro il perimetro della sua facoltà, indirettamente quando ne rimangono fuori. Ora una delle forze, che agiscono come perpetuo e incorruttibile lievito rinnovatore nel corpo politico, è indubbiamente la religione ; lo Stato, quindi, non potendo farla oggetto diretto delle sue provvidenze, è tenuto indirettamente ad agevolarne l'azione, rimovendo gli ostacoli e coadiuvando tanto l'individuo quanto la società soprannaturale cui appartiene.



Il secondo principio pratico, che si deduce dalla considerazione del fine, prescrive all'autorità sociale il rispetto della sfera riservata all'inìziativa privata. Il bene sociale è un bene integrativo della persona umae della famiglia, in quanto tende unicamente a colmare le insufficienze dell'uomo e della società domestica, procurando loro quei mezzi che da soli non potrebbero procacciarsi . Dovunque, pertanto, l'individuo e la famiglia bastano a se stessi, possono arrivare con le proprie forze senza ricorrere all'aiuto altrui per il raggiungimento dei propri fini particolari, l'individuo gode di piena libertà, nè l'autorità può intervenire senza un abuso evidente della sua facoltà di dominio. 


Si apre così un larghissimo campo dove l'uomo rimane pienamente padrone di sè e della sua iniziativa. Nè ciò importa un'eccessiva restrizione del potere pubblico, al quale rimane in proprio un altro ben più largo settore, dove può anch'esso dispiegare liberamente le sue funzioni, senza mai esaurirlo del tutto, e questo è il settore del benessere collettivo. Tutto quanto riguarda l'ordine della vita civile e il bene comune dei soci rientra nelle sue competenze. La norma è per sè molto chiara e altrettanto chiaramente e categoricamente imposta dalla finalità intrinseca della vita sociale, e tuttavia aspramente contestata, da una parte dalle concezioni rivoluzionarie, anarcoidi e liberali, le quali sollevano contro il potere dello Stato le libertà individuali, e dall'altra dallo statalismo assorbitore e oppressore, che, dopo aver divinizzato la volontà collettiva, la scioglie da ogni limite obbiettivo e le subordina tutti gli aspetti della vita umana, anche i più interni. 


L'eccesso delle pretese è evidente nell'una e nell'altra tendenza. Esse dimenticano che il metro, col quale va misurata la legittimità delle richieste dell'autorità e della libertà individuale, non consiste nell'egoistica affermazione dell'arbitrio, ma unicamente nel bene comune. Come il fine sociale non permette che la libertà si trasformi in licenza e in libertinaggio, così non permette che l'autorità diventi un organo soffocatore e un opprimente e tirannico padrone dell'uomo. L'ordine e la prosperità della vita sociale non possono derivare, infatti, nè dallo sbrigliamento totale della libertà, abbandonata ai suggerimenti del capriccio individuale, nè dalla tirannia del potere pubblico, intento soltanto a far trionfare la ragione di Stato mediante il sacrificio dei suoi sudditi; ma da una collaborazione tra libertà, conscia dei suoi doveri e limiti, e autorità consapevole delle sue attribuzioni. 


Ogni invadenza, da qualsiasi parte avvenga, o dall'individuo nel campo riservato allo Stato o dallo Stato in quello riservato all'iniziativa privata, diventa perniciosa per il retto svolgimento della vita sociale, giacchè tende inevitabilmente a paralizzare una delle forze necessarie alla prosperità pubblica e prepara, con l'atrofia dell'autorità o con la sua ipertrofia, quelle rivoluzioni sanguinose, di cui è stato lugubre teatro la storia contemporanea. 


Rimane con ciò chiarito in qual senso vanno intese le tanto celebri libertà di opinione, di parola, di stampa e di religione, sbandierate già come un verbo nuovo dal pensiero razionalistico del secolo XVIII, e oggi tornate in onore dopo la parentesi totalitaria, come fondamento del genuino regime democratico. A cogliere l'esagerazione assurda, nella quale sono incorse tutte le concezioni libertarie, e nella quale, come se la storia non avesse nulla insegnato, scivolano alcune correnti politiche contemporanee nel rinnovato e fresco ardore apologetico in favore della libertà, basterà riflettere come, anche nella supposizione irreale che l'uomo fosse un essere solivago, le esigenze innate della sua natura spirituale non lo dispenserebbero un solo momento dall'obbligazione di cercare la verità e di amare il bene. 


Ma l'uomo non è destinato a vivere appartato, fuori dalla comunione con i suoi simili ; anzi degli stimoli congeniti di solidarietà e delle necessità fisiche e morali lo inducono irresistibilmente a ricercarla. Ora non appena egli obbedisce coscientemente a siffatti stimoli e si piega sotto la pressione di tali necessità vitali, dando inizio ad una collaborazione duratura, accetta uno scopo comune, che trova determinato dalla natura medesima. Ne segue allora che la sua libertà rimane immediatamente vincolata dalle esigenze di questo fine, del bene comune nel quale esso si assomma, e che quindi quelle particolari libertà di opinione, di parola, di stampa e di religione dovranno essere esercitate in conformità di quelle inderogabili esigenze. 


Qui appunto si innesta l'azione del potere pubblico e il suo diritto di intervenire a reprimere gli abusi, quando l'esercizio della libertà si dimostra dannoso al benessere generale. Nessuno in una società ben ordinata può arrogarsi la libertà di esprimere e propagare errori manifesti contro la verità, di demolire con la parola o con la stampa i principii morali sui quali si sorregge la vita individuale e sociale, di diffondere teorie sovversive, discreditare l'autorità, sovvertire l'ordine, ledere i diritti altrui e così via, come nessuno può pretendere che sia lasciato libero di bestemmiare, deridere e vituperare la religione e i suoi riti, o di fondare associazioni il cui scopo è in contrasto col bene collettivo. Concepire in tal senso la libertà dell'individuo equivarrebbe a legalizzare l'anarchia, negazione della vita sociale.


Altri principi pratici, rispetto al problema della coesistenza di autorità e libertà nell'organizzazione sociale, si deducono dal mezzo, che la natura prescrive per l'attuazione dello scopo collettivo. Se, infatti, tutte le forze radunate nella società civile devono collaborare per il raggiungimento del fine diventato comune, è cosa per se stessa evidente che non possono elidersi nè sopraffarsi, e che per la maggiore prosperità del tutto devono piuttosto integrarsi, sorreggersi e potenziarsi a vicenda. Tale collaborazione, d'altra parte, non può ottenersi, se ogni singola forza non viene dalle altre rispettata nel raggio di azione, che le è proprio, con la tutela efficace dei diritti . 


La libertà dell'uomo e del potere sovrano trovano, quindi, un limite invalicabile nei diritti altrui naturali o acquisiti, e nel vicendevole rispetto , imposto dalla necessità della collaborazione, si contemperano perfettamente le esigenze della libertà e dell'autorità, si assommano e si integrano le due forze sociali, dalla cui concorrente operazione dipende il benessere generale . 


Inoltre, se la collaborazione, perchè raggiunga il suo scopo, deve essere ordinata, è necessario che sia, non solo invigilata, ma anche diretta e stimolata da un principio regolatore e propulsore unico, da una mente e una volontà superiore, alla quale i componenti dell'organizzazione sociale hanno il dovere di obbedire, seguendone le prescrizioni e i comandi. La vita sociale richiede, pertanto, che la libertà dell'individuo non rimanga soltanto limitata naturalmente dalle norme morali più universali e dai principi sommi di giustizia, ma venga ulteriormente ristretta da un ordinamento positivo, che quelle leggi determina maggiormente e diversamente attua, aggiungendone delle altre contingenti, richieste di volta in volta dalle condizioni par

ticolari, in cui si svolge la vita di un popolo. 


A tale ordinamento e alle leggi sussidiarie, che lo vanno col mutar del tempo integrando e adattando alle nuove esigenze, l'individuo deve conformare la propria condotta, perchè anche essi , in ultima analisi, sono richiesti dal bene comune, donde sgorga l'obbligazione di sottostare alle ingiunzioni dell'autorità, anche quando, come nel caso della legittima difesa della società e dei suoi diritti, posti in pericolo dall'aggressione ingiusta, domandano il gravoso sacrificio della vita. 


L'origine però ultima di tale obbligazione ne determina già l'estensione, e per contrasto determina ancora esattamente l'ambito, dentro il quale l'autorità può legittimamente emanare le sue prescrizioni e i suoi comandi. L'obbedienza alle leggi non è supina acquiescenza, ma una cosciente sottomissione, accettata in vista di uno scopo ben definito ; essa quindi si estende tanto quanto si estendono le esigenze di quello, e non va oltre. Quando l'autorità le sorpassa, cessa il dovere di attenervisi, si estingue l'obbligazione di obbedirle. La legge in tal caso è ingiusta, e la legge ingiusta non è legge, ma arbitrio che non esercita nessun influsso morale sulla volontà libera dell'individuo, al quale rimane integra la facoltà di opporvisi passivamente o attivamente, secondo i casi e le circostanze. 


Inoltre l'obbligo della sottomissione alle leggi presuppone la legittimità della fonte, donde esse emanano. All'usurpatore o detentore ingiusto del potere pubblico non è per sè dovuta obbedienza. E tuttavia, anche sotto un governo sicuramente illegittimo o di fatto, la libertà dell'individuo rimane ancora vincolata dall'obbligazione generale di collaborare al bene comune. L'essere sociale perdura anche sotto un regime imposto dalla forza, e perdurano quindi gli obblighi, che discendono dallo scopo essenziale della convivenza collettiva e vengono imposti dall'ordine di natura. La legge naturale non si attenua, nè si estingue col mutare delle vicende e delle composizioni politiche, e perciò essa impone all'individuo il dovere di obbedire all'autorità di fatto in tutto quanto concorre al mantenimento dell'ordine, giova alla prosperità e al benessere comune, si inserisce nel quadro dell'amministrazione ordinaria della cosa pubblica, che altrimenti deperirebbe con danno incalcolabile dell'intero organismo. 


Nè per conseguenza una sottomissione all'autorità di fatto, circoscritta nei limiti descritti , può senz'altro essere giudicata come un atto di adesione, un'accettazione o un sostegno, essendo essa formalmente concessa, non perchè si sia riconosciuta in chi comanda l'esistenza di un titolo giuridico, ma perchè così impone il bene comune. Chi, pertanto, prestasse la propria collaborazione a un governo di fatto, negli stretti limiti segnati da questo bene, non potrà mai essere tacciato di tradimento verso l'autorità legittima, nè accusato di colpa, nè molto meno punito, avendo con la sua condotta obbedito ad un dovere morale e sociale permanente. 


I principii pratici fin qui esposti sono di grande importanza per la costituzione di un ordine sociale, rispettoso e della persona umana e dei diritti dell'autorità pubblica, e se ne potrebbe agevolmente dimostrare la attualità, scendendo sul piano delle competizioni politiche del tempo presente e delle ideologie , che dopo un lungo sonno, ritornano alla luce. Ma non è nostro intento inoltrarci per ora nel groviglio caotico, entro il quale si dibattono il pensiero e le istituzioni civili in via di assestamento! Piuttosto riassumiamo e concludiamo. 


Autorità e libertà non sono principii contrastanti, che non possano armonizzarsi in una sintesi feconda. Sono anzi due forze vive, che devono essere presenti in una società ben ordinata, per operare ciascuna nel proprio campo, la cui determinazione non è lasciata all'arbitrio nè dell'individuo nè dello Stato, ma viene fatta dalle norme fondamentali del vivere civile, che scaturiscono dal fine naturale ed essenziale dell'organizzazione politica e dalla necessità della collaborazione pacifica per conseguirlo. Gli attriti, che alle menti superficiali potranno farle apparire inconciliabili, derivano da un falso concetto di libertà, il quale, applicato all'individuo, ne disfrena le voglie egoistiche e ne scatena gli istinti, mentre, applicato allo Stato, lo trasforma in istituzione tirannica, in oppressore esoso e inclemente dell'uomo. 


A. MESSINEO S. I. 




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