P. ÉDOUARD HUGON, O.P.: LA REDENZIONE CONSIDERATA COME SACRIFICIO



Il sacrificio di Gesù Cristo (prima parte)


Progetto Barruel

R. P. Édouard Hugon, O.P.

Docente in teologia
Professore di dogmatica al pontificio collegio «Angelicum» di Roma
Membro dell'Accademia romana di San Tommaso d'Aquino

Estratto da "Le Mystère de la Rédemption", XIIe éd, Paris s.d., pag. 98-115

Capitolo IV

La Redenzione considerata come sacrificio

(Prima parte)

I

Perché la Redenzione doveva essere un sacrificio

Abbiamo detto che Gesù Cristo volle farsi vittima per un eccesso di bontà, per una sovrabbondanza di tenerezza e di grazia. Dio poteva risollevarci per pura misericordia, senza riscattarci; ed anche ipotizzando un riscatto, per cui la giustizia esige un pagamento completo, il sacrificio propriamente detto non era necessario.

Se è vero che la redenzione richiede una soddisfazione, è anche un fatto che essa può essere equivalente, perfino sovrabbondante ma senza giungere alla sofferenza e senza terminare con l'immolazione. Vi è sovrabbondanza di soddisfazione, abbiamo detto, se una Persona divina offre a Dio, in una natura creata, ragionevole e libera, omaggi e riparazioni  proporzionate all'offesa e degne di Dio.

D'altronde un Dio fatto angelo avrebbe potuto riscattarci nel senso stretto del termine; e, se sublimi opportunità avessero richiesto come salvatore un Dio fatto uomo, il Verbo avrebbe potuto rivestirsi di un'umanità gloriosa; o, se avesse voluto che la sua umanità fosse ancor più a nostra portata, poteva prendere una natura impassibile, più perfetta ancora di quella dei nostri progenitori in stato d'innocenza. La minima operazione, perfino quella che non esigesse alcuna pena e che fosse la più dilettevole, come la contemplazione e la carità, avrebbe potuto soddisfare in maniera sovrabbondante per tutte le creature; inoltre il valore oggettivo, aumentato da ciascuno degli atti, avrebbe accresciuto in modo sovrabbondante la soddisfazione dovuta.

Perché dunque imporsi il sacrificio? Lo ripetiamo: Nostro Signore Gesù Cristo si è immolato per giungere fino al culmine dell'amore verso il suo Padre e verso di noi: Oblatus est quia ipso voluit.

Anche in questo modo si rivelano la saggezza e la giustizia divine; sì, è per saggezza e per giustizia che la natura umana nel Cristo ripara ciò che ha commesso la natura umana nel peccatore; e per questo è necessario che dall'umanità redentrice giunga la soddisfazione più completa che essa possa offrire per il peccato.

San Tommaso ci offre a questo proposito una dottrina tanto profonda quanto originale, assai bella, che forse i teologi e gli apologeti della Redenzione non hanno ancora sfruttato appieno.

Perché la giustizia sia perfetta, è conveniente che la riparazione venga dall'umanità, e di conseguenza non bisognerà considerare solamente il valore che la Persona divina conferisce alla Passione ma, facendo per un istante astrazione per così dire dalla divinità, bisognerà esaminare ciò che secondo la natura umana può essere considerato come sufficiente ad una tale soddisfazione, cioè tutti i dolori che sarebbe necessario subire nell'ipotesi in cui ad espiare fosse solamente la natura umana. [1]

Il fatto che una simile riparazione richieda un sacrificio e dei dolori insondabili è fonte di commozione e meriterebbe la massima riconoscenza da parte del genere umano.

Per comprendere fino a quale grado di sofferenza deve spingersi la soddisfazione, consideriamo ciò che l'uomo compie peccando mortalmente; egli cerca nel bene caduco un godimento indegno che egli ama fino a giungere al disprezzo di Dio, fino a stimare Dio al di sotto della creatura. L'ordine esige dunque che colui che ripara subisca una pena sensibile per compensare il piacere illegittimo goduto dal peccatore e, poiché l'attaccamento alla creatura è stato immenso, fino al disprezzo del Creatore, anche il dolore subito per la riparazione deve essere immenso, deve giungere fino al disprezzo della natura scelta per la soddisfazione: di modo che questa natura sia come schiacciata, stritolata, come ridotta a niente, proprio come il peccatore ha giudicato e scelto di porre Dio, come fosse un nulla, al di sotto del creato [2].

Dunque la soddisfazione, considerata dal punto di vista della natura espiante, già richiederebbe terribili dolori anche se si trattasse solo di un solo uomo e di un solo peccato mortale... Che sarebbe dunque se fosse necessario riparare per tutti i crimini dell'intero genere umano! Poiché Gesù Cristo è il rappresentante universale degli uomini e si sostituisce a ciascuno di loro, la sua passione avrà qualcosa di universale... Come se tutte le sofferenze del genere umano si fossero concentrate in lui solo, sofferente per tutti in una volta sola, al punto che il suo dolore sorpasserà tutti gli altri in intensità ed estensione, e che non vi sarà mai sulla terra un dolore simile al suo [3]! Ecco il motivo sublime dell'espiazione penale: ecco perché la soddisfazione del Cristo doveva essere anche un sacrificio, estremamente doloroso, completo ed universale.

II

La teoria del sacrificio

Il sacrificio è un atto esteriore di religione col quale la creatura riconosce il dominio sovrano di Dio; questa ne è l'idea primordiale, la nozione fondamentale che deve realizzarsi in qualunque condizione si trovi la natura umana.

Anche qualora fosse innocente ed ornata dalla grazia santificante, l'umanità dipende essenzialmente da Dio dal quale riceve come un favore assolutamente gratuito tutte le facoltà, la vita e l'essere che possiede; la loro conservazione, anche per un solo istante, in quanto continuazione della creazione, suppone un amore infinito da parte di Dio che ha a sua disposizione una potenza infinita, capace di colmare quell'abisso infinito che separa il niente dall'essere.

La creatura ragionevole, convinta che la propria esistenza è anch'essa un'elemosina, deve ringraziare il Creatore e, poiché si rende conto con la massima evidenza di dipendere essenzialmente da Dio, deve affermare praticamente la sua sudditanza e professare con un atto esteriore e sensibile che Dio ha su di essa un diritto totale di vita e di morte. Ora, la maniera più espressiva di riconoscere questo diritto è di offrire, o meglio di distruggere in onore di Dio al nostro posto una cosa che sostituiamo a noi stessi e che è nostra vicaria, specialmente una cosa esteriore e visibile che per di più serve a sostegno della nostra esistenza.

Questo significa che la materia del sacrificio deve essere sensibile, affinché il dominio sovrano del Creatore sia affermato esteriormente di fronte agli uomini, per i quali i riti ed i segni sono necessariamente esteriori. Il sacrificio dunque, in quanto atto fondamentale dell'umana religione che dev'essere sensibile come lo è la natura umana e deve sottomettere a Dio sia l'anima che il corpo, sarà allora un'offerta sensibile.

Certi autori hanno pensato che il costitutivo essenziale del sacrificio sia principalmente l'offerta, un dono gradito al Signore, poiché la sua distruzione è solo il mezzo o il simbolo dell'offerta; questa teoria è stata ancora di recente sostenuta da  Bruneau, che cita a suo favore Scheeben e Sanz [4]. Lépin l'aveva già esposta nella sua tesi: L'idée de sacrifice dans la religion chrétienne, principalement d'après le P. de Gondren et M. Olier [5]: «Si distrugge la materia del dono per sottolineare in qualche modo che è stata offerta a Dio, così come distruggiamo i grani d'incenso riducendoli in fumo per dilettarci del suo profumo [6]

La maggior parte dei teologi al contrario pongono nella distruzione la forma essenziale del sacrificio, e pare proprio che siano questi ad avere dalla loro parte la ragione teologica e la testimonianza della storia.

Ciò che domina nell'idea di sacrificio non è il fatto che si dà qualcosa a Dio facendolo passare in Dio come se Egli dovesse rallegrarsi di quest'offerta; il Creatore merita senza dubbio di ricevere i primi frutti, il primo profumo delle sue creature, come pure il primo omaggio della loro innocenza; ma ciò che deve essere affermato prima di tutto è che la creatura, tratta dal niente, riceve da Dio tutto ciò che possiede, che l'esistenza gli è continuamente elargita gratuitamente e che Dio ha il diritto di riprendersi questo beneficio quando gli piaccia.

Ma questa dipendenza della creatura, tratta dal nulla e di per sé soggetta al nulla, questo dominio sovrano del Creatore sulla vita e sulla morte sono eccellentemente significati  e proclamati — non proprio per mezzo dell'offerta, perché si possono fare dei doni a coloro dai quali non si dipende essenzialmente per nulla  — ma per mezzo della distruzione, reale o equivalente, delle cose che sostentano o alimentano la nostra vita.

Ciò si fa ancor più manifesto nel caso del peccato: l'uomo, già soggetto al nulla per la propria condizione di essere creato, per il fatto che offende gravemente la Maestà infinita, merita positivamente di essere privato della propria esistenza gratuita che ha usato come un'arma contro il proprio benefattore. Poiché ogni omicidio è passibile della pena capitale, non è allora evidente che l'attentato contro la vita di Dio possa essere espiato solamente nel sangue? E questo attentato è proprio il peccato mortale deliberato; rifiutare di tener conto del precetto divino, rispondere: Non voglio! quando Dio dice: Io voglio! oppure dire: Io voglio! quando Dio dice: Io non voglio! significa mettersi al posto di Dio, voler detronizzare il Re sovrano, decretare il Suo decadimento e, implicitamente, la Sua morte, poiché il decadimento di un Dio non è concepibile senza che vi sia la Sua sparizione ed il Suo annientamento [7].

Non è dunque eccessivo che il peccatore debba espiare con l'effusione del proprio sangue e persino con la propria distruzione totale questo suo crimine di lesa divinità; in breve, dato che l'offesa è stata infinita, essa esige da parte della creatura tutto ciò di cui essa è capace in termini di espiazione penale, e di conseguenza esige il definitivo supplizio, la morte. L'offerta dei doni più squisiti non offre una simile soddisfazione ai diritti essenziali di Dio infinitamente oltraggiato.

Così, i due obblighi fondamentali che il sacrificio comprende nella nostra umanità attuale, cioè adorare ed espiare [8] non sono adempiuti sufficientemente con il dono o l'offerta, ma reclamano in più una distruzione o immolazione.

Tuttavia Dio non solamente non domanda ma neppure permette che il nostro sangue sia versato perché sia riconosciuto il Suo sovrano dominio o per espiare i nostri crimini: occorre dunque surrogare una creatura inferiore che sarà nostro sostituto e diverrà vittima al nostro posto.

Per poter essere sostituiti in maniera più effettiva in questa immolazione, come oggetto del sacrificio sarà necessario riservare le creature che per noi sono più importanti sia per il sostentamento della nostra esistenza sia per l'ausilio che ci danno nel nostro lavoro: come ad esempio il pane, il vino, la frutta, gli animali.

È chiaro che l'idea di sostituzione e l'idea di distruzione sono inscindibili; se infatti si trattasse solo di un'offerta, la creatura umana potrebbe essere scelta, proprio come i primi nati erano votati al Signore; ma siccome il sacrificio implica un'immolazione, l'umanità ha dovuto trovarsi delle vittime sostitutive appartenenti ad un altro ordine e che siano gradite al proprio posto. Se dovessimo solamente ringraziare Dio o implorare i suoi favori, ci sarebbe forse sufficiente di riempire i Suoi altari di doni; ma poiché i nostri due obblighi più essenziali sono quelli di riconoscere il Suo dominio supremo e di placare la Sua maestà offesa, occorre perciò una certa distruzione, o reale, come quando si brucia l'incenso in onore di Dio o cola il sangue delle vittime, oppure equivalente come nella frazione del pane e la libazione del vino, o ancora totale, come per l'olocausto, o parziale come per quei sacrifici in cui una parte della vittima era riservata.

Qualunque cosa dicano certi moderni troppo inclini a recriminare contro i teologi, la teoria della sostituzione e dell'immolazione è ancor quella che meglio soddisfa alla ragione e che meglio risponde ai due fini essenziali del sacrificio dell'umanità decaduta, alla quale è necessario un culto latreutico ed espiatorio.

Questa stessa teoria è anche quella che meglio si armonizza con i fatti più universalmente constatati; interroghiamo alcuni storici delle religioni: «In ogni culto ciò che è caratteristico è il sacrificio, dice l'illustre professore William Robertson Smith di Cambridge; e questo sacrificio non è solo un dono presentato a Dio, è una cosa che è consumata durante il servizio di Dio [9].» — Il P. Lagrange scrive a sua volta: «Il sacrificio si ritrova in tutte le religioni dalle origini, almeno per quanto possiamo saperne. Di fatto esso consiste sempre in un'immolazione che varia a seconda della materia offerta [10]

«Allo stesso modo l'idea di sostituzione, soggiunge W. R. Smith, è largamente diffusa tra le religioni primitive e si ritrova nei sacrifici d'adorazione come pure in quelli espiatori.»

Il fatto si può constatare con la massima evidenza nel sacrificio dei giudei. «La scena commovente dell'immolazione di Isacco, primogenito e figura di tutto il popolo di Dio, ci rivela il mistero della sostituzione compiuto sull'altare israelita... All'ultimo momento Dio risparmia la vita umana, si contenta di un ariete, offerto in olocausto al posto del figlio unico. Ma la vittima ha ragion d'essere e valore solo in quanto sostituita, in quanto rappresentante Isacco e tutto il popolo, pro filio. Le benedizioni divine hanno questo prezzo. Abramo è benedetto non per aver offerto materialmente l'ariete ma per aver avuto l'intenzione di sacrificare suo figlio a Dio... Nel sacrificio per il peccato la vittima è chiaramente sostituita all'uomo colpevole tanto da esser chiamata peccato, «pro peccato», come se l'iniquità umana si fosse trasferita in essa [11]

Immolazione e sostituzione, ecco le nozioni essenziali che si ritrovano ovunque; e un'altra vi si aggiunge di fatto, quella dell'alleanza, come effetto in qualche modo infallibile del sacrificio: poiché l'uomo si è umiliato, Dio è attirato verso di lui, è disposto a discendere fino a lui: perché un'ostia di propiziazione è stata offerta per il peccato, Dio acconsente non solo a concedere il perdono ma anche ad ammettere nella Sua intimità l'insieme di uomini che hanno appena sacrificato e a stipulare un patto con loro.

Così fu per il popolo ebreo; Dio volle suggellare l'antico Testamento col sangue del sacrificio. Mosè sparse sull'assemblea il sangue raccolto dall'altare dicendo:«Questo è il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi [12]».

Si nota qualcosa di analogo presso le differenti nazioni:  «Il sacrificio, considerato una funzione pubblica, attesta e intrattiene una vera e propria alleanza tra il dio ed il suo popolo. L'idea di questa alleanza è persistente e fa capolino tra le superstizioni più grossolane [13]»

— Un ultimo elemento completa la nozione di sacrificio. «Questa doppia idea di sostituzione e di alleanza è sintetizzata e completata nel rito che ordinariamente termina il sacrificio antico: l'uomo, manducando l'ostia che lo sostituisce, si identifica, si offre e si immola ancor più con essa: manducando l'ostia divenuta cosa divina o sacra l'uomo, seduto come un amico al desco di Dio, in qualche modo si santifica e si divinizza [14]

Questo aspetto non deve essere trascurato, e si noterà che san Paolo allude alla comunione come a un complemento naturale del sacrificio [15]. Ma diversi autori, soprattutto razionalisti, hanno esagerato quest'idea pretendendo che la comunione sia l'essenza stessa del sacrificio antico. Poiché l'animale consacrato totem ha in sé qualcosa di divino, una sorta di parentela con il dio, sarà sufficiente immolarlo, bere il suo sangue per rinnovare la parentela divina, riconciliarsi la divinità, entrare in stato di grazia nei suoi confronti e partecipare alla sua vita [16].

Ma i fatti non meno della ragione sono là a contraddire questo ingegnoso sistema, poiché di regola ci si è sempre astenuti dal bere il sangue delle vittime e poiché queste non sono sono mai state considerate esseri naturalmente divini ed aventi una parentela naturale con Dio [17].

Mons. James Bellord, ex Vicario Apostolico di Gibilterra, deceduto prima della pubblicazione del suo libro, aveva cercato di adattare queste speculazioni alla teologia col fine, egli pensava, di difendere meglio sul terreno storico il dogma del sacrificio redentore; così propose di sostituire alla teoria antica la teoria del banchetto: in questo modo sulla croce vi è sacrificio solo in ragione dell'ultima Cena, e la Messa è sacrificio solo in quanto ripetizione della Cena.

Questa spiegazione, che riproduceva la tesi di un teologo tedesco, il Dr. Fr. Renz, fu vivamente combattuta dal P. Lehmkhul e da altri teologi romani, inglesi, statunitensi e canadesi, le cui risposte possono essere lette in American Ecclesiastical Review [18]; essa confonde l'accidentale e l'accessorio con l'essenziale ed il principale. La comunione può anche essere il normale coronamento e la consumazione del sacrificio, ma non ne è l'atto costitutivo; ciò che è fondamentale nel sacrificio è il riconoscere il dominio sovrano di Dio ed il placare la Sua giustizia per mezzo di un'immolazione ed una sorta di distruzione. La comunione suppone ciò: la vittima infatti è gradita a Dio solo perché gli è offerta ed immolata, e la manducazione è ritenuta deificante solo perché è l'assimilazione di un qualcosa di già consacrato ed immolato a Dio.

Ci asterremo dal fare ulteriori considerazioni e dall'esporre le molteplici teorie sull'argomento perchè non dobbiamo fare qui un trattato completo sul sacrificio, ma solamente ricordarne i principi, allo scopo di stabilire il dogma del sacrificio redentore [19].

Aggiungiamo che, poiché il sacrificio è l'atto ufficiale del culto in nome della società tutta intera, per offrirlo è necessario, affinchè sia gradito a Dio, un ministro legittimo, rappresentante della società. Se il sacrificio è la funzione augusta e sacra per eccellenza, così come è espresso dal termine stesso, sacrum facere, l'espressione più solenne della religione, l'esercizio più elevato, che adora e placa Dio e fa entrare in contatto l'umanità con il proprio Creatore, anche il sacrificatore dev'essere un uomo consacrato, rivestito di un carattere divino, avente come missione e vocazione l'elargire le cose consacrate e divine, in breve un prete, sacerdossacra dans.

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Nello spiegare ciò che è il sacrificio, abbiamo veduto come esso si distingua dal sacramento, col quale ha in comune di essere un simbolo sensibile, un rito esteriore della religione; ma, mentre il sacramento è segno della grazia, il sacrificio è segno della soggezione dell'uomo a Dio, del perdono che Gli domanda, della riparazione che Gli offre per placarlo. Il sacramento ha come fine la santificazione dell'uomo; il sacrificio ha come fine il culto divino. Il sacramento produce la grazia per mezzo dell'efficacia stessa del rito, ex opere operato; il sacrificio non è, per sua natura, una causa immediata di santità, ma, in quanto è un'interpellanza ufficiale indirizzata al cielo, esso inclina Dio a darci Lui stesso la Sua grazia, e ottiene che i meriti e le soddisfazioni offerte da Gesù Cristo ci siano applicate. Il sacramento è di profitto solamente a colui che lo riceve, mentre il sacrificio è utile alla moltitudine immensa per la quale è offerto. Il sacramento, più efficace come segno pratico e causa della grazia, tuttavia non possiede i quattro grandi fini del sacrificio.

Il sacrificio è non solo l'adorazione espressiva che proclama a gran voce i diritti di Dio ed il Suo sovrano dominio, ed in questo caso è detto latreutico; ma anche solenne azione di grazie per i benefici ricevuti, divenendo così eucaristico; inoltre attira nuovi favori sull'umanità sempre povera e che da sé non ha che il nulla, allora è impetratorio; infine, nell'ipotesi del peccato, offre una riparazione per le nostre colpe e ci rende favorevole Dio giustamente irritato, divenendo così espiatorio, soddisfattorio, propiziatorio. Questi tre termini non fanno altro che rendere delle mere sfumature della medesima idea: propiziatorio in relazione a Dio, di cui ci restituisce il favore; espiatorio in relazione alla colpa, di cui ottiene la remissione; soddisfattorio, in relazione alla pena ed al debito di cui rappresenta il pagamento.

I sacrifici della legge mosaica rispondevano a questi quattro fini: al sacrificio latreutico, l'olocausto; al sacrificio impetratorio ed al sacrificio eucaristico, l'ostia pacifica; al sacrificio propiziatorio, espiatorio e soddisfattorio [o satisfattorio, N.d.T.] la vittima per il peccato.

Da tutte queste spiegazioni si trae che il sacrificio, considerato nel suo senso pieno, è più della mera soddisfazione, poiché come quest'ultima implica l'idea della sostituzione aggiungendovi però altre nozioni, soprattutto quella di un'immolazione adorante ed espiante. Il sacrificio è una soddisfazione, ma la soddisfazione, anche se abbondante, potrebbe a rigore provenire da una natura impassibile in connubio con la persona divina, senza compiersi nell'immolazione, in breve senza possedere il carattere penale del sacrificio quale lo conosce la nostra umanità decaduta.

NOTE:

[1] «Christus voluit genus humanum a peccatis liberare non sola potestate, sed etiam justitia . Et ideo non solum attendit quantam virtutem dolor ejus haberet ex divinitate unita; sed etiam quantum dolor ejus sufficeret secundum humanam naturam ad tantam satisfactionem.» S. Thom., III P., q. 46, a. 6, ad. 6. Bisogna leggere tutta questa splendida questione, che può suggerire alla speculazione degli spunti pieni d'interesse ed alla pietà fecondi soggetti di meditazione.

[2]  «Dio non ha bisogno di essere riconciliato con se stesso» obietta Auguste Sabatier, La doctrine de l'expiation, pag. 100. — D'accordo, ma è necessario che i diritti di Dio siano riconosciuti ed affermati chiarissimamente, è necessario che l'ordine sia ristabilito, ecco perché colui che espia al posto dei colpevoli dev'essere come annientato dalla sofferenza riparatrice, perché nella stima del peccatore Dio è stato messo a livello del nulla.

[3] Cfr. S. Thom., III, P , q. 46, aa. 6 e 7.

[4] J. Bruneau, The sacrifice of Christ, in New-York Review, genn. 190?

[5] Lyon, 1897.

[6] Pag. 63 e sgg.

[7] A chiunque analizzi intimamente la psicologia del peccato è evidente che il peccato grave, deliberatamente e consenzientemente commesso, equivale ad una sorta di idolatria pratica. Senza dubbio, dal punto di vista speculativo, il peccatore può mantenere una fede vivissima e riconoscere perfino con sincerità che Dio è il Maestro Sovrano i cui diritti sono imprescrittibili ed i cui ordini vincolano la coscienza; ma di fatto e  nella pratica si sostituisce a Dio, poiché pone la sua volontà prima di quella di Dio; praticamente ritiene che Dio gli è meno caro che la propria passione; praticamente egli adora se stesso o la sua passione al posto di Dio.

[8] I protestanti ed i razionalisti , non comprendendo questi obblighi fondamentali e nemmeno la malizia del peccato, devono necessariamente falsare la nozione di sacrificio. - Cfr. A. Sabatier, La doctrine de l'expiation, p. 9 sgg.

[9] Encyclop. Britan., v. Sacrificio,

[10] Les Religions sémitiques, pag. 244

[11] J. Grimal. Le sacerdoce et le sacrifice de Jésus-Christ. pagg. 29-30.

[12] Exod., XXIV, 4, 3.

[13] Mons. D'Hulst. Conférences de Notre-Dame, carême de 1893, p. 41.

[14] J. Grimal, op. cit., sommario del cap. V.

[15] I Cor., X. 20. segg.

[16] Cfr. R. W. SMITH, The Religion of Semites, ed anche Diction., v. Sacrifice; S. Reinagh. Orpheus.

[17] Cfr. P. Lagrange, Les Religions sémitiques, pp. 112, segg.; 246, segg.. — Quelques remarques sur l'Orpheus* pagg. 14, 19. sgg.

[18] Cfr. i fascicoli di agosto 1905, di aprile e dicembre 1906. — J. Bruneau segnala anch'egli questa opimione nel suo articolo su New York Review, gennaio 1906.

[19] Per uno studio dettagliato si possono consultare: P. Lagrange, Les Religions sémitiques; Mgr D'Hulst, carême de 1893; P. Grimal, S. M., op. cit.; ivi si troverà un'eccellente esposizione dei vari sistemi, come pure della dottrina cattolica.

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