SAN VINCENZO DI LERINO: ISTRUZIONE PER I TEMPI DI CRISE - PRIMA PARTE


Da: Antidoto alle massime empie e sovversive. Serie di scritti tendenti a nutrir l'intelletto di sane dottrine ed a ringagliardire nel cuore i più nobili affetti, vol. III, Napoli 1854 pag. 17-43.

San Vincenzo Lirinese

COMMONITORIO [1]

[PARTE PRIMA (cap. I-V)]

CAP. I.

Espone le ragioni, per le quali si è determinato a scrivere questo suo libro.

Poichè dice la divina Parola, e così n'ammonisce: «Interroga i tuoi padri, e te ne daranno novella; i tuoi avi, e te la testificheranno [2]: come: Figlio mio, guarda di non iscordare questi miei insegnamenti, e custodisci quelle mie parole ammezzo il tuo cuore [3]: non che: Porgi le tue orecchie alle parole dei saggi [4]»; a me Peregrino [5], il minimo dei servi del Signore sembra, che mediante l'aiuto celeste sia per essere fatica di non dispregevole utilità, s'io m'accingo a scrivere quelle verità, che senza alterazione di sorta appresi dal santi Padri; e non ha certo dubbio, che ciò non sia necessarissimo alla mia propria fralezza, procurandomi per tal guisa un mezzo assai acconcio, onde aiutare la caducità della mia memoria, facilitandomene l'assidua lettura. Alla quale determinazione, non che il vantaggio della intrapresa, m'invita egli pure la natura del tempo, ed il riflettere alla opportunità di questo mio luogo. Perocchè ogni cosa umana venendo dal tempo rapita, è debito nostro il togliere alla nostra volta alcunchè d'utile ad esso per la vita eternale. E peculiarmente, ove il salutare timore del tremendo giudizio di Dio ci astringa a sempre maggior conoscenza di Religione, e la fraudolenta astuzia di sempre novelli eretici n'accenni ad essere non poco attenti e guardinghi. Ove poi consideriamo, che noi schifando il conversare ed il frastuono delle città scegliemmo di vivere in questa assai rimota villetta, ed in essa medesima un appartatissimo monastero; in cui, lungi dall'occasion di distrarci, si può attuare quant'è cantato ne' salmi: «State tranquilli e riconoscete, ch'io sono Dio [6]:» non manco a ciò concorrer vediamo lo scopo di nostra individuale risoluzione. [Ancor più con ciò s'accorda lo scopo di quello che ci siamo proposti. Lat: Sed et propositi nostri ratio in id convenit. N.d.R.]


Perocchè trovandoci già noi travolti in turbini molteplici e pericolose burrasche, ci riparammo per inspirazione divina nel porto della Religione, stato in ogni tempo sicurissimo a tutti; perchè qui spogliato il vanitoso e superbo fasto del secolo, e colle opere della umiltà placando il Signore, potessimo non soltanto sfuggire ai naufragi della vita presente, sibbene ancora il fuoco della futura. Ma qui do cominciamento al proposito mio; che è d'enunciare in iscritto con esattezza anzi di storico che spirito d'autore le verità a noi trasmesse e depositate dai nostri maggiori; ed ancora in ciò così diportandomi, che non tutte, ma sì rammemori le cose sol necessarie. Nè questo medesimo sono per fare con elegante e distesa maniera, ma con semplice e piana; cosicchè molte cose siano per sembrare anzi accennate, che non pienamente chiarite. Con copia ed accuratezza scrivan coloro, i quali per solidità d'ingegno, e per ragione d'uffizio a ciò sono chiamati. A me basta, che per aiutar la memoria, e più veramente per allontanare i pericoli della smemorataggine mia, mi sia provveduto d'un Commonitorio, che facendomi bel bello risovvenire le apprese verità, mi studi coll'aiuto divino d'ogni giorno perfezionare, ed al suo compimento condurre. A tal fine ho voluto pure questo indicare, perchè venendo esso alle mani de' cristiani, per emenda da me promessa vedendolo da limarsi, non censurino in esso cosa con prematuro giudizio.

CAPO II.

Alla Sacra Scrittura è da aggiungere l'autorità della Chiesa, onde la verità dalla falsità possa conoscersi.

1. Domandando io spesso e con grande instanza ed impegno da moltissimi personaggi chiari per dottrina e per santità, con quale sicura e generale e legittima regola discernere io potessi la verità della Cattolica fede dagli errori della eretica prevaricazione; sempre, o quasi sempre ne riportai questa assai chiara risposta: S'altri voglia conoscere le frodi dei ribellanti eretici, schivarne i lacciuoli, e coll'aiuto divino intenda a perseverare nella veracità ed integrità della Fede ortodossa, a conseguirlo ha mestieri d'un duplice appoggio; dell'Autorità, vale a dire, delle sacre Scritture, e della Tradizione della Chiesa cattolica [7].

2. A questo tratto altri forse potrebbe dirci: Essendo perfetto il Canone della divina Scrittura, e sufficientissimo ad ogni qualsiasi verità; perchè dovremo asserir necessaria l'autorità della ecclesiastica interpretazione? È chiarissima la ragione s'altri rifletta, che non tutti saprebbero per la loro profondità interpretare le Sacre Scritture in uno stesso genuino ed identico senso; ed anzi così variamente se ne possono le sentenze contorcere, che quanti hanno uomini, tanti, quasi dissi, significati se ne possano dedurre. [... che quanti sono gli uomini, altrettanti sono i significati che si possono dedurre dalle Scritture. Lat. ... ut pene quot homines sunt, tot illinc sententiae erui posse videantur. N.d.R.] E Novaziano in un modo, in un modo Fotino, in un modo Sabellio, e Donato, ed Ario, ed Eunomio, e Macedonio, ed Apollinare, e Priscilliano, e Pelagio, e Celestio, e Nestorio ce le vogliono esporre [8]. È quindi essenziale al mantenimento della verità, ed alla conoscenza di tanti e tanto svariati ravvolgimenti dell'errore, che l'indirizzo della profetica ed apostolica sapienza venga regolato secondo l'infallibil giudizio della Cattolica Chiesa [9].

CAPO III.

È da porre gran cura a ritenere nel fatto della Fede ciò che in ogni tempo, e che da tutti è stato sempre creduto.

3. Ed in essa Chiesa Cattolica è da guardare, che si tenga fermamente come principio di vera credenza quello, che dappertutto, che sempre, e da tutti è stato creduto come di fede. Imperocchè è ciò veramente Cattolico, come la forza della stessa parola ci esprime, che tutte le verità comprende senza eccezione di sorta. E siffatta cattolicità sarà tenuta da noi, ove seguitiamo la universalità, l'antichità, e la unanimità [10]. E seguiremo certamente la universalità, qualora noi confessiamo quella essere l'unica e vera fede, che tutta la Chiesa in tutto il mondo professa; l'antichità, ove noi punto non ci scostiamo dal sentire professato e dichiarato dai santi nostri Padri e Maggiori; la unanimità finalmente, se nella medesima antichità noi consentiremo colle definizioni ed i placiti di tutti, o quasi tutti i vescovi e dottori di santa Chiesa [11].

4. Come dovrà comportarsi il Cristiano cattolico, ove una frazione si stacchi dalla universale credenza della Chiesa? La risposta è assai risoluta e recisa. Egli dovrà certo preporre la salute di tutto il corpo al taglio d'un membro contagioso e corrotto. Cosa dovrà egli poi fare, se una peste novella attenti attaccare e corrompere, non che una piccola parte, tutta, del pari, la Chiesa [12]? In tal caso osserverà quale dottrina abbia la priorità di tempo, la quale non può mai travisarsi per nessuna frode di novatori. [Lat. Quid si novella aliqua contagio non jam portiunculam tantum, sed totam pariter Ecclesiam commaculare conetur? Tunc item providebit, ut antiquitati inhaereat, quae prorsum jam non potest ab ulla novitatis fraude seduci. N.d.R.] Come potrà regolarsi, ove in essa l'antichità [= ove nella stessa antichità, lat. si in ipsa vetustate N.d.R.] vegga l'errore di due o di tre persone, o d'una città, od anche d'una intiera provincia? In tale emergenza avrà cura d'opporre i vetusti, e generali placiti della Chiesa alla temerità ed alla ignoranza dei pochi. Che strada finalmente sarà d'uopo egli batta, ove insorga non mai altre fiate ventilata quistione? Studierassi in tal caso di consultare e meditare, tra loro collazionandole, le dottrine degli antichi; di quelli intendiamo noi bene, i quali avvegna vivuti [= benchè vissuti N.d.R.] in tempi diversi, ed in località disperate, essendo pure eglino stati perseveranti nella comunione e nella credenza dell'unica Chiesa Cattolica, si chiarirono intemerati maestri di lei; e tenga egli di dover credere con ogni certezza non ciò, ch'uno, o due solamente difendono; ma quanto con chiarezza, proposito ed asseveranza hanno tutti ugualmente convenuto di credere, scrivere, ed insegnare. Ed affinchè ciò che finora dicemmo rendasi più evidente e palpabile, stimiamo doverlo meglio esplicar con esempi, ed alquanto più largamente trattare; perchè la soverchia concisione e precipitanza di dire non vizino le ragioni delle discusse dottrine.

[Lat.: In ipsa item catholica Ecclesia magnopere curandum est, ut id teneamus, quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est. Hoc est etenim vere proprieque catholicum; (quod ipsa vis nominis ratioque declarat), quod omnia fere universaliter comprehendit. Sed hoc ita demum fiet, si sequamur Universitatem, Antiquitatem, Consensionem. Sequemur autem Universitatem hoc modo; si hanc unam fidem veram esse fateamur, quam tota per orbem terrarum confitetur Ecclesia: Antiquitatem vero ita, si ab his sensibus nullatenus recedamus, quos sanctos majores ac patres nostros celebrasse manifestum est: Consensionem quoque itidem, si in ipsa vetustate, omnium vel certe pene omnium sacerdotum pariter & magistrorum definitiones sententiasque sectemur. Quid igitur tunc faciet Christianus catholicus, si se aliqua Ecclesiae particula ab universalis fidei communione praeciderit? Quid utique nisi ut pestifero corruptoque membro sanitatem Universi corporis anteponat? Quid si novella aliqua contagio non jam portiunculam tantum, sed totam pariter Ecclesiam commaculare conetur? Tunc item providebit ut Antiquitati inhaereat; quae prorsum jam non potest ab ulla novitatis fraude seduci. Quid si in ipsa Vetustate, duorum, aut trium hominum, vel certe civitatis unius, aut etiam provinciae alicujus error deprehendatur? Tunc omnino curabit ut paucorum temeritati vel inferentiae, si qua sunt universaliter antiquitus universalis Ecclesiae decreta praeponat. Quid si tale aliquid emergat ubi nihil hujusmodi reperiatur? Tunc operam dabit ut conlatas inter se Majorum consulat interrogetque sententias; eorum dumtaxat qui diversis licet temporibus & locis, in unius tamen Ecclesiae catholicae communione & fide permanentes, magistri probabiles exstiterunt: & quidquid non unus aut duo tantum, sed omnes pariter uno eodemque consensu, aperte, frequenter, perseveranter tenuisse, scripsisse, docuisse cognoverit, id sibi quoque intelligat absque ulla dubitazione credendum. Sed ut planiora fiant quae dicimus, exemplis singillatim illustranda sunt, & paullo uberius exaggeranda; ne immodicae brevitatis studio, rerum pondera orationis celeritate rapiantur. N.d.R.]

5. Ai tempi di Donato [13], onde i Donatisti, [= da cui (ebbero origine) i Donatisti, lat. a quo Donatistae N.d.R.] essendosi una gran parte dell'Africa precipitata nei furiosi errori di lui [14], ed avendo posto in non cale la realtà della religione, e la fede del nome cristiano, alla autorità della Chiesa di Gesù Cristo opponeva la sacrilega temerità di solo un uomo: allora tutti, che di quella regione aderirono al consenso di tutte le chiese del mondo, detestando l'empio e profano scisma di Donato, eglino soli potettero salvarsi nei sacri penetrali della Fede Cattolica; lasciando per contegno [= come buona regola di comportamento, lat. bono more N.d.R.] siffatto egregio esempio agli avvenire, come a tutto buon dritto debba anteporsi la saviezza di tutti alla stoltizia d'uno, o di pochi.

CAP. IV.

Per l'esempio dell'ariana perfidia si mostra in quanta calamita induca l'errore.

6. Allora quando la venefica dottrina degli Ariani [15] non pure una piccola porzioncella del cristianesimo, ma aveva quasi tutto contaminato il mondo quant'era; poichè quasi tutti i vescovi d'Occidente, chi per argomenti di forza brutale, chi per fraude volpina tratti in errore, sorse una folta caligine a tale ottenebrare le menti da appena poter conoscere in tanto tramestio di cose, che dovesse seguirsi. Pure a quel tratto chiunque trovossi essere amatore e vero adoratore di Gesù Cristo, preferì alla novella dottrina i dettati dell'antica credenza, nè venne per nulla infettato del contagio di quella lurida peste. Ciononostante la sperienza di quel lasso di tempo ebbe mostrato assai chiaro di quali e quante calamità sia causa lo spargere di novelle dottrine. Imperò allora [lat. tunc siquidem, giacchè allora N.d.R.] non solo si videro correr pericolo affari di leggiere momento, ma quelli sibbene d'importanza gravissima. Nè i parentadi pure, le clientele, le amicizie, e desse le famiglie [= e le stesse famiglie N.d.R.] furono poste in dissoluzione e scompiglio; ma le città, i popoli, le provincie, le nazioni, tutto insomma il romano imperio ne fu scommosso, e dalle sue fondamenta scassinato e disconcio. Poichè mancipatosi primamente la sacrilega innovazione esso medesimo l'imperatore [16], [= Poichè la sacrilega innovazione, assoggettatosi per primo lo stesso Imperatore... Lat. Namque cum profana ipsa Arianorum novitas... capto primo omnium Imperatore N.d.R.] ed aggiogatisi i più alti dignitari del palazzo [17], quasi furia infernale tutto sovvertire e malmenar volle, le cose private e le pubbliche, le sacre e profane; nè avendo risguardi a buono ed a vero, s'accinse a percuotere e balestrare da alto chi meglio le talentasse. Si videro allora contaminate le spose, strappato il lutto alle vedove, violate le vergini, i monasteri atterrati, violentati i cherici, percossi i diaconi, i vescovi sbandeggiati; popolati di santi gli ergastoli, le carceri, le miniere; interdette lor le città, si videro esuli rincacciarsi ne' deserti, nelle spelonche, tra le fiere e le catapecchie, e di fame, di sete, di nudità macerati e consunti finire. E tutto questo avvicendarsi di mali e di barbarie qual altra causa esso ebbe, che la caponaggine di volere soppiantare un principio divino per porvi a sua vece la superstizione d'un uomo? Il quale con iscelleratissima innovazione pretese di distruggere la bene avvisata antichità, violare le primordiali istituzioni, rovesciare il consenso dei Padri, spiantare i placiti dei maggiori, per isfrenata libidine di novità non contenersi nei limiti purissimi della sacra ed incorrotta antichità. Ma qui forse alcuno vorrà rimbeccarci, che per odio di novità ed amore d'antichità tali cose fingiamo. Chi per tal modo noi tiene a sospetto, ascolti e presti almeno fede al beatissimo Ambrogio, il quale scrivendo all'imperatore Graziano, e deplorando l'acerbità di quei tempi siffattamente si esprime [18]: «Già assai, o Dio onnipossente, espiammo col nostro sperpero, e sangue [lat. nostro exitio nostroque sanguine, colla nostra rovina (dispersione), e col nostro sangue N.d.R.] le stragi de' confessori, gli esterminî fatti de' sacerdoti, la nefandezza di sì profonda empietà. Assai c'è manifesto, che non possono passarsene impuniti coloro, che la vera fede violarono.... Conserviamo adunque gli ordinamenti de' nostri Maggiori, non infrangiamo colla inconsideratezza di rozza e stolta audacia i testamentali sigilli. Non le Potestà, non gli Angeli, non gli Arcangeli ardirono schiudere quel suggellato libro profetico [19]; la prerogativa d'aprirlo e di dichiararlo a Cristo solo fu riserbata. Chi di noi ardirà di dissigillare il libro sacerdotale sigillato dai confessori [20], e già consacrato da tanti martiri? Cui quelli, che furono coartati [21] a dissigillare, condannata in seguito l'altrui frode, risigillarono; e quelli ne divennero confessori e martiri, che non ardiron violarlo. Come noi potremo negare la fede di quelli, il cui trionfo lodiamo?» Lo lodiamo sì certo, o venerabile Ambrogio, e lodandolo l'ammiriamo. Imperò chi vivracci così dappoco, il quale, comechè nol vaglia, non nudra per lo men desiderio d'imitare coloro, ch'a ribellar dalla fede non valsero coercizioni, non minacce o blandizie; [Chi ci sarà di così dissennato che non desideri almeno imitare, sebbene sia incapace di farlo, coloro che non furono stornati dalla difesa della Fede nè da coercizione, nè da minacce, nè da lusinghe... Lat. Nam quis ille tam demens est qui eos, etsi adsequi non valeat, non exoptet segui, quos a defensione fidei majorum nulla vis depulit, non minae, non blandimenta... N.d.R.] non isperanza di vita, non temenza di morte, non pretorio o scherani, imperatore od imperio; non uomini, non finalmente demonî? Coloro, io diceva, cui Dio in guiderdone del loro attaccamento alla osservante antichità giudicò suoi acconci strumenti a ristorare chiese abbattute, ravvivar popoli estinti alla fede, raccogliere le assemblee sacerdotali distratte, infuso dall'alto un fonte di sincere lagrime ai vescovi, cancellare quelle nefande non lettere, ma scorbiature della novella empietà, richiamar finalmente poco men del mondo universo, ripercosso ed agitato da crudele ed improvveduta bufera ereticale, dalla nuova perfidia all'antica credenza, dalla nuova follia all'antica saviezza, dalla nuova cecità all'antico vedere [22].

CAP. V.

I santi Confessori hanno sempre difeso ciò, ch'era tenuto dalla universalità della Chiesa.

7. Ed in questa divina virtù dei confessori è soprattutto a considerare da noi, che di quella stessa antichità della Chiesa non fu tolta per essi a proteggere una parte soltanto, ma tutta quanta era la lei universalità. [Ma ciò che dobbiamo porre in risalto in una tale divina virtù che i confessori hanno praticato è questo, che cioè essi presero a difesa non una parte soltanto ma l'insieme di quella stessa Tradizione della Chiesa. — Sed in hac divina quadam confessorum virtute illud est etiam nobis vel maxime considerandum, quod tunc apud ipsam Ecclesiae vetustatem non partis alicujus sed universitatis ab iis est suscepta defensio. N.d.R.] Nè era possibile, che tali personaggi e sì ponderati seguissero con tanto strepito le vaghe opinioni d'uno o due uomini, ed in opposizione a quanto eglino avevano appreso e insegnato, combattessero per tale un pazzo intendimento d'alcuna provinciuola; sibbene assai naturale, che seguissero le credenze e definizioni dei vescovi tutti ed eredi della santa Chiesa apostolica e della cattolica verità, ove scelsero anzi di perdere la propria vita, che rinnegare l'antica universalità della fede. Per la qual cosa salirono a tanta onoranza, che non che confessori, s'abbiano a tutto buon diritto per principi dei confessori [23]. È pertanto magnifico e tutto affatto divino, e degno d'essere da tutti i veri cattolici con assidua meditazione avvisato questo esempio di que' beatissimi personaggi, i quali a guisa di settemplice candelabro splendenti dalla settenaria luce dello Spirito Santo, tracciarono una indicatissima norma, onde al sopravvenire della vanità d'ogni stolto ragionamento, non si esiti ad opporre l'autorità dell'antica e sacra Tradizione alla petulanza dell'innovazione profana, ed a rintuzzarne l'audacia.

9. E siffatto contegno come non fu mai nuovo nella Chiesa, così non vedrassi mai vieto; e sempre si vide in lei, che quanto più altri fosse pio, tanto maggiormente si mostrasse sollecito a rigettare le novelle invenzioni [24][Ed in ciò non v'è nulla di nuovo, giacchè fu sempre un valido costume nella Chiesa che, quanto più uno era pio, tanto più fosse sollecito a rigettare ogni novità. — Neque hoc sane novum. Siquidem mos iste semper in Ecclesia viguit, ut quo quisque foret religiosior, eo promptius novellis adinventionibus contrairet. N.d.R.] La storia ecclesiastica è piena a ribocco di tali esempi. Ma per non protrarre soverchio il nostro ragionamento, solo un qualche tratto noi rapporteremo, e scelto in ispecie dalla Sede Apostolica; onde vegga ciascuno più chiaro di essa la luce [= affinchè ciascuno veda più chiaro della stessa luce, lat. ut omnes luce clarius videant N.d.R.] con quanta energia, con quanta diligenza, con quanta perseveranza i successori de' santi Apostoli abbiano tutelato la integrità della affidata loro religione di Cristo [25]. Agrippino [26] adunque di veneranda memoria vescovo di Cartagine innanzi a tutti opinava, che dovessero ribattezzarsi coloro, i quali dagli eretici battezzati ritornassero in grembo alla cattolica Chiesa; opinione tuttaffatto contraria alla divina sanzione, alla ecclesiastica consuetudine universalmente osservata, al sentire di tutti i vescovi suoi colleghi, alle regole stabilite, ai placiti de' Maggiori. Il quale attentato cagionò mali di grave momento non solo per aver dato agli eretici un nuovo pretesto di sacrilegio; ma sì pure per avere aperto ai cattolici la via ad errare. Da ognidove pertanto reclamando tutti i vescovi, e tutti opponendosi, ognuno secondo suo potere, alla novità di tal fatto; Stefano papa di santa memoria [27], radunati i suoi colleghi a concilio, vi si oppose a preferenza di tutti [= innanzi a tutti, alla testa di tutti, lat. prae ceteris N.d.R.]; stimando, com'io credo, molto conveniente, lui dovere tanto maggiormente ogn'altro vincere nella tutela della vera fede, quanto più a tutti sovrastava per prerogativa di supremo potere [28]. E nella lettera per lui scritta in Africa sentenziò — Nulla doversi innovare, ma doversi tenere quanto fu dalla tradizione trasmesso. — Perocchè conosceva egli bene quel santissimo e savissimo uomo non altro consentire la ragionata pietà, se non che di trasmettere ai figliuoli il deposito delle verità con quella fedeltà, onde fu ricevuto dai padri. Nè stare a noi lo spignere ove vorremmo la religione, ma sì correre a noi dovere di seguirla, ov'essa intende a condurci; essere insomma proprio della cristiana sommissione ed osservanza nel fatto di religione non di tramandare ai posteri i proprii nostri trovati, ma di custodire le verità avute dai nostri Maggiori. Quale pertanto fu l'esito di tutta quella quistione? Quale lo consentiva la pratica universale. Si tenne la tradizione dell'antichità, la novita fu rigettata.

10. Ma che? mancarono forse allora patrocinatori a quella innovazione? Ebbe anzi tanta forza d'ingegni, tanta eloquenza d'oratori, tanto numero di propugnatori, tanto corredo di divina scrittura in modo esposta tutto nuovo o distorto, tanto sembiante di verità, ch'a me paia non sarebbesi potuta in alcun modo sventare tutta quella cospirazione, qualora in una controversia di tanta mole l'intruso, il protetto, ed anche lodato mestiere di novità non fosse nella propria debolezza venuto meno [... qualora in una controversia di tale importanza l'intrusa, protetta e lodata professione di novità non fosse venuta meno da sè nella propria debolezza, lat. ut mihi omnis illa conspiratio nullo modo destrui potuisse videatur, nisi sola tanti moliminis caussa ipsa illa suscepta, ipsa defensa, ipsa laudata novitatis professio destituissetN.d.R.]. Che avvenne infine del Concilio Africano [29]? Quale forza n'ebbero i decreti? Niuna, la Dio mercè. Quanto esso ordinava fu tenuto in luogo di sogni e di favole; restò cosa d'inutile ingombro; invecchiò nello stesso suo nascere; e piuttosto ch'abolito, fu calpestato.


NOTE:

[1] Questa parola è di bassa latinità; significa promemoria o istruzione del mandante commessa al mandatario. La usarono Ammiano, Simmaco, il Codice Teodosiano, e s. Agostino nella sua ep. 129. L'autore dice al § 42 can. XX, che il Concilio d'Efeso era stato tenuto tre anni avanti al tempo, che egli scrivesse il suo libro; ma il Concilio suddetto fu celebrato l'anno 431: è da dire perciò, ch'egli scriveva il Commonitorio l'anno 434.

[2] Interroga patrem tuum, et annuntiabit tibi: maiores tuos, et dicent tibi. Deuteron. 32, v. 7.

[3] Fili mi ne obliviscaris legis meae, et praecepta mea cor tuum custodiet. Prov. 3, v. 1.

[4] Inclina aurem tuam, et audi verba sapientium. Prov. 22 v. 17.

[5] Si disputa dagli Eruditi intorno al vero titolo di questa Apologia, ed al nome di Peregrino assunto dal Lirinese. Noi crediamo l'abbia egli fatto per sentimento di modestia e di asceticismo. Perocchè avendo egli scelto vita monastica in una isoletta ed in luogo rimoto, come accenna in appresso, non volle manifestare al mondo il vero suo nome, ov'era di passaggio, e onde erasi tratto.

[6] Vocate et videte, quoniam ego sum Deus. Ps. 45, v. 10.

[7] Fino dai primi secoli della Chiesa si conosce esserle stato aggiunto il predicato di Cattolica, perchè fino dai suoi primordî si diffuse dovunque secondo osserva Ottato milevitano Libr. 2, p. 46. E così la chiama s. Ignazio martire nella sua lettera a quei di Smirne; Clemente Alessandr. Strom. lib. 7. Eusebio lib. 4, cap. 15 ed altri Padri dei primi secoli. Sant'Agostino nel lib. 1 dell'Oper. imperf. n. 75 all'evidenza dimostra convenirsi esclusivamente il nome di cattolici a quei cristiani, che tengonsi uniti alla Chiesa Romana.

[8] Tutti Eresiarchi insorti contro alla Chiesa circa il giro dei primi quattro secoli e mezzo; in appresso s'indicheranno i loro errori, ed il tempo in che visse ciascuno.

[9] Sulla infallibilità della Chiesa nelle sue decisioni intorno alla Fede, e sulla sua indefettibilità vi sono le promesse esplicite di nostro Signor Gesù Cristo; non che innumerevoli passi della Sacra Scrittura, e l'unanime consenso dei santi padri.

[10] Questa regola fissata dal nostro Apologista si è fatta celebre nella Chiesa per la sua esattezza ed intrinseca verità.

[11] Questo canone di vere credenza s'appoggia sulla tradizione universale formata dall'unanime consenso de' santi Padri, e sulla infallibilità promessa da Gesù Cristo ai Concili Generali.

[12] È da notare, che tutta la Chiesa non può errare, e che qui il nostro santo usa un'espressione iperbolica, come usò già san Girolamo, il quale disse dopo la sottoscrizione di 400 vescovi, tranne diciotto, alla formola ariana nel Concilio di Rimini, che il mondo tutto meravigliò di vedersi ariano. Lo che non fu certo, perchè Liberio rescisse quella formola, che taceva la parola Consostanziale; protestarono i vescovi non presenti a quel Concilio; ed i vescovi non sottoscrittori protestarono contro quella formola e le frodi d'Ursacio e Valente pessimi ariani, appena accortisi dell'inganno. E di fatto il Lirinese pone la correzionale — se possibile fosse.

[13] Due furono i Donati; uno vescovo delle Case-nere in Numidia, e l'altro detto Donato Magno, che i vescovi del partito di Maiorini sostituirono a questo. Morto Mensurio arcivescovo di Cartagine, gli fu dato per successore Ceciliano, Borto, Celestio, e Lucilla gli suscitarono contro i vescovi della Numidia, capitanati dal detto Donato delle Case-nere, i quali ordinarono Maiorino; sicchè gli scismatici da principio non furono chiamati Donatisti, ma sì di parte di Maiorino; e solo dopo la morte di costui si nominarono da Donato Magno. E non solo costoro furono scismatici, ma sì ancora eretici, perchè oltre altri errori, sostenevano che la Chiesa, tranne loro, si era spenta dovunque; che i soli Giusti e non i peccatori erano membri di essa; tenevano per martiri anche i suicidi di loro parte. Insorsero sui principiare del quarto secolo.

[14] Circa l'anno 370 secondo n'attesta Ottato era maggiore in Africa il numero dei Cattolici, che non quello dei Donatisti, ma nel cedere del quarto secolo era maggiore la parte scismatica, come riferisce Possidio nella vita di s. Agostino cap. 7.

[15] Ario insorse a lacerare la Chiese sul principiare del quarto secolo; costui negava l'uguaglianza e la consustanzialità del Figliuolo col Padre, e l'autorità della Chiesa nel decidere in modo infallibile le controversie di Fede; aprì la via allo spirito privato, e disprezzò i decreti del Concilio Niceno. Non ci fu eresia, che come l'ariana sommovesse i popoli, animasse lo spirito di persecuzione, e largamente si distendesse. A chi pure a fior di labbra conosca la storia ecclesiastica, non parranno certo esagerate l'espressioni del nostro Apologista.

[16] Intende Costanzo partigiano stupidamente furioso dell'ariana eresia. Sant'Ilario vescovo di Poitiers gli scrisse contro l'anno 360. Pure s. Gregorio Nazianzeno nella sua Invettiva contro Siciliano scusa Costanzo, rovesciando l'odio delle sue persecuzioni contra i vescovi cattolici sopra i cortigiani. Ma Lucifero Cagliaritano, nel suo Libro di dover morire per amore del Figliuolo di Dio, rimprovera Costanzo d'avere popolato di vescovi le miniere, i luoghi acconci agli esilî, e di vessarli colla fame, colla sete, e colla nudità.

[17] Libr. de Fid. cap. 19.

[18] Lib. 3 de Fid. cap. 15.

[19] Apoc. 5. Et vidi Angelum fortem praedicantem voce magna: quis est dignus aperire librum, et solvere signacula eius? Et nemo poterat, neque in coelo, neque in terra, neque sub terram aperire librum, neque respicere illum.... Et unus de Senioribus dixit mihi: ne fleveris: ecce vicit leo de tribu Juda, radix David, aperire librum, et solvere septem signacula eius. — E vidi un Angelo forte che con voce grande esclamava: chi è degno d'aprire il libro, e di sciogliere i suoi sigilli? E nissuno poteva, nè in cielo, nè in terra, nè sotto terra aprire il libro, nè guardarlo... Ed uno de' Seniori mi disse: ecco il lione della tribù di Giuda, stirpe di Davide, ha vinto d'aprire il libro, e sciogliere i suoi sette sigilli.

[20] Erano onorati col titolo di Confessori quel cristiani, ch'avevano sofferto persecuzione per la Fede, ma avevano alla persecuzione sopravvivuto; ed erano martiri detti quelli, che morivano per la confessione di essa. Ma non di raro fu dato il nome di Martire a chi per la Fede esisteva tuttavia in carcere, nelle miniere, negli ergastoli, ed in altri luoghi di punizione, ed a chi nel corpo portava segno d'aver sofferto martirio. Quindi i Libelli de' Martiri per la diminuzione, o remissione delle canoniche penitenze.

[21] Qui s. Ambrogio accenna ai vescovi del Concilio di Rimini del 359, i quali furono costretti il giorno 10 d'ottobre per le intimidazioni di Costanzo a soscrivere la formola ariana già sopra indicata.

[22] Questi santi di cui volle Dio servirsi ad operar tanto bene furono i santi Atanasio, Ilario, Eusebio di Vercelli, ed Ambrogio. Dei quali primi tre così parla san Girolamo nel Dialogo contro i Luciferiani: «Allora l'Egitto ricevè il suo trionfatore Atanasio; allora la Chiesa delle Gallie abbracciò Ilario reduce vittorioso dalla pugna degli eretici: al ritorno d'Eusebio cambiò l'Italia le lugubri vesti». Ed all'anno XI di Graziano così s. Prospero parla nella sua Cronaca di s. Ambrogio: «Dopo la troppo tarda morte d'Aussenzio (costui fu vescovo ariano) creato Ambrogio vescovo di Milano, tutta Italia si converte alla Fede ortodossa». Qui s. Prospero intende dell'Alta Italia, cioè Insubria, Emilia, e Liguria: oggi quasi tutto il Lombardo-Veneto, la Romagna, ed il Genovesato con gran parte del Piemonte; ove più specialmente aveva progredito l'ariana empietà.

[23] Non avviene di raro, che gli antichi Scrittori ecclesiastici appellino Confessori anche gli stessi Martiri; come vediamo fare al nostro Lirinese.

[24] La Chiesa in complesso si è sempre opposta alle novità religiose; ed ebbe i suoi individuali campioni in ogni tempo, i quali raccolsero il guanto dei Novatori, lanciato contro di lei; e questi campioni lo più accoppiarono profondità e verità di dottrina a santità ed austerezza di vita. Basta conoscere anche mediocremente l'ecclesiastica storia per convincersi di questa verità. Ma i sommi Pontefici specialmente mai in questo vennero meno alla rappresentanza dell'altissima loro posizione.

[25] Checchè ne dicano gli Eterodossi; ciò, che disse di s. Leone Magno il Concilio ecumenico di Calcedone, che riconosceva, cioè, nel Pontefice Romano lo stesso Pietro che parla e sentenzia, è verità ricevuta da tutti i Padri della Chiesa fino dei primi tempi. Ved. Selvagg. Ant. christ. Libr. I cap. 16 § I et seq.

[26] Il secondo de' vescovi cartaginesi, di cui abbiamo memoria. Furono celebrati sotto di lui due Concilî provinciali. Il primo trattava di ribattezzare gli eretici, e si tenne sul principio del terzo secolo, a cui allude Tertulliano nel Libr. de Baptism. scritto dopo l'anno 200 dell'era cristiana. L'altro fu celebrato circa l'anno 215 ove si legge il canone, che proibisce ai chierici d'assumere tutela, o curatela: «Ne clericus ullus tutelam, curamve suscipiat».

[27] S. Stefano proibì la reiterazione del battesimo data dagli eretici secondo la riforma di Gesù Cristo [cioè la reiterazione del battesimo costituiva un'eresia che riformava l'insegnamento di Nostro Signore G. C. N.d.R.]. Quindi nel Concilio romano da lui tenuto l'anno 256 condannò i concilî africani, e specialmente quello nello stesso anno radunato da s. Cipriano, i quali ordinavano quella reiterazione. Perciò scrisse lettere assai forti in Africa, a Firmiliano, ad Eleno di Tarso, e ad altri vescovi. È quistione però fra gli eruditi ecclesiastici, s'egli decidesse questo punto come domma, o come disciplina; e scomunicasse i ribattezzanti, o solo comminasse loro la scomunica. Secondo Dionisio Alessandrino nell'epist. a Sisto stabilì non si comunicasse con quelli, che ribattezzavano. Il Concilio d'Arles, chiamato plenario da s. Agostino tenuto l'anno 314, ed il Niceno terminarono la controversia, decidendo secondo ch'aveva insegnato s. Stefano. Alcuni mettono in dubbio il contrasto di s. Cipriano con s. Stefano in tale materia; e s. Agostino nella sua epist. ad Vinc. ecco come conchiude a tale riguardo: «Porro autem aut Cyprianus omnino non sensit, quod eum sensisse recitatis, aut hoc postea correxit in regula veritatis, aut hunc quasi noevum sui candidissimi pectoris cooperuit ubere charitatis».

[28] Il primato non solo d'onore, ma anche di giurisdizione del Romano Pontefice è appoggiato all'autorità delle Scritture, alla Tradizione di tutta la Chiesa, alle definizioni de' Concili; e chi lo nega non solo è da dire scismatico, ma sì eretico pure.

[29] Accenna al Concilio Africano III che fu impugnato da s. Agostino lib. 2 e 3 de Baptism. contra Donatist.


Fonte: Progetto Barruel

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