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GUSTAVE THIBON: FARISAISMO CLASSICO E ROMANTICO


Gustave Thibon

“Un nuovo uomo è nato nell’uomo… Il domani non assomiglierà all’oggi…”. Queste frasi, che simboleggiano a meraviglia l’ottimismo democratico, sono colte fra mille nella letteratura di estrema sinistra. Ogni spirito veramente cristiano prova, di fronte a tali formule, un senso di malessere: vede in esse delle verità divine prostituite, si sente di fronte ad un nuovo farisaismo.

Ci sono infatti due specie di farisaismo, due modi di prostituire il cielo alla terra.



Il fariseo nel senso classico del termine, è un cristiano la cui anima è chiusa all’essenza soprannaturale della sua religione. Egli appartiene al mondo, sa riuscire nel mondo. Istintivamente materializza, edulcora, minimizza le esigenze divine. L’amore e la croce gli sono estranei. Vede nella religione soltanto una forza di conservazione sociale, pone Dio al servizio di una certa forma, ristretta e del tutto esteriore, dell’ordine umano. Un fastoso prelato del Grande Secolo, un borghese benpensante dell’ultimo secolo rappresentano molto bene questo tipo di umanità.


Ma accanto a questo farisaismo classico, ne esiste un altro, più sottile, più intimo e più profondo: il farisaismo del pubblicano o, oserei dire, il farisaismo romantico. Qui l’uomo sembra aprirsi con tutta la sua anima ai precetti soprannaturali del Vangelo: ha sete di amore, di giustizia, di un rinnovamento universale. Semplice apparenza, tuttavia: la maschera, pur essendo divenuta carne, resta pur sempre menzogna. Questi nuovi farisei tradiscono, naturalizzano il Vangelo tanto quanto i primi; ciò che li distingue è il fatto che hanno compiuto un ulteriore passo sulla via della decadenza; non sono divenuti maggiormente dèi, ma sono ancor meno uomini. Giudico il manifestarsi del messianismo politico come un segno profondo di decrepitezza collettiva. Ecco degli uomini inariditi, febbricitanti, squilibrati, già troppo deboli e troppo dispersi per realizzare in sé stessi il miserabile equilibrio umano del fariseo ordinario. Anche costoro non hanno altra patria che la terra. Ma essi sono mal attrezzati dalla natura per vivere e dominare su questa terra. Poiché sono scontenti di sé stessi, desiderano che tutto cambi. Poiché sono incapaci di vera felicità, hanno una sete inesauribile di felicità: questa mistura di esasperazione e di impotenza delle facoltà umane è una delle tare maggiori del mondo moderno. Poiché sono i più poveri di realtà, per compensazione inalberano l’ideale più alto; troppo deboli per raggiungere la misura media dell’uomo, spontaneamente mirano all’estrema. Così i princìpi estremi del Vangelo, di cui ogni uomo civilizzato porta l’eco nel suo spirito, anche quando non crede più in Cristo, esercitano su di loro una potente attrazione: il rovesciamento cristiano dei valori umani, molto bene si adatta in apparenza ai rancori e alle ambizioni della loro anima. Questi nuovi farisei mettono le verità divine al servizio del disordine umano: una natura inferma e avida mina in loro il soprannaturale.

Il primo farisaismo è quello dei potenti e dei soddisfatti, il secondo quello degli impotenti e degli invidiosi. Il fariseo classico respinge il soprannaturale, il fariseo romantico lo accoglie come una giustificazione del voti irreali della sua natura malata, riceve il messaggio di Cristo al livello dell’impurità umana, al livello del suo desiderio di riposo e di felicità terrestri. L’uno relega in cielo gli appelli del Vangelo, l’altro li mescola al fango umano.

Ma queste due aberrazioni, in fondo, si assomigliano. La loro successione prova sufficientemente la loro parentela. Ambedue procedono dallo stesso rifiuto della grazia, e, quindi, dalla stessa decadenza della natura. La natura che si chiude a Dio è, infatti, già malata: l’ordine e la saggezza del fariseo classico, sono un falso ordine e una falsa saggezza. Il farisaismo conservatore prepara la strada al farisaismo rivoluzionario: l’idolatria classica che accetta Dio e rifiuta l’amore chiama l’idolatria romantica che pretende di conservare l’amore e rifiuta Dio. La natura indurita che si chiude alla grazia precede la natura imputridita che irride alla grazia.

(Gustave Thibon, Ritorno al reale, Effedieffe, Milano 1998, pp. 213-215)

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