JOSEF PIEPER: ABUSO DI PAROLA, ABUSO DI POTERE
Josef Pieper
All’argomento di questa riflessione – che si potrebbe anche formulare come: «l’abuso di linguaggio e il suo nesso con l’abuso di potere» – vorrei accostarmi seguendo due percorsi diversi tra loro, di cui tuttavia proverò a mostrare l’intima connessione.
Il primo riguarda la storia del pensiero antico, in particolare la battaglia condotta per tutta la vita da Platone contro i sofisti, quei maestri nell’arte della distorsione del linguaggio ben pagati e sostenuti dal plauso delle masse, in grado di esaltare il negativo trasformandolo in positivo e di rendere nero il bianco. Si tratta di quei personaggi che Platone nei suoi dialoghi mette a dibattere con Socrate. Tuttavia non è la dimensione storica ciò che in questo caso mi interessa in modo particolare. La posizione di Platone, e questo è il secondo percorso, dovrebbe essere considerata anzitutto come un caso esemplare in cui, a mio parere, si possono ravvisare alcuni elementi che riguardano direttamente la nostra situazione oggi. Vi sono buone ragioni per ritenere che Platone abbia riconosciuto, citato e combattuto, nella sofistica a lui contemporanea, un pericolo e una minaccia che accompagnano da sempre la vita dello spirito e la vita della società.
Ma, naturalmente, in questo modo non è soltanto il fenomeno della sofistica a tornare di nuovo attuale e interessante, ricevendo probabilmente un’attualità sempre maggiore in misura della progressiva differenziazione della coscienza. «La sofistica non è così lontana da noi come si pensa», afferma Hegel. E vorrei prendere questa frase come motto implicito di quest’intera mia riflessione, insieme alla nota postuma di Nietzsche: «L’epoca dei sofisti? La nostra epoca!». Come dicevo, non è soltanto la sofistica a diventare di nuovo interessante sotto questo profilo, ma forse lo sono ancora di più le argomentazioni contrarie di Platone, il suo confronto con essa. Ma su quale punto egli si oppone propriamente alla sofistica? Dove rinviene il suo aspetto peggiore? Che cosa esattamente vede minacciato da essa? A che cosa, secondo Platone, non si può assolutamente rinunciare affinché l’essere umano possa condurre una vita autenticamente umana? Dunque, di nuovo: qual è il punto su cui Platone si oppone ai sofisti?
L’aspetto esteriore di questi uomini, come tratteggiato nei dialoghi platonici, è piuttosto noto. Ma ci sono tratti ovvi e altri meni ovvi, e qualcuno che ovvio lo è solo in apparenza.
Anzitutto, questi uomini hanno un successo di tipo molto particolare, circostanza cui Socrate rivolge di continuo la sua ironica ammirazione. Si tratta della vendita della sapienza, dell’ignoranza sull’incommensurabilità tra denaro e spirito, come se non sussistesse differenza tra ciò che un tempo erano le artes liberales e ciò che noi oggi chiamiamo lavoro intellettuale, come se non sussistesse differenza tra onorario e stipendio. La questione è molto più attuale di quanto sembri a prima vista. Bertrand Russell, nella sua Storia della filosofia occidentale, ha osservato in modo piuttosto sprezzante che i professori di oggi non avrebbero alcun diritto a mettersi sul piedistallo e contestare i sofisti perché si facevano pagare per i loro discorsi. Anche loro infatti ricevono denaro – e non poco. Ma ciò non coglie il punto decisivo. In questo quadro il punto decisivo, quello dell’incommensurabilità, non viene affatto sollevato. Esso viene invece citato in modo molto più chiaro da un’osservazione incidentale di Socrate. Nel Cratilo – che, per inciso, si occupa anche del problema del linguaggio – si sta parlando di una questione specifica che ora non ci interessa approfondire. Socrate tace, finché gli viene chiesto: «Qual è la tua opinione, Socrate?». E lui allora risponde: «Se io avessi già ascoltato da Prodico [uno dei maggiori sofisti!] il suo corso da cinquanta dracme […] nulla impedirebbe che tu venissi a conoscere subito la verità […]: invece, di fatto, ho seguito il suo corso da una dracma. Di conseguenza, non so quale sia la verità su tale problema». Ecco che viene espresso in modo molto più chiaro il punto decisivo in questione.
Qualche anno fa, un amico di Einstein ha pubblicato sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» alcuni ricordi in cui, tra l’altro, racconta che Einstein un giorno gli avrebbe detto: «Un’università americana mi ha offerto mezzo milione di dollari per l’originale in dodici fogli manoscritti della Teoria della relatività. Quest’offerta mi ha fatto passare un brutto momento. Non si può vendere lo spirito». E Sartre, nella Presentazione nel 1945 del primo numero della rivista «Les Temps Modernes», affrontando la situazione dello scrittore nella nostra epoca, toccava certo molti punti, ma anche quello di cui ci stiamo occupando: «Perché mai proviamo imbarazzo, perché arrossiamo quando si parla di denaro? Riceviamo semplicemente uno stipendio, come ogni altro lavoratore!». Per un sonetto da quattordici versi, si riceverà allora un onorario a verso, oppure una paga oraria, o che altro? Forse si è impiegato soltanto cinque minuti per scriverlo, o magari sei mesi! Il punto essenziale sta nell’incommensurabilità tra denaro e spirito. Bisogna tenerlo presente, a mio parere, se si vuole trattare questi argomenti nel senso di Platone.
Vi è poi ancora un altro elemento interessante nell’aspetto esteriore dei sofisti: si tratta di quella singolare «bellezza» che Platone, senza eccezione, attribuisce agli antagonisti di Socrate, di quel brutto Socrate simile a un sileno. E anche questa bellezza, oggetto di un’ironia nient’affatto greca, sembra alludere a una dimensione molto più fondamentale, e anche molto meno ovvia. Il Protagora inizia con Socrate che narra di essere uscito da un incontro privato e di essersi imbattuto in un amico che gli avrebbe chiesto: «Da dove sbuchi, o Socrate? Sicuramente vieni dalla caccia del bell’Alcibiade». E lui avrebbe risposto: «Sì, in questo momento vengo proprio da lui. Ma ti voglio dire una cosa che ti parrà strana: malgrado egli fosse presente, io non gli rivolsi la mia attenzione e più volte mi dimenticai di lui. Vi era infatti qualcuno di molto più bello: Protagora», il vecchio sofista. È ovvio che si tratti di un discorso ironico. Ma perché un greco dovrebbe ironizzare sulla bellezza fisica? Per di più, altrove capita un fatto ben peggiore: viene elogiata la bruttezza – di qualcuno simile a Socrate. Avviene nel Teeteto, un dialogo tardo. Socrate si trova, assieme a Teodoro, un «maestro ospite» che tiene ad Atene lezioni di matematica, davanti a uno stadio nel quale un gruppo di giovani si sta rivestendo. E Socrate domanda a Teodoro: «Tra i tuoi uditori e studenti hai forse notato qualcuno degno di essere nominato?». E l’altro risponde: «Sì, uno, ma – e tu non volermene! – non è bello, anzi assomiglia a te per il naso rincagnato e per gli occhi in fuori!». A quel punto il gruppo di giovani esce di corsa e il ragazzo in questione, che è Teeteto, cui è dedicato l’intero dialogo, viene chiamato da Teodoro: «Teeteto, vieni qui, che Socrate vuole parlarti». Il dialogo, che poi entra in questioni molto astratte, speculative e anche complicate, inizia quindi con Socrate che chiede a Teeteto: «Bene, Teeteto! Che anch’io possa vedere da me stesso che faccia ho, dal momento che Teodoro dice che io ti assomiglio». La scena è architettata in modo così dettagliato che siamo obbligati a domandarci: che cosa ha in mente Platone in questo passo? Di certo non sta ironizzando sulla bellezza reale. Credo che probabilmente in questo caso si debba intendere il concetto di bellezza in un senso simile a quello che associamo all’idea di perfezione. Letteralmente «perfezione» significa compiutezza. Ma quando diciamo «perfezionismo», intendiamo una compiutezza potenzialmente negativa, fatale, pericolosa! E la domanda su quale sarebbe il tratto pericoloso di questa compiutezza, applicata al nostro argomento, diventa: che cosa ha esattamente Platone contro i sofisti?.
La sua contrarietà potrebbe essere provvisoriamente ridotta alla seguente formulazione: la corruzione della parola. I sofisti corrompono la parola! Ma in questo modo non si è ancora espresso il punto essenziale. L’aspetto peggiore sta per Platone nel fatto che i sofisti coltivano la parola con la più viva sensibilità per le sfumature linguistiche e con la maggiore intelligenza formale, perfezionando l’uso della parola ed elevandola ad arte – ma, al tempo stesso, corrompendone il senso e la dignità.
Per natura, parola e linguaggio non sono qualcosa di speciale e specialistico, non identificano un ambito parziale e specifico, ma rappresentano il mezzo in cui si svolge l’esistenza spirituale collettiva nel suo complesso. Nella parola, soprattutto, si attua la vita sociale. E pertanto, se la parola si corrompe, l’umanità stessa non può rimanere intatta e illesa.
Ma cosa significa corruzione della parola? È chiaro che non si può rispondere a questa domanda se non si ha un’idea precisa di ciò che costituisce la dignità e la «funzione» della parola stessa nel complesso dell’esistenza.
La conquista della parola umana e del linguaggio – così indubbiamente risponderebbe Platone, in accordo con la grande tradizione del pensiero occidentale – è sempre duplice, motivo per cui si deve presumere fin da principio che la parola può ugualmente corrompere o essere corrotta in due diversi modi. Il primo riguarda il fatto che, nella parola, la realtà emerge nella sua chiarezza. Si parla per rendere conoscibile qualcosa di reale attraverso la sua designazione. Conoscibile per qualcuno, ovviamente; e questo rappresenta il secondo aspetto, il carattere comunicativo del linguaggio.
Questi due aspetti del linguaggio e della parola, sebbene distinguibili, sono tuttavia inseparabili. L’uno non può sussistere senza l’altro. Si può, per un attimo, ritenere di avere a che fare soltanto con una certa situazione, di volerla conoscere e, ovviamente, anche designare. Designarla, certo, ma per chi? Ed ecco che entra subito in gioco l’altro elemento: interviene la comunicazione, perché già nel semplice sforzo di conoscere una cosa, lo scopo è quello di comunicarla. D’altra parte, posso per un attimo ritenere di avere a che fare soltanto con quell’interlocutore con cui in questo momento sto parlando. Ma di che cosa sto parlando? Si può parlare, dunque ,soltanto di cose. È ovvio che esista anche la menzogna, la falsificazione, tuttavia già molte volte ho posto la domanda – non ottenendo una risposta che mi soddisfacesse – se la menzogna sia una forma di comunicazione. Io direi di no. È l’opposto di una comunicazione. Significa, appunto, negare all’altro la sua parte o la sua partecipazione alla realtà, proprio perché questa non viene con-divisa. Dunque, la corruzione del riferimento alla realtà e la corruzione del carattere comunicativo sono evidentemente le due possibili forme di corruzione della parola. E in effetti, sono proprio quelle che Socrate imputa alla retorica sofista come arte del discorso. Nei dialoghi platonici ritornano costantemente quest’accusa e questa denuncia (e basta soltanto formularle per vedere quanto siano incredibilmente moderne): i sofisti credono che occorra occuparsi delle cose soltanto per poterne parlare in modo convincente! Ma siccome non importa loro davvero delle cose come tali, non sanno discuterne. Sono certo capaci di tenere lunghi discorsi, ma non di condurre una conversazione, sono incapaci di dialogare!
Di nuovo, un aspetto è inseparabile dall’altro. Il discorso che si emancipa dalla norma delle cose è anche privo di interlocutori. Ma che cosa significa emancipazione dalla norma delle cose? Significa indifferenza alla verità. La verità indica il fatto che, nel parlare e nel pensare, io mi oriento sulle cose. Non ritengo che sia una mera nota di colore – sebbene Platone ne sarebbe stato anche capace – il fatto di definire nichilista Gorgia, quello stesso uomo a cui, nei suoi dialoghi, attribuisce per mestiere proprio l’esercizio della parola, l’attenzione puramente formale all’uso del linguaggio! Essendo un personaggio storico, ci sono giunte alcune delle righe iniziali della sua opera, che parte affermando: «Nulla esiste». Naturalmente Gorgia non vuole dire che non esistono i mille fatti su cui poi sono possibili altrettante affermazioni e commenti! Ma intende dire che non esiste quell’essere che potrebbe detenere una forza normativa sulla quale il parlante dovrebbe o potrebbe orientarsi!
Dunque, il riferimento alla realtà, (ossia) la verità, non può avere alcuna rilevanza per chi aspira alla mera arte della parola. Chi richiede un simile criterio dimostra già di non avere idea di ciò che conta davvero in quell’arte.
«Uno scrittore si definisce per il fatto che per lui la persuasione è diventata una seconda natura, gli è del tutto indifferente ciò che si pensa e si scrive». Questa tesi che, dobbiamo ammetterlo, tocca questioni fondamentali è di un autore che però non è un sofista di un dialogo platonico, bensì un importante scrittore moderno di lingua tedesca. Gorgia avrebbe potuto dire lo stesso; anzi si è proprio espresso in modo simile: decisivo non è il «che cosa», ma il «come» – la costruzione, l’espressione, la forma. Naturalmente questo, in prima battuta, ha anche una sua verità. L’opera d’arte letteraria non è riducibile all’argomento trattato, ma nasce dalla capacità di modellare forme linguistiche. Ciò che però conta per Platone, e su cui insiste per confutare tale tesi, ciò che si aspetta da noi e anche da se stesso, dalla sua sensibilità estremamente acuta per la forma linguistica, è questo: occorre riconoscere che si può anche produrre qualcosa di eccellente – di perfettamente detto, brillantemente formulato, magnificamente scritto, raffigurato, messo in scena, filmato... – che tuttavia, al tempo stesso, se considerato nel suo complesso e nel suo aspetto fondamentale, risulta essere falso, e non solo, ma anche misero, scadente, pietoso, imbarazzante, nefasto, guasto, seppure realizzato in modo magnifico!
Platone non afferma che se qualcosa è realizzato magnificamente, allora si deve già sospettare un inganno, ma soltanto che ci si deve tener pronti al fatto che possa esistere una cosa del genere, qualcosa di realizzato in modo magnifico e tuttavia falso e misero – a meno di non intendere, e ora cito il Socrate platonico, un artista della parola solo colui che dice la verità. Ma basta soltanto pronunciare questa tesi, e già ci si trova nel mezzo di una discussione, dove «discussione» è un termine molto blando per indicare ciò in cui, non diversamente del resto da Platone stesso, ci verremmo a trovare anche noi.
Socrate tuttavia non presta affatto fede al suo interlocutore, Gorgia; non crede che per quell’uso della parola incurante della verità non conti davvero nient’altro che la pura forma, l’audacia delle immagini, la brillantezza dello stile, la conquista di nuovi mezzi di espressione. È vero che, nella torre d’avorio di una pratica letteraria alla moda, si potrebbe anche rimanere, per un tempo più o meno lungo, nell’ingannevole apparenza che le cose stiano così; è vero che potrebbe trattarsi esclusivamente, o anche solo prioritariamente, di un interesse di questo genere. Ma Socrate costringe Gorgia a rompere lui stesso quest’apparenza, obbligandolo ad ammettere che quest’uso perfezionista della parola, separato dalla radice della realtà, mira in effetti a qualcosa di completamente diverso, e cioè che un simile linguaggio diventa necessariamente uno strumento di potere, anzi in fondo lo è già fin dal principio.
E con questo si arriva al secondo aspetto della corruzione della parola: la distruzione del suo carattere comunicativo. Su questo punto va detto subito che la nostra analisi risulta in parte ostacolata dalla terminologia piuttosto antiquata con cui solitamente ci affliggono le traduzioni di Platone, tanto che siamo costretti a desumere solo con una certa difficoltà l’autentico messaggio dell’enunciato platonico. In questo contesto, si parla di arte della persuasione, di adulazione, di discorso adulatorio e arte adulatoria. È chiaro che con simili termini non si cava, secondo il famoso detto, un ragno dal buco. (È stato Hegel ad affermare che non sarebbe compito della filosofia cavare il ragno dal buco, ma è mia intenzione mostrare che, in questo punto, si nasconde un tema di estrema attualità.)
Nel momento stesso in cui, come ho detto, si utilizza deliberatamente la parola evitando espressamente di orientarsi sulle cose, si smette di comunicare qualcosa all’altro nella verità. Questo, bene o male, il lettore potrebbe forse ancora accettarlo. Ma «strumento di potere»? Non è un’espressione esagerata e troppo impegnativa? Significherebbe che, da un momento all’altro, dovrebbe mutare la relazione reciproca tra colui che parla e colui che ascolta. E io direi che è proprio così, che accade proprio questo! Chiunque parli a un altro come stiamo ora supponendo, non in modo spontaneo ma manipolando consapevolmente la parola e non preoccupandosi manifestamente della verità, chiunque, in altre parole, sia interessato a qualcos’altro piuttosto che alla verità, questi effettivamente, a partire da tale momento, non considera più l’altro come un interlocutore, come un soggetto alla pari. Non lo prende più in seria considerazione come persona umana. E, a rigore, da questo momento in poi, non ha più luogo alcuna conversazione, alcun dialogo, non si sta più parlando insieme. Ma allora che altro avviene? Proprio a questa domanda risponde Socrate con il termine desueto di «adulazione»: è probabile che abbia luogo un’adulazione! Ma che cos’è, «corpo di un cane!» (per restare nell’idioma socratico), quest’adulazione? Questo termine ci risulta sfuggente, non essendo di uso così frequente, ma la questione è più attuale che mai.
Cos’è dunque l’adulazione? L’adulazione non consiste nel fatto che io parli a un altro in modo compiacente, che mi rivolga a lui con parole cortesi che gradisce sentire. Né deve esprimere per forza una menzogna. Posso incontrare un mio collega e dirgli: «Ho letto il tuo nuovo saggio; lo trovo magnifico!», e non averlo in verità letto affatto (e dunque non posso trovarlo magnifico), eppure questa non è ancora un’adulazione! Posso invece averlo letto davvero ed esserne davvero entusiasta, e, ciononostante, le mie parole possono essere adulatorie. Qual è la differenza, dove sta il fattore discriminante? L’aspetto decisivo risiede nel fatto che, nel secondo caso, è in gioco un «interesse». Non glielo dico per fargli piacere; non glielo dico neppure perché è vero; ma glielo dico affinché l’altro mi faccia un favore! Questo «interesse» trasforma le mie parole in un’adulazione, come chiunque può capire. L’altro, a cui mi rivolgo in vista di un favore, non è più per me un interlocutore, non è affatto un soggetto alla mia pari, è piuttosto un oggetto da manipolare, un oggetto di cui tento di impadronirmi e che, per questo, sottopongo a uno specifico trattamento. In pratica, avviene l’opposto di ciò che appare. Sembrerebbe – soprattutto allo stesso adulato – che lui venga rispettato nella sua peculiarità, mentre in realtà non sta affatto accadendo questo. È proprio la sua dignità a essere ignorata nel momento in cui cerco con cura di individuare le sue debolezze, ciò per cui potrebbe avere un debole – per poi servirmene, ai miei scopi. E la parola, nella stessa misura in cui gioca un ruolo in tutto ciò, smette di comunicare. Al suo posto si pone un discorso essenzialmente senza interlocutore (non ne è infatti presente alcuno), un discorso che, in contrasto con la natura del linguaggio, in realtà non significa nulla, ma mira a uno scopo. La parola è snaturata e degradata a una sostanza, a una droga per così dire, da somministrare. Potrebbe sembrare che definirla strumento di potere sia, in ogni caso, un po’ esagerato, ma non è poi così lontano dal vero.
L’attualità di tutto ciò emerge non appena ci si chiede in quale ambito si potrebbe oggi pensare di collocare un’adulazione di questo genere. E a ciò si accompagna subito un’ulteriore domanda: esiste ancora qualche zona dell’esistenza che ne sia esente, un angolo in cui non mi si dica ciò che voglio sentire – affinché io faccia qualcosa, ad esempio compri uno specifico prodotto? In questo quadro, forse, i testi promozionali delle pubblicità commerciali potrebbero essere un caso ancora relativamente innocuo! A dire il vero, non così innocuo, se si considera che questo genere di messaggi rivendica ora un’onnipresenza quasi assoluta e che questa viene poi loro effettivamente accordata. E forse è ancor più problematico il modo in cui senza esitazione viene messa al servizio di quest’impresa la conoscenza più intima, più profonda della psiche umana. Per tacere della forza con cui queste immagini idealizzate affisse ovunque sono in grado di influenzare l’essere umano, essendo state sostanzialmente elaborate a partire da una resa esteticamente allettante dei nostri punti deboli. Non si deve certamente demonizzare questa pratica; si potrebbe dire che non accade ancora nulla di seriamente minaccioso se ti viene detto ciò che vuoi sentire, rivolgendosi con qualche piacevole ovvietà alla tua natura cosmopolita, alla tua speciale competenza, alla tua modernità, alla tua giovinezza o a qualunque altro aspetto, per indurti a comprare queste sigarette o questo dopobarba o questo whisky. Ma non si può negare che in questo modo il linguaggio, mirando sempre più esclusivamente a un obiettivo ed esprimendo sempre meno un significato, perda progressivamente il suo carattere comunicativo. Gli slogan pubblicitari non hanno praticamente nulla a che fare con ciò che vi viene direttamente decantato. Sono dei semplici nonsenso, ma non proprio così semplici, bensì calcolati bene e generosamente finanziati! L’aspetto preoccupante è che noi tolleriamo tutto ciò, nel duplice senso per cui ce ne compiacciamo e ne siamo vittime!
L’autentico dominio dell’arte adulatrice della sofistica risiede tuttavia sotto un altro titolo, non così facilmente riconducibile a una designazione precisa. A tale riguardo, propongo di esaminare con una certa attenzione il concetto di «intrattenimento». Con questo termine non intendo indicare i divertimenti con i quali si trascorre il proprio tempo in compagnia. Né mi riferisco in generale a qualcosa che si fa e si pratica, quanto piuttosto al senso che veicola l’espressione felicemente esplicita, seppur alquanto brutale, di «industria dell’intrattenimento». Si tratta del particolare bene di consumo messo sul mercato da quel singolare comparto produttivo che esercita l’adulazione come big business. E non si deve soltanto pensare alla letteratura di basso livello e al consumo di massa. Al contrario, la «sofistica» implica l’ambizione alla perfezione stilistica e formale. Di per sé la questione è abbastanza complicata. Non soltanto infatti, come sempre, si lusinga qualcuno perché compri un certo bene di consumo, ma in questo caso è lo stesso discorso adulatore a essere oggetto di acquisto e di consumo. Pago proprio perché mi si dica ciò che voglio sentire! Questa formulazione però non coglie ancora esattamente il punto. A rigore, la merce per la quale sono disposto a pagare il prezzo richiesto consiste non soltanto nel fatto che vengono lusingate le mie debolezze – come senz’altro accade –, ma che ciò avvenga in modo che il vero volto di tale processo resti comunque nascosto ai miei occhi. Del resto, questo tratto appartiene già al concetto stesso di adulazione: un’adulazione palese sarebbe di per sé una contraddizione. Si dice che il mondo vuole essere ingannato, mundus vult decipi. È certamente corretto, ma anche semplicistico. Ciò che in fondo il mondo vuole è che gli venga detto ciò che ama sentire, e non gli importa se in questo modo lo si sta ingannando; anzi, al tempo stesso, desidera essere messo nelle migliori condizioni per poter facilmente trascurare quest’aspetto ingannatore. Nel godere dunque del fatto che mi venga data ragione e che io sia lusingato, voglio, al tempo stesso, poter credere, in tutta coscienza o per lo meno con la coscienza tranquilla, che quello che mi viene detto – o che leggo, che ascolto, che mi viene mostrato – è vero sul serio, è importante, vale la pena parlarne, è reale!
Questo è dunque ciò che si richiede. E tale domanda deve essere soddisfatta da un’offerta adeguata, se si vuole vendere con profitto. Peraltro, la domanda non si rivolge soltanto al piacere nel senso più ovvio del termine. Non esistono soltanto sesso, sensualità, vanità, curiosità e sentimentalismo; esiste anche la crudeltà; esiste, ed è bene non dimenticarlo, la gioia per il male altrui. Vi è poi il piacere dell’ingiuria, l’ebbrezza della distruzione e l’entusiasmo per le «soluzioni finali». E si desidera essere lusingati su tutti questi punti deboli. Ma non in una forma qualunque, bensì in modo credibile, «con buone ragioni», come afferma Hegel. È indubbiamente un’impresa alquanto pretenziosa quella che si intende mettere in atto. Persino Socrate non usa un tono ironico quando lo attesta nei sofisti: «Siete davvero gente straordinaria; dovete conoscere proprio bene gli uomini e saper colpire di volta in volta il punto con grande precisione».
D’altra parte, una simile impresa è naturalmente accompagnata dalla promessa di un grandioso successo. Ed è ovvio che questo non possa realizzarsi se non nel medium linguistico – nel linguaggio nel senso più ampio del termine: parlato, cantato, stampato, illustrato, filmato, trasmesso. L’intero arsenale dei mezzi di comunicazione di massa viene preso in esame e messo a disposizione. Tutte queste possibilità di utilizzo della parola, in larga misura istituzionalizzate, sono essenzialmente concepite per essere il veicolo di un discorso autenticamente umano, mirando dunque alla conoscenza della realtà e alla sua comunicazione. E credo che sarebbe assolutamente ingiusto affermare che questa destinazione autentica della parola venga sistematicamente tradita e mancata. Tuttavia, è evidente che il rischio di corruzione aumenta quanto più allettante diventa la possibilità di successo. E ciò non minaccia un settore particolare, lo specifico comparto giornalistico o televisivo o radiofonico, ma mette a rischio il complesso della vita sociale umana, nella misura in cui questa si svolge necessariamente nel medium della parola. In breve, il pericolo è quello di un generale decadimento della comunicazione e di una deturpazione pubblica di realtà e verità.
Ho detto che questo rischio è evidente. Ma, se è evidente che il rischio esiste, non lo è purtroppo altrettanto la sua presenza in quanto tale. Appartiene infatti alla sua stessa natura il restare celato e nascosto. Tanto che può essere estremamente difficile, forse impossibile, riconoscere in un caso concreto (un romanzo, un’opera teatrale, un film, un commento radiofonico o un saggio di critica culturale) il limite che separa la chiarificazione della realtà che avviene nella comunicazione dalla manipolazione della parola calcolata unicamente in vista del successo. In questo caso, la maestria nella costruzione formale non è un criterio adeguato. Un enunciato filosofico – o anche, è bene ricordarlo, un’asserzione teologica – la cui esistenza dipenda anzitutto, ad esempio, dall’effetto sorpresa, traendo dunque profitto dalla generale noia intellettuale, può essere in fondo, in questo senso specifico, un mero intrattenimento – e possono probabilmente esserlo anche la filosofia, la teologia e la scienza umanistica in generale, esattamente come un’opera pretenziosa della cosiddetta narrativa: tutte possono essere forme, forse massimamente sublimi, di adulazione, di compiacimento in vista del successo. Dove con «successo» non devono necessariamente intendersi i numeri delle tirature o il guadagno finale, ma il suo grado di riuscita in una forma qualsiasi: l’applauso delle masse come l’ammirazione degli happy few.
Platone lo ha ripetuto più volte: la difficoltà di riconoscere il sofista è parte del suo successo. «Il sofista», scrive John Wild, studioso americano di Platone, «somiglia molto più a un vero filosofo di questo stesso». Ma si deve comunque cercare di distinguerlo. Platone, da parte sua, ha spinto questa complicazione già in effetti diabolica ancor più all’estremo, sul versante per così dire opposto. «Non deve forse», così domanda Socrate nel Fedro, «anche colui che intende mostrare ciò che davvero è reale anzitutto adulare gli uomini, in modo che prestino attenzione? Non esiste forse qualcosa di simile a una seduzione in vista della verità?». Karl Jaspers, verso la fine della sua vita, ha scritto che forse sarà inevitabile un giorno che la verità stessa debba assumere la forma della propaganda per venire ascoltata dalla gente. Søren Kierkegaard, poi, verso cui tuttavia occorre sempre stare in guardia per la sua nota ironia, poco prima della morte, ha redatto un breve saggio, Sulla mia attività di scrittore, in cui questo punto di vista viene riportato alla formula sintetica del «condurre con l’inganno al vero». Per smuovere le persone, occorre anzitutto, per Kierkegaard, iniziare a lavorare sotto il profilo estetico, mettere prima di tutto in movimento la barca. E quando si è avviata, bisogna lasciarla incagliare sugli scogli della verità. E allora si deve riuscire a scappar via veloci, altrimenti si rischia la vita.
Sia come sia, resta che quando si dice deliberatamente a una persona ciò che vuol sentire, si corrompe la parola, necessariamente. Al posto dell’autentica comunicazione subentra una dinamica che definire «rapporto di forza» è fin troppo delicato; si dovrebbe piuttosto parlare di tirannia, di dispotismo. Da un lato, emerge una pseudo-autorità non legittimata da alcuna superiorità intellettuale e, dall’altro, una dipendenza che, anche in questo caso, definire tale è in realtà troppo gentile – «asservimento» sarebbe il termine corretto. Dunque, da un lato, una pseudo-autorità non legittimata da nessuna reale superiorità e, dall’altro, asservimento.
È evidente che Platone sapeva ciò di cui parlava quando affermava che l’arte adulatoria dei sofisti è un simulacro della politica, ossia l’attribuzione fraudolenta di un uso del potere che, in verità, pertiene esclusivamente al legittimo governo politico.
Ovviamente, non si può ancora parlare di violenza ed esercizio di potere in senso stretto – non siamo ancora, per così dire, in presenza di una questione seria. Ma di certo non ci si muove in uno spazio autonomo dalla realtà politica, riservato soltanto all’«informazione», alla «cultura», alla «letteratura» o in qualunque altro modo lo si voglia definire. La parola dell’informazione, una volta affrancatasi sostanzialmente dalla norma di verità, diventa per natura uno strumento disponibile che attende solo di essere preso in mano da un potente e di essere poi impiegato per scopi violenti di qualunque tipo. E questa parola dell’informazione scissa dalla norma di verità crea essa stessa, quanto più guadagna terreno, un’atmosfera di predisposizione patogena epidemica e di inclinazione verso il dispotismo.
La corruzione e l’abuso del linguaggio entrano dunque al servizio della tirannia, sotto l’insegna, a noi ben nota, della propaganda. Occorre, su questo punto, tornare brevemente a Platone e alle traduzioni dei dialoghi. I traduttori di Platone parlano di «arte della persuasione». Platone stesso ha però affermato (nella Repubblica, il grande dialogo sullo Stato) che l’esistenza iniqua sarebbe caratterizzata dall’insieme e dall’intreccio di peithó e bia, ossia di «parola persuasiva» e «nuda violenza». Se dunque ci si limita a parlare di pubblicità, di persuasione amichevole, di adulazione, viene omesso e occultato un aspetto importante: l’elemento della minaccia. A dire il vero, la maestria nell’uso propagandistico della parola consiste proprio nel fatto che la minaccia non venga mostrata nella sua nudità, ma risulti appunto velata. Deve certo sempre rimanere riconoscibile, deve sempre rimanere percepibile. Ma, al tempo stesso, si deve mettere il minacciato (in ciò risiede la vera arte!) in condizione di poter facilmente credere che lui in fondo, nel lasciarsi intimidire, stia facendo proprio la cosa più ragionevole, e forse persino ciò che lui stesso avrebbe realmente voluto.
Tutto questo non è estraneo alla nostra esperienza. La propaganda non è affatto soltanto un atto amministrativo di uno Stato autoritario. È presente ovunque un gruppo di potere, un clan ideologico, un collettivo di parti interessate, un gruppo di pressione impieghi la parola come un’«arma». E naturalmente la minaccia, oltre alla persecuzione politica, può significare molto altro. In particolare può indicare tutte le forme e tutti i gradi della diffamazione, la pubblica derisione, l’esclusione sociale, in quanto tutto questo accade secondo modalità linguistiche, anche attraverso la parola taciuta. Tra le forme di quella che lui stesso chiama la «moderna sofistica», Karl Jaspers ha menzionato anche il «linguaggio della sedizione» che, «isolando un singolo elemento, si sforza di metterlo in rilievo con radicale drasticità [e nel] bagliore del particolare esso acceca, non consente di scorgere il resto […] col solo scopo di giustificare l’indignazione sovvertitrice».
Il tratto comune a tutto ciò è la degenerazione del linguaggio a strumento di violenza. Ovunque, in questo quadro, è presente già un atto latente di violenza. E proprio questo è uno degli insegnamenti che Platone stesso sembra aver tratto dall’esperienza con la sofistica del suo tempo, e che ci lascia come motivo di riflessione. Questa lezione afferma, in sintesi, che la degenerazione del dominio politico dipende sotterraneamente dall’abuso sofistico della parola e addirittura vi viene nascostamente preparata, tanto che la virulenza latente della tossina totalitaria potrebbe essere quasi letta nel sintomo dell’abuso del linguaggio nell’ambito dell’informazione. E anche l’umiliazione dell’uomo da parte dell’uomo, che per tutti si manifesta in modo allarmante negli atti di violenza fisica di una tirannide (campi di concentramento, tortura), inizia già, seppure in modo molto meno allarmante, in quel momento difficile da cogliere in cui la parola perde la sua dignità. La dignità della parola consiste però nel fatto che in essa, nella parola stessa, accade ciò che non può accadere in altro modo, ossia la comunicazione nel suo riferimento alla realtà. Ecco mostrarsi nuovamente come entrambi i percorsi procedano paralleli, e non ci si potrebbe aspettare altrimenti. Al nudo rapporto di violenza, ossia al più desolante disfacimento della convivenza civile, corrisponde anche la peggiore distruzione del riferimento alle cose.
Ho parlato di una «deturpazione pubblica della realtà e della verità». Questa formula sintetica è però forse ancora troppo moderata, perché non consente di far emergere in pieno la sciagura che si prepara nella corruzione sofistica della parola. È probabile che non solo la vera realtà svanisca dietro ai «fatti» propagandisticamente gridati e discussi – tanto che si possono anche conoscere in dettaglio migliaia di particolari e tuttavia, non cogliendo l’essenza della questione, sostanzialmente non riuscire a comprenderli. Questo è già certo un fenomeno singolare e inquietante, che Arnold Gehlen una volta ha chiamato l’«estraneità al mondo che nasce dalla tecnica e si muove nella più piena informazione». Ma, come dicevo, si può pensare a un ulteriore livello, ancora più irrimediabile, per cui, al posto della vera realtà, subentra una realtà fittizia; il mio sguardo è ancora rivolto verso un oggetto, ma ora esso è una pseudo-realtà che appare ingannevolmente reale, rendendo quasi impossibile scoprire come stiano veramente i fatti.
Platone ha scritto per circa cinquant’anni, continuando a chiedersi: «Qual è l’aspetto veramente peggiore della sofistica?». E alla fine ha elaborato un dialogo, il Sofista, aggiungendo alla sua precedente risposta un ulteriore elemento: «Il sofista è colui che appronta realtà fittizie». È l’idea devastante secondo cui lo spazio di esistenza dell’uomo può essere occupato da realtà illusorie, il cui stesso carattere fittizio rischia di diventare impossibile da cogliere. Quest’incubo platonico possiede, credo, una terribile attualità. In effetti, la persona comune viene messa nelle condizioni non soltanto di non riuscire a trovare la verità, ma di non essere neppure in grado di cercarla, perché si accontenta dell’illusione, della falsificazione, che bastano a convincerla. Si tratta di quella finzione della realtà che si realizza nell’abuso intenzionale del linguaggio. E questa, afferma Platone, è la peggiore conseguenza che la corruzione sofistica della parola possa provocare nel mondo umano.
Esiste però un antico detto, corruptio optimi pessima, dalla corruzione del migliore scaturisce il peggiore. Secondo questo detto, chiunque abbia un’idea del peggio deve averne anche una del meglio. E ovviamente occorre dire che Platone non è semplicemente un antisofista. Più importante è la forza di quanto afferma positivamente. Il suo fermo opporsi alla sofistica può essere compreso soltanto a partire dal suo porsi a favore dell’importanza di quel bene da essa compromesso e minacciato.
Da ciò, naturalmente, emerge la sua convinzione profonda circa il senso dell’esistenza spirituale nel suo complesso, e questo non è certo il luogo in cui trattarne in dettaglio. Ma vorrei tuttavia riassumere tale convinzione in tre brevi tesi.
Prima tesi. Il bene dell’essere umano e il senso dell’esistenza umana risiedono nel vedere quanto più possibile le cose come sono e nel vivere e nell’agire sulla base della verità così colta (la verità non è infatti un dato che fluttui da qualche parte, ma è il mostrarsi stesso della realtà).
Seconda tesi. L’essere umano si nutre anzitutto di verità, non solo il sapiente, lo scienziato, il filosofo. Chiunque desideri vivere da essere umano è allora rinviato a questo nutrimento. Anche la società vive di quella verità che viene pubblicamente proclamata e mantenuta presente.
Terza tesi. L’habitat naturale della verità è lo scambio dialogico tra gli esseri umani. La verità accade nel dialogo, nella discussione, nella conversazione, in ogni caso nel linguaggio e nella parola. E pertanto l’ordine dell’esistenza, in particolare della vita sociale, è essenzialmente fondato sull’ordine del linguaggio. Tuttavia, l’ordine del linguaggio non sta primariamente nella sua perfezione formale. Per quanto mi piacerebbe concordare con Karl Kraus quando afferma che tutto dipende da una virgola al posto giusto, con ordine del linguaggio non si intende questo, bensì il fatto che la realtà giunga alla parola con la maggiore integrità e completezza possibile.
Si può aggiungere che queste tre tesi costituiscono anche il fondamento per quella comunità di insegnamento e apprendimento che Platone ha istituito ad Atene presso il boschetto dedicato ad Akademos: il fondamento, dunque, dell’Accademia platonica. Ma non appena si nomina l’«Accademia», non si sta più parlando soltanto di Platone; si menziona piuttosto un paradigma da cui, fino ai nostri giorni, ogni istituzione accademica al mondo, a torto o a ragione, prende il nome. Ovviamente le nostre università, le nostre scuole di alta formazione si differenziano sostanzialmente dall’antica Accademia originaria. Tuttavia, il concetto di «accademico» indica qualcosa di identico nel tempo, qualcosa di molto ben identificabile. Nel mezzo della società c’è, appositamente riservata, una zona di verità, uno spazio protetto per l’analisi indipendente della realtà, in cui si possa liberamente interrogare, indagare, approfondire e anche esprimere le modalità di articolazione della verità delle cose. Un ambito esplicitamente preservato da ogni possibile asservimento a uno scopo specifico, in cui tacciono tutti gli interessi esterni, siano essi collettivi o privati, politici, economici o ideologici. Nella nostra epoca, in modo piuttosto drastico, ci è stato mostrato il significato della presenza o meno, in una comunità politica, di un simile spazio libero, di un simile «rifugio». Non occorre aggiungere altro sul fatto che solo in questo modo si possa effettivamente realizzare la libertà – non già l’intera libertà, però una sua parte vitale e indispensabile – e che, se una limitazione e una costrizione imposta dall’esterno su tale ambito risulta intollerabile, è tuttavia ancor più disperante, per l’esistenza spirituale dell’essere umano, non poter dire e comunicare, non poter esprimere pubblicamente come, in tutta scienza e coscienza, stiano realmente le cose.
Ma questo spazio di libertà non necessita soltanto della garanzia esterna da parte di un potere politico che in questo modo si pone esso stesso dei limiti; esso dipende anche dal fatto che la libertà venga costituita e difesa dall’interno. Difesa da quel pericolo, di cui abbiamo parlato, che non nasce «dall’esterno», bensì, in modo tanto più sconcertante, dall’interno, nell’esercizio stesso della vita spirituale.
Proprio in questo risiede la funzione insostituibile delle «accademie» per il bonum commune!
Se deve avere un significato, «accademico» deve allora significare «antisofistico». Ciò significa, al tempo stesso, che bisogna opporre resistenza a tutto ciò che potrebbe distruggere e ledere la pura apertura del riferimento alla realtà e il carattere comunicativo della parola. A questo proposito si può parlare sia in termini teorici sia molto concreti: ad esempio, che si debba opporre resistenza a ogni semplificazione parziale, a ogni esaltazione ideologica, a ogni cieca emozionalità, alla tentazione dell’utilizzo di vuote formule, a una terminologia arbitraria che chiude e respinge il dialogo, all’insulto come strumento stilistico (tanto peggiore, quanto più brillante, direi), al linguaggio della falsa accondiscendenza, che per inciso Karl Jaspers includeva tra le forme della moderna sofistica, ma anche al linguaggio della sedizione, al conformismo di principio e all’anticonformismo di principio e così via.
Nessuno di questi imperativi, è chiaro, si può tradurre automaticamente nella forma di provvedimenti concreti. All’intangibilità della minaccia che Platone ha conosciuto per tutta la vita corrisponde l’impossibilità di organizzare un’effettiva resistenza. Tuttavia, si tratta di una questione politica di prim’ordine. Si tratta del fatto che le nostre istituzioni accademiche, lungi dall’essere isolate nella società, ne condizionano anzi l’atmosfera e realizzano un modello di valore normativo del modo in cui, in pratica, la comunità politica nel suo complesso vive, ossia la libera comunicazione interpersonale ancorata nella vera realtà, nella realtà del mondo, nella realtà di noi stessi e anche nella realtà di Dio.
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