Il NEO UMANESIMO ATEO DI FEUERBACH E LA NEO TEOLOGIA - P. CORNELIO FABRO
Il NEO UMANESIMO ATEO DI FEUERBACH
E LA NEO TEOLOGIA
CAPITOLO STRATTO DAL LIBRO
L'AVVENTURA
DELLA
TEOLOGIA
PROGRESSISTA
P. Cornelio Fabro
L’accenno critico alla
«svolta antropologica feuerbachiana» di Baget-Bozzo ha provocato una breve
replica in forma di lettera sul numero 141 di «Studi cattolici» da parte
dell’interessato, alla quale diamo un succinto riscontro, avendo trattato
ampiamente altrove la posizione dell’autore di Das Wesen des Christentums
nei suoi princìpi e nelle sue istanze fondamentali.
Inizio subito dichiarando
che a me non può che far piacere la dichiarazione dell’eventuale distacco di G.
Baget-Bozzo dall’infezione antropologica che sta guastando la teologia
contemporanea con conseguenze gravi a ogni livello, speculativo e morale. E gli
sono veramente grato perché la sua replica, che insiste nella tesi di un «uso
positivo» dell’ateo Feuerbach, mi offre il destro di precisare le mie
perplessità, che la replica, lungi dal dissipare, ha piuttosto aggravate.
Gli argomenti di Baget-Bozzo
per l’operazione ricupero di Feuerbach sembrano i seguenti: a) l’autorità di
Kierkegaard e dei teologi Barth e von Balthasar; b) la dissociazione tra il
(preteso) nucleo positivo della «dimensione comunitaria dell’umano» e la
concezione degli «individui come termine di relazione», propria di Feuerbach,
dall’ateismo di fondo del suo sistema. Secondo Baget-Bozzo, anche se non nasce
originariamente e funzionalmente legato alla fondazione dell’ateismo, tale
pensiero è incluso in una sintesi formale atea. Questa intuizione del filosofo
tedesco può essere usata teologicamente solo se essa è resa autonoma dalla
forma dottrinale sistematica in cui è situata e recuperata nella sua
specificità. In questo, senso egli pensa legittimo, anzi estremamente utile, un
ricorso a Feuerbach da parte della teologia cristiana, in quanto l’umanesimo
radicale di Feuerbach non si oppone, anzi può chiarire la concezione cristiana
dell’uomo: il suo umanesimo, è dissociabile dalla prospettiva atea della sua
filosofia. Nella mia replica preferisco invertire l’ordine e iniziare dal
secondo argomento che costituisce il vero nerbo della questione.
a) L’operazione-ricupero dell’umanesimo di Feuerbach. Ho l’impressione che Baget-Bozzo
parli di Feuerbach e del suo pensiero muovendosi più ex communiter dictis, che
non da uno studio diretto e comparato della complessa produzione feuerbachiana
e con precisi riferimenti alla letteratura che lo riguarda, la quale ha segnato
in questo dopoguerra una notevole ripresa anche a causa dell’accresciuta
virulenza dell’ateismo marxistico. Perciò all’argomento b) di Baget-Bozzo
rispondo all’antica: nego paritatem e
distinguo tempora. Infatti diversa è
la situazione rispetto alla fede cristiana della filosofia e delle filosofie
apparse prima del cristianesimo da quelle che sono venute dopo. Infatti se si
allude all’uso che la teologia cristiana fin dai suoi albori ha fatto del
pensiero greco, il quale presentava certamente alcuni elementi e aspetti
contrari e refrattari alla fede cristiana, sta il fatto anzitutto che si
trattava di una concezione realistica del mondo aperta alla religione e che
tale concezione esprimeva l’attuarsi della ragione naturale. Ce rtamente il materialismo di Democrito (da cui è
partito Marx), la sofistica, lo scetticismo…, non sono compatibili con il
cristianesimo, e difatti la teologia cristiana fin dall’inizio li ha sempre
messi fuori causa: ha invece assunto spunti e concetti fondamentali dal
platonismo e neo platonismo, dall’aristotelismo e dallo stesso stoicismo, «liberandoli»
dall’eventuale contesto contrario alla Weltanschauung
del cristianesimo mediante una più approfondita riflessione nell’ambito stesso
naturale (secundum quod «sequitur» ad principia Aristotelis…, dice spesso san Tommaso). Una
simile operazione di assunzione purificatrice non sembra invece possibile
all’interno dell’essenza del pensiero moderno a causa della sua struttura
immanentistica e quindi – a mio fermo avviso – esclusiva per principio della trascendenza e di qualsiasi rapporto di libertà
e dipendenza fra Dio e il mondo come fra l’uomo e Dio. Ora Feuerbach, come è
noto, procede direttamente dal principio moderno dell’autonomia dell’uomo
collegandosi espressamente al monismo di Spinoza, al deismo e all’illuminismo
per professare un ateismo radicale che fa della natura una realtà assoluta e
dell’uomo la causa del proprio essere e l’arbitro del proprio destino.
Questo itinerario sotto
il profilo teoretico è compiuto da Feuerbach, che è uno scrittore di chiarezza
esemplare, nelle opere maggiori: Das Wesen
des Christentums – l’opera sua
più brillante e completa – e Das Wesen
der Religion, infine nella Theogonie, opera più tarda e meno
incisiva, e sotto il profilo storico in numerosi saggi monografici e
soprattutto in alcune ricerche specifiche di storia del pensiero moderno, quali
la Geschichte
der Neueren Philosophie del 1833 (rielaborata nel 1847), la Darstellung , Entwicklung
und Kritik der Leibnizschen
Philosophie e l’importante Merre
Bayle anch’esso del 1833.1 Va
rilevato che il testo originale del Das
Wesen des Cbristentums è
seguito da una massa ingente di note e aggiunte (finora mai tradotte in
italiano, per quanto sappia) nelle quali Feuerbach, unico a mia conoscenza fra
i filosofi moderni, attinge ampiamente alle opere dei Padri e degli Scolastici
(e specialmente di san Tommaso) per contestarli e respingere di volta in volta
i capisaldi della fede e teologia cristiana. Feuerbach quindi ha e persegue un
obiettivo ben preciso, che è l’orizzontalità radicale della coscienza umana.
Infatti la sua concezione
dell’uomo è fondamentalmente
uni- o bidimensionale nella semplice tensione di uomo-natura e uomo-società, la
quale resta sostanzialmente nella scia della dialettica di Hegel di cui
contesta (e con ragione) le pretese (conclusioni) metafisiche e teologiche. Si
potrebbe dire che Feuerbach riprende la fenomenologia hegeliana ma capovolta,
in quanto, mentre in Hegel la coscienza o «certezza sensibile» (sinnliche Gewissheit) è provvisoria, perché considerata astratta e inautentica, e
«passa» nell’autocoscienza (Selbstbewusstsein)2 come nella propria
verità, per salire al fastigio della totalità dell’Idea operata dalla Ragione
assoluta (absolute Vernunft),3 in Feuerbach si compie l’operazione
inversa, quella di discesa o riduzione delle complesse (suposte) operazioni
dello spirito alla matrice unica della conscienza che è la «sensibilità» (Sinnlichkeit). L’unico orizzonte dell’essere e
della libertà dell’uomo, quello che regola l’àmbito e la qualità dei suoi
rapporti alla natura e agli altri uomini, è la sfera della realtà sensibile definita dalle forme kantiane
della sensibilità che sono spazio e tempo. Non si vede altra via di uscita.
Come si può qui parlare allora di un «uso positivo» del pensiero di Feuerbach,
ossia come è possibile dissociare il «rapporto io-tu» dal denominatore
sensistico-immanentistico? Feuerbach protesterebbe per primo.
Non è questo il luogo di dare una
esposizione analitica dell’antropologia feuerbachiana, alla quale dedicai non
poche fatiche qualche decennio fa,4
poiché penso sia sufficiente insistere nel caratterizzare il locus theoreticus del principio feuerbachiano che è strettamente
legato, storicamente e criticamente, alla sua contrapposizione a Hegel, ossia
quella di sostituire un tipo di immanenza a un altro tipo di immanenza, ovvero
di una concezione dell’io (sensibile, individuale, finito…) a un’altra
concezione dell’io (assoluto, impersonale, infinito…). Infatti «…mentre il
punto di Archimede della considerazione del mondo è per Feuerbach l’io considerato isolato per sé e da comprendere
unicamente da se stesso, per Hegel è
l’Io onnicomprensivo di Dio il punto di partenza per la soluzione del
problema del mondo. Hegel procede dall’Infinito per comprendere da qui
l’infinitizzazione del finito. Feuerbach invece pone assolutamente il finito e
procede pertanto di conseguenza alla finitizzazione dell’Infinito».5 Non c’è via d’uscita, se non si vuol
fate violenza ai testi e ai princìpi
Nell’ultima opera
sistematica, la Theogonie del 1857,
Feuerbach sviluppa la sua concezione definitiva dell’uomo come «essenza
appetitiva» (Wünschwesen) dominata dall’istinto della
felicità sensibile (Glückseligkeitstrieb) a tutti i livelli: a questo modo la
fondazione della verità si risolve nel puro eudemonismo e pragmatismo, e l’idea
di Dio, è per sempre dissolta nel nulla. E questo va inteso in senso fondativo
cioè metafisico, come giustamente ha rilevato un critico, perché è da una nuova
concezione del reale radicalmente opposta alle concezioni trascendenti che egli
intende abbattere la religione: «Hegel è certamente soprattutto teorico della
conoscenza, la teoria della conoscenza è anche in Feuerbach completamente
secondaria rispetto alla sua metafisica. La psicologia della religione di
Feuerbach poggia decisamente sulla sua metafisica antropologica e non sulla sua
teoria della conoscenza sensualistica».6
L’uomo è essenzialmente
concepito come una realtà completamente immersa nella natura e nel «genere» (Gattung) dentro il quale si dirimono per
ricongiungersi l’io e il tu: per Feuerbach infatti il tu non è, come per Hegel,
l’altro io, ma io sono io soltanto come io di un tu, così che dove non c’è
nessun tu non c’è neanche l’io. La conseguenza allora di questo è che non
l’individuo come tale può essere sollevato a universalità, ma soltanto l’io e
il tu come unità, dove il singolo io non mostra alcuno stadio intermedio di
superamento. Il cerchio si chiude senza via di uscita: «L’io è sempre soltanto
come ritorno da un tu presupposto, soltanto così esso diventa sempre identico
con sé come un divenire stabile. Il tu è l’altro dell’io e però parte del
medesimo. Precisamente nel processo di questa esperienza sensibile sussiste
l’io».7 È in questa esperienza di
appartenenza scambievole di io-tu a circolo chiuso che consiste l’amore (Liebe). Come è possibile allora l’operazione-ricupero
dell’antropologia, del rapporto comunitario, progettata da Baget-Bozzo, senza
mistificare insieme Feuerbach e il cristianesimo?
b) Feuerbach nel giudizio di Kierkegaard. Secondo Baget-Bozzo, il
fondatore dell’ esistenzialismo l’avrebbe preceduto nell’operazione del
recupero teologico di Feuerbach: egli parla infatti di un uso teologico
positivo di Feuerbach da parte di Kierkegaard. Ce rtamente
il grande danese non è un fautore della teologia trascendentale o della
secolarizzazione; è anche certo che egli ha apprezzato l’opera di Feuerbach. Ma
in che senso e sotto quale aspetto? L’unica citazione,8 che è un «frammento» staccato di un testo
ampio e complesso che Baget-Bozzo cita dal Diario,9
è interrotta nel momento più decisivo. Diamo la trama del testo, che ci
interessa: effettivamente Kierkegaard qui fa un uso positivo di Feuerbach, ma
non sembra nel senso dell’operazione progettata. Il testo ha due parti
principali:
1) Feuerbach,
il cristianesimo e la cristianità.
Kierkegaard afferma che Feuerbach ha compreso l’esigenza del cristianesimo e
che il compito o scopo della sua critica come di quella degli altri liberi
pensatori nei loro attacchi è quello di «difendere il cristianesimo contro gli
stessi cristiani»: questi nella cristianità moderna non vivono più secondo
l’esigenza del cristianesimo e tuttavia pretendono di chiamarsi cristiani:
«Ora, dice Feuerbach, questo non va, alto là! Se voi volete, essere autorizzati
a vivere nel modo in cui vivete, dovete anche ammettere di non essere
cristiani. Feuerbach ha compreso l’esigenza, ma non potendo assoggettarvisi,
rinuncia a essere cristiano. E ora egli prende posizione in un modo che non è
del tutto ingiustificato, per quanto la sua responsabilità sia grande. Perché è
falso, quando la cristianità attuale dice che Feuerbach attacca il
cristianesimo. Non è vero! Egli attacca i cristiani, mostrando che la loro vita
non corrisponde alla dottrina del cristianesimo [margine] (e per questo si può dire a proposito di Feuerbach: et ab hoste consilium). È questa una differenza infinita.
Che egli sia probabilmente un demonio malizioso, può anche darsi; ma in senso
tattico è una figura che può essere utile».
Ciò che il testo dice sui
rapporti fra Feuerbach e il cristianesimo è chiaro: Feuerbach smaschera i falsi
cristiani, contesta loro il diritto di chiamarsi e di passare per cristiani e
in questo senso si può dire che egli (come gli altri Freidenker) difende il cristianesimo, cioè ricorda la vera esigenza del
cristianesimo. Quale? Quella che il cristianesimo, come dice lo stesso,
Kierkegaard e come ripeterà poi Nietzsche, destina l’uomo alla sofferenza, ne
fa un infelice in questa vita: ogni religione è costruzione di fantasia (Hegel)
e il cristianesimo è una religione disumana. Kierkegaard sapeva benissimo che i
liberi pensatori del suo tempo, e specialmente Feuerbach, criticano e
respingono l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima e tutti i dogmi del
cristianesimo.10
2) I
traditori subdoli e i traditori aperti del cristianesimo. Feuerbach è un
traditore aperto e per questo può essere utile contro i traditori subdoli che
sono i cristiani e i teologi moderni, e anche i nostri contemporanei dell’epoca
miseranda della confusione post-conciliare: «È proprio di traditori aperti che
il cristianesimo ha bisogno. La cristianità ha tradito il cristianesimo in modo
subdolo col volere, senza essere veramente cristiana, aver l’aria di esserlo.
Ora ci vogliono i traditori aperti».
3)
Feuerbach traditore aperto. Ma si legga ora la continuazione del testo che fa un
confronto esplicito tra l’opera di critica della cristianità fatta da Feuerbach
e quella che egli (Kierkegaard) fa con i suoi scritti: a questo proposito egli
distingue due classi di traditori, quelli come Feuerbach a servizio del demonio
per corrompere ancor più i cristiani, e quelli come lui al servizio di Dio per
far rinsavire i cristiani. Ecco: «Ma il concetto di traditore è dialettico. Il
demonio ha per così dire i suoi traditori e le sue spie che non attaccano il
cristianesimo, ma i cristiani, con l’intenzione che defezionino in numero
sempre maggiore. Anche Dio ha i suoi traditori: traditori religiosi, i quali,
assolutamente obbedienti a Lui, espongono candidamente il cristianesimo, perché
una buona volta si possa riuscire a vedere cos’è il cristianesimo». L’uso
dell’opera di Feuerbach, il ricorso alla sua opera, è qui apertamente positivo-negativo:
è quello di smascherare il non cristianesimo dei cristiani moderni e dei
teologi – e per questo scrive: et ab
hoste consilium – ma resta fermo che Feuerbach è un
traditore del cristianesimo, un traditore
aperto, a servizio del
demonio per spingere siffatti falsi cristiani a romperla definitivamente con il
cristianesimo, come infatti è accaduto e sta accadendo a frotte nel nostro
tempo. Kierkegaard invece si proclama un traditore religioso, un traditore di
Dio, dove il genitivo ha come quello precedente («traditore del diavolo»)
significato possessivo, cioè «a servizio di Dio, assolutamente ubbidiente a
Dio».11
Sui rapporti con
Feuerbach l’atteggiamento di Kierkegaard non lascia quindi dubbi sia nelle Opere sia nel Diario: approfitto dell’occasione per ragguagliare i lettori, data
la difficoltà per i non specialisti di poter avere i testi.
In una postilla (Efterskrift) a un articolo polemico dal titolo: Confessione aperta (Aabenbart
Skrftemaal), comparso sul giornale «Faedrelandet» (La Patria ) il 12 giugno 1842,
che è una risposta critiche che un certo Frederik Beck aveva fatto alla sua
disertazione sul Concetto di ironia (Om Begrebet Ironi), pubblicata
l’anno prima il 16 giugno 1841, Kierkegaard protesta per essere stato
accomunato dal recensore ai seguaci di scrittori atei come Strauss, Feuerbach,
Vatke, Bruno Bauer…: il Dr. Beck pretende di averlo capito, ma è duro per lui
dovergli dire che non l’ha capito per niente e gli riesce incomprensibile oltre
ogni dire di essere stato mescolato in quella compagnia.12 Negli
Stadi sul cammino della vita del 1845 Feuerbach è menzionato assieme al
critico Börne e al poeta Heine come autori assai interessanti «…per coloro che
fanno esperimenti nel campo dello spirito. Il più delle volte (som
oftest) essi hanno una
buona conoscenza della realtà religiosa, ossia sono al corrente (de
vide med Besked) sulla
realtà religiosa così da non voler avere a che fare con essa», cioè rifiutano
decisamente il cristianesimo.13
Frequenti sono le
allusioni a Feuerbach nella grande Postilla, che sono state segnalate nella mia
traduzione, con l’ausilio del commento di N. Thulstrup alla nova edizione
danese.14 Per esempio, l’accenno
all’arbitrio pazzesco e capriccioso, sonnecchiante nel timor di Dio, di «essere
stato lui (con l’immaginazione) a produrre Dio»;15
l’accenno implicito alla dottrina di Feuerbach sull’immortalità;16 ancora un accenno implicito ma preciso
alla corrente atea che «spiega senz’altro il cristianesimo come un mito»;17 verso la fine dell’opera è citato il principio: «Ogni teologia è
antropologia».18 Il senso di questi
riferimenti collima con il testo del Diario
sopra esaminato: «Un’ortodossia infantile, una pusillanime esegesi biblica, una
difesa sciocca e acristiana del cristianesimo, una cattiva coscienza nei
difensori per quel che riguarda il loro rapporto con il cristianesimo: ecco ciò
che, fra l’altro, contribuisce in questi tempi a provocare attacchi passionali
e insensati contro il cristianesimo. Non si deve mercanteggiare, non si deve
alterare il cristianesimo, non si deve esasperarlo, col resistere in un posto
sbagliato, ma badare soltanto che esso rimanga ciò che era: scandalo per i
Giudei, stoltezza per i Greci e non una scemenza qualsiasi di cui né i Giudei né
i Greci si scandalizzino, ma di cui essi sorridono e si irritano soltanto per
il fatto che lo si difende».19 Di lì
a poco il contrasto tra il «risvegliato» fanatico e fantastico che pretende
difendere il cristianesimo da un punto di vista puramente estetico e quindi
controproducente, e il «motteggiatore» (Spotter), il quale «…attacca il
cristianesimo e nello stesso tempo lo espone in un modo così suasivo che è un
piacere leggerlo e colui che è in imbarazzo per trovare una buona esposizione è
quasi obbligato di ricorrere a lui».20
Qui certamente Kierkegaard allude all’esposizione che Feuerbach fa dei dogmi
cristiani nel Das Wesen des Christentums, che è veramente perspicua per
chiarezza: ma non è in questo senso polemico che va inteso l’uso positivo di
Feuerbach quale vuole Baget-Bozzo.
Possiamo osservare, a
questo proposito, che Kierkegaard aveva l’esperienza diretta dell’opera di
perversione che Feuerbach esercitava sulle coscienze nel caso dell’amico e
valente professore di filosofia Hans Bröchner, il quale gli aveva apertamente
manifestato di aver abbandonato il cristianesimo perché il cristianesimo era
contrario alla natura e alla vita concreta.21
Lo stesso Bröchner attesta altrove che l’epiteto di «motteggiatore», nel testo
della Postilla ora citato, va
riferito senz’altro a Feuerbach: poiché si tratta di una testimonianza diretta
e particolarmente qualificata per il confronto esplicito tra Feuerbach e
Kierkegaard, traduco il testo che, per quanto sappia, è passato inosservato
anche nella stessa Kierkegaard-Renaissance
danese. Bröchner scrive nel 1868,
a molta distanza quindi dalla morte del grande amico,
quando la sua adesione al materialismo è già compiutamente maturata. Dopo aver
ben delineato l’opposizione tra la «teologia corrente che si approfondisce
oggettivamente in ricerche erudite» e la ricerca di Kierkegaard per il quale il
compito principale dell’eistenza è la «decisione infinita, l’appropriazione» (uendelige Afgjörelse, Tilegnelse), non il «ciò» (Hvad) ma il «come» (Hvorledes),
continua: «Per Feuerbach, come per Kierkegaard, le sfere del sapere e della
fede restano separate (bliver sondrede), ma poiché Feuerbach determina la religione come l’inazione,
egli afferma il diritto del pensiero contro la fede (imod Troen) e pone
la religione come la falsità che deve essere abbandonata. L’opposizione fra
Feuerbach e Kierkegaard nella concezione della religione e in particolare del
cristianesimo e pertanto la più grande possibile, però non c’è alcun
contemporaneo con il quale Kierkegaard abbia maggiori punti di contatto nella
determinazione di ciò che è il cristianesimo [di Feuerbach]. Questo del resto a
lui non è sfuggito e neppure ha potuto meravigliarsene appunto a causa della
sua concezione del cristianesimo».22
E continua: «Se il rapporto dell’individuo al cristianesimo è un rapporto di
soggettività e più precisamente un rapporto nel quale la soggettività è nella
sua massima potenziazione, nella sua passione più energica, allora, a eccezione
del credente che nella passione lo mantiene come verità, può soltanto concepire
la sua essenza colui che nella passione lo respinge. Quest’ultimo, stando,
fuori del cristianesimo, potrà dire con decisione e acume che cos’è il
cristianesimo, potrà descriverlo in modo che il credente in parte e in tutto
potrà sconfessare la sua descrizione».23
Siamo agli antipodi del progetto di Baget-Bozzo.
Si opera perciò qui un
divario radicale fra la concezione cristiana della persona e quella che
dell’uomo ha Feuerbach: per il cristianesimo (e per Kierkegaard) l’uomo si
attua certamente nella società (domestica, civile, religiosa…), ma egli attinge
la prima regola della sua vita dalla legge divina e ottiene il fondamento della
sua personalità e libertà dall’«essere un Singolo (Enkelte) davanti a Dio»; il rapporto
interumano di io-tu è mediato a ogni livello dalla presenza di un Uditore
sempre presente e da un Testimone sempre in ascolto: Dio. Per Feuerbach invece
è l’opposto, e lo dice il testo a cui Baget-Bozzo si riferisce: «L’uomo singolo
considerato per se stesso non ha
l’essenza dell’uomo né in sé come essenza morale, né in sé come essenza pensante. L’essenza
dell’uomo è contenuta soltanto nella comunità, nell’unità dell’uomo con l’uomo, un’unità la quale si appoggia sulla realtà della differenza di
io e tu».24Chiaro e coerente per un
discepolo di Hegel che cala la teocrazia dello Stato hegeliano nei rapporti
della vita quotidiana dell’uomo sensibile.25
I
Diari della maturità confermano quest’atteggiamento di Kierkegaard verso
Feuerbach, cioè di apprezzamento sia del preciso diagnostico dell’aberrazione
della teologia moderna e della degenerazione dei cristiani moderni, sia
dell’acuto espositore del contenuto della verità cristiana e dell’esigenza
morale cristiana. Così, per esempio, un testo fortemente polemico ancora del 1849-50 dichiara che
l’interpretazione (di Feuerbach, Strauss, Bauer…) del cristianesimo come un
«mito» è valida se riferita alla cristianità!26
Un ultimo testo efficace e sintetico del 1854
dedicato ancora al «libero pensatore» (fri Tanker) – con evidente
allusione a Feuerbach e alla Sinistra hegeliana – fa il punto sulla questione:
«Come i liberi pensatori illustrano il cristianesimo. Ce rtamente,
come ho osservato altrove, la causa del cristianesimo da molto tempo si trova
nella condizione che presso la cosiddetta Chiesa cristiana (specialmente nel
protestantesimo, specialmente in Danimarca!) non si riesce a sapere che cosa
sia il cristianesimo, ma si deve cercarlo dal libero pensatore, proprio perché
per suo conto vuole abbandonare il cristianesimo, trova spesso una
soddisfazione maligna a esagerare il cristianesimo. La cosiddetta Chiesa lo
falsifica mitigandolo, perché si vuole a tutti i costi passare per cristiani!
Il libero pensatore lo falsifica col renderlo più ostico, per il prurito di
seccare maledettamente i cristiani, mentre egli per conto suo se ne sta fuori.
Però è certo, quando si tratta di scegliere fra le due, che la concezione del
libero pensatore è più vera di quella della cosiddetta Chiesa: soprattutto nel
protestantesimo, soprattutto in Danimarca».27
Non è allora l’aspetto
comunitario del cristianesimo che Kierkegaard vede presentato e che egli
apprezza in Feuerbach, ma quello del suo rigore dogmatico e morale, cioè il
cristianesimo atanasiano che porta il cristiano alla rinunzia al inondo e
all’imitazione di Cristo. Riportiamo un testo che riassume il nocciolo della destructio religionis et christianismi
di Feuerbach, quale Kierkegaard aveva letto nel Das Wesen des Christentums:
«I periodi dell’umanità si
differenziano soltanto per cambiamenti religiosi. Si danno cambiamenti storici unicamente là dove essi entrano nel “cuore” dell’uomo. Il cuore non è una forma
della religione, così che essa si trovi anche
nel cuore: esso è l’essenza
della religione. Abbiamo noi assistito a una rivoluzione religiosa? È vero: noi
non abbiamo più cuore, non abbiamo più nessuna religione. Non ci si frena più
per politica, non si fa più mistero…: non ci si illude apposta e
senz’accorgersi. No: oggi si spaccia la negazione del cristianesimo per
cristianesimo, si riduce il cristianesimo a un puro nome. Si va tanto oltre
nella negazione del cristianesimo, che si rigetta ogni norma (linea) positiva
del cristianesimo: non si vogliono più i Libri dogmatici, né i Padri della
Chiesa, né la Bibbia ,
come regola del cristianesimo… Ciò significa che il cristianesimo non esiste
più. Il cristianesimo non cortisponde più né all’uomo teoretico né all’uomo
pratico; non soddisfa più lo spirito, ma neppure il cuore poiché noi abbiamo
altri interessi per il nostro cuore che non l’eterna beatitudine del cielo».28
È questa l’aurora dei
tempi nuovi, una aurora che ora ha raggiunto lo zenith del meriggio e ha fatto
perciò tornare ora in auge Feuerbach, dopo quasi un secolo di oblio…, anche fra
i teologi cattolici! Invece la voce di Kierkegaard non riesce a far breccia
sulle masse della cultura e sulla cultura di massa oggi dominante. È ovvio.
Feuerbach e Kierkegaard
quindi, simili nella situazione esistenziale, ciascuno isolato ed escluso dalla
propria società, si incontrano nella denunzia della malattia dominante ma si
separano all’infinito nella diagnosi e migrano in continenti opposti per
cercare la salvezza: Feuerbach in terra, Kierkegaard nell’eternità.
Ci sembra pertanto che l’operazione
tentata da Biget-Bozzo non abbia alcun valido fondamento e che essa presenti
perlomeno non poche gravi ambiguità: certamente, come si è visto, Kierkegaard
non ha accostato e valorizzato Feuerbach nel senso positivo che si pretende.
Che gli ermeneuti moderni, confrontando Feuerbach e Marx, considerino il primo religioso
e il secondo irreligioso e pur riconoscendolo ateo affermino: «Il suo ateismo è
il compimento della religione: Feuerbach fonda l’ateismo ma non come
irreligione» e che in ciò stia la sua differenza da Marx, è un discorso per me
senza senso e certamente contraddetto da tutti gli scritti di Feuerbach. Può
darsi che Feuerbach, sostituendo l’umanità a Dio, abbia, nel suo umanesimo
romantico, attribuito una certa «sacralità» al genere, (Gattung) come gli rimproverano Marx e i
marxisti: ma passare da questo ad affermare che «…in certo modo i teologi sono
legittimati dai marxisti al ricupero del loro bene»,29 è un’affermazione che non troverà
consenziente alcun marxista vecchio o nuovo e neppure, per quel che può
contare, il sottoscritto, che ha letto, non certo da ieri, gli scritti di
Feuerbach e Marx. Se poi, come si è visto, Feuerbach condanna i cristiani
moderni e la loro aberrazione dal cristianesimo primitivo, lo fa non per
ricuperare e raccomandare questo ma per mostrarne il carattere mortificante,
innaturale e disumano.
Anche il testo del Diario di Kiergegaard, portato da Baget-Bozzo,
non ha affatto nel contesto – come si è visto – un significato di approvazione
della concezione di Feuerbach ma soltanto della sua critica ai cattivi teologi
post-hegeliani e ai cattivi cristiani, «…specialmente nel protestantesimo,
specialmente in Danimarca!». Un’accusa che oggi – bisogna avere il coraggio di
dirlo – attinge anche il mondo cattolico ormai guastato dall’antropologia
teologica venuta dal Nord e dalla civiltà del benessere.
Per Barth, riporta
Baget-Bozzo, Feuerbach è «il martello dei cattivi teologi»:30 ma questo l’aveva già detto, e meglio
di Barth, Kierkegaard stesso che Barth, dopo un fugace e retorico accostamento
al grande danese, ha poi ripudiato perché giudicato troppo cattolico. Che Barth
qualifichi perciò Feuerbach come «teologo neo protestante» è una conseguenza
del negativismo calvinista-luterano del Barth ed è una nuova conferma che
l’aberrazione della teologia protestante deprecata da Feuerbach e Kierkegaard
non si è fermata ai discepoli di Hegel ma continua ancora. Che altro sono le
teologie dei protestanti radicali (Bonhoeffer, Bultmann, Tillich… e discepoli)
se non altrettante destructiones theologiae?
La «pensata» poi del Barth di attribuire (e mi sembra che Baget-Bozzo lo prenda
sul serio e quasi con venerazione!) al materialista Feuerbach, che ha speso la
vita nello spazzare via i fondamenti del cristianesimo e di ogni religione, la
patente di una «speciale ispirazione profetica»,31
è un tale paradosso che avrebbe suscitato la divertita ilarità del bonaccione
Feuerbach. Est modus in rebus!
Baget-Bozzo conclude: «I
teologi hanno dunque accolto Feuerbach come un bene proprio, facendone le più
diverse utilizzazioni. Sembra perciò che vi sia, tra marxisti e teologi, un
paradossale consenso: il padre dell’ateismo antropologico appartiene alla storia
della religione e persino alla storia della teologia».32
Rispondo: passi per la
seconda affermazione, cioè che Feuerbach interessi la storia della religione e,
se si vuole, anche della teologia, in quanto appunto l’ha criticata e
distrutta.
Ma la prima asserzione
che Feuerbach costituisce un «bene proprio», è un’affermazione insensata.
Purtroppo oggi certi teologi sembrano preferire le acque torbide e le cisterne
disseccate degli atei alle fonti vive della Rivelazione e degli scritti dei
Padri e dei Dottori. Ma non sembra, e spero non si offenda, che Baget-Bozzo
abbia sprecato molto tempo a leggere i testi di Feuerbach: si è fidato
soprattutto di Barth. Non sono in grado di appurare la testimonianza di von
Balthasar: osservo che il rapporto di io-tu, che von Balthasar elogia in
Feuerbach, era stato ampiamente esposto da Jacobi che l’aveva opposto al
monismo della sostanza di Spinoza e al monismo dell’Io dell’idealismo (Fichte),33 ma in tutt’altro contesto da quello di
Feuerbach.
Possiamo pertanto
concludere che il rapporto di Kierkegaard a Feuerbach è dialettico, ossia
positivo-negativo o, negativo-positivo. È un fatto che, di fronte alla
mistificazione teoretica che Hegel e la teologia ufficiale (Schleiermacher
compreso) fanno della verità cristiana e della mistificazione pratica che la
cristianità stabilita, specialmente protestante, fa dell’ideale evangelico,
Kierkegaard trova la figura e la critica dell’ateo Feuerbach interessante e
importante. L’uso positivo perciò di Feuerbach da parte di Kierkegaard è nella
sua opera di spregiudicatezza critica contro le confusioni e mistificazioni: ma
Kierkegaard conosce benissimo che lo stesso Feuerbach fraintende profondamente
la natura della religione e più ancora che respinge il cristianesimo. Però
bisogna subito aggiungere che per Kierkegaard anche Feuerbach è un epigono di
Hegel, e il suo pensiero è compromesso alla radice dalla errata prospettiva
hegeliana nella quale si muove, come si muovono Strauss, Börne, Bruno Bauer… In
conclusione: «In Hegel, Kierkegaard non combatte allora soltanto Hegel e il
panteismo di Strauss, ma anche l’antropologismo di Feuerbach; insieme però,
come si è visto, Kierkegaard combatte la filosofia della religione di Hegel
precisamente a partire dalla fondamentale determinazione del cristianesimo
fatta da Feuerbach».34
Perciò Feuerbach
appartiene, o può appartenere, alla storia della teologia protestante, non
certamente a quella della teologia cattolica. La sua opera però può giovare
oggi anche alla teologia cattolica, ma sotto l’aspetto negativo, come denunzia
di quell’antropologismo teologico che dopo un secolo sta spezzando l’ortodossia
cattolica e affondando la fede.
Si può convenire allora
che lo studio delle opere di Feuerbach, specialmente di Das Wesen des Christentums e
Das Wesen der Religion, come afferma un esperto di studi kierkegaardiani e
insigne storico della teologia protestante, non è una perdita di tempo. Ma
bisogna anche riconoscere con lo stesso autore che «il passo decisivo in
filosofia» di Feuerbach è il passaggio dal concetto assoluto di verità a quello
antropologico, con la conseguente concezione dell’uomo come «uomo terreno,
umanità terrena», così che «l’idea di una personalità che non sia determinata
sessualmente (geschlechtlich) come uomo e donna e di una natura umano-razionale che sia
priva di sensibilità e strumenti sensibili, sono per lui fantasticheria (Hirngespinste). Non per nulla Feuerbach ha scritto
nel 1850: “L’uomo è ciò che mangia” (“Der
Mensch ist was er isst”)».35
È con siffatta
antropologia allora, respinta dalla stessa teologia protestante, che la
teologia cattolica – obliosa ormai della regale via di Ireneo, Atanasio,
Basilio, Ilario, Agostino, Vincenzo di Lerines, Tommaso d’Aquino… – vuole
compiere il cammino della «economia della salvezza» verso l’eternità?
Note:
1 Il crescente interesse
per il pensiero di Feuerbach è attestato, oltre che dal rifiorire di studi e
monografie, anche dalla recente ristampa della edizione Bolin-Jodl dei Sämtliche Werke (Stoccarda 1959-1960),
in dieci volumi ai quali è stato aggiunto da Hans-Martin Sass un volume di Jugendschriften (Stoccarda 1962) che
contiene il testo originale della Dissertazione: De ratione una universali infinita (1829) e i Gedanken über Tod und Unsterblichkeit (1830),
seguiti da preziose indicazioni bibliografiche. Insieme sono stati ristampati
anche i volumi dell’edizione dei Briefe.
2 Cfr. Hegel, Phänomenologie des Geistes,
A 1, a
cura di Jo. Hoffmeister, Lipsia 1952, pp. 79 ss. Questa considerazione è
ripresa nella discussione della celebre dialettica fra «servo e padrone» (ivi,
C 5, pp. 175 ss.).
3 Cfr. Hegel, Enz. der philos, Wiss., 70 ss, a cura di Nicolin
Pöggeler, Amburgo 1959, pp. 94 ss.
4 Cfr. spec.: Marx, Feuerbach, Engels, Materialismo dialettico e materialismo
storico, ed. 5, Brescia
1973, Introd. pp. XXI-LIII; Il materialismo
dialettico, in Storia della filosofia (in collab., a
cura di C. Fabro), Roma 1959, vol. II, pp. 810 ss.; Dall’essere
all’esistente, Brescia 1965, pp.
21 ss.; Introduzione all’ateismo moderno cit.,
vol. II, pp. 690 ss.
5 «Ist das
isoliert für sich betrachtete und ganz aus sich selbst zu begreifende
menschliche Ich der archimedische Punkt der Weltbetrachtung, oder ist das allumfassende Ich Gottes
zum Ausgangspunkt der Lösung des Weltproblems zu machen? Hegel geht vom
Unendlichen aus, um von hier aus die Verunendlichung des Endlichen zu
begreifen. Feuerbach dagegen setzt das Endliche absolut und schreitet
daher folgerichtig zur Verendlichung des Unendlichen fort». (K. Leese, Die theologische Prinzipienlehre im Lichte L. Feuerbachs,
Lipsia 1912, p. 195).
6 «Hegel
ist gewiss zu allerletzt Erkenntnistheoretiker, die Erkenntnistheorie ist auch bei Feuerbach durchaus sekundär
gegenüber seiner Metaphysik. Die Religionspsychologie Feuerbachs beruht
entscheidend auf seiner anthropologischen Metaphysik, nicht auf seiner
sensualistischen Erkenntnistheorie» (G. Nüdling, L. Feuerbachs Religionsphilosophie,
Paderborn 1961, p. 158 nota).
7 «Das Ich
ist immer nur als Rückkehr aus dem vorausgesetzten Du, nur so wird es stets mit sich identisch
als ein ständiges Werden. Das Du ist das andere des Ich und doch Teil
desselben. Gerade im Prozess dieser, sinnlichlen Erfahrung
besteht das Ich (G. Dicke, Der Ideititätsgedanke bei Feuerbach und Marx, Colonia e Opladen 1960, p. 76).
8 Dimensione
antropologica… cit., p. 268.
9 Baget-Bozzo cita dalla
traduzione francese del 1953. Il sottoscritto
invece cita dalla sua traduzione apparsa da quasi cinque lustri (ed. 1 in tre volumi, Brescia 1948-1951;
ora ed. 2 in
due volumi, Brescia 1962): si tratta
di un testo del 1849-50, contemporaneo perciò del capolavoro cristologico:
L’esercizio del cristianesimo (trad. it. cit.) e segnato: X2
A 163 (trad. it. n. 2025, vol. I, pp. 968-970).
10 Nella biblioteca
personale di Kierkegaard figurano, delle opere di Feuerbach, il
volume su Leibniz (ed. 1837) e
il Das Wesen des Christenturms (ed.
2, 1843). Cfr. S. Kierkegaards Bibliotek,
En Bibliografi ved Niels Thulstrup, Copenaghen 1957, nn, 487-488, p. 47. Cfr.
anche Auktionsprotokol over Sören
Kierkegaard Bogsamling, ved H.P.
Rohde, Copenaghen 1967, p. 33.
11 La seconda parte del
testo si diffonde a spiegare la tattica dialettica del suo pseudonimo Johannes
Climacus (della Postilla conclusiva non scientifica) in rapporto anche
alla sua vita personale. La Postilla
è il capolavoro teoretico di Kierkegaard e la reputo, con molti critici,
l’unica risposta valida dell’Ottocento alla Wissenschaft
der Logik di Hegel: Kierkegaard dice di essa, nel testo citato, che «…ha un
avvenire straordinario». Invece continua, almeno in Italia, a essere ignorata
(malgrado la traduzione integrale, assieme alle affascinanti Briciole di
filosofia Bologna 1962. Ambedue gli scritti sono ora stati inclusi nel vol.
Opere della Coll. «Voci del mondo» di Sansoni, Firenze 1972).
12 Cfr. S.V.
XIII, p. 441.
13 S.V. VI, p. 475.
14 Copenaghen 1961.
15 Vol. I, p. 135.
16 Vol. I, pp. 364 s.
17 Vol. II, pp. 28 s.
18 Postilla,
trad. cit., vol. II, p. 377. Il testo è riportato in tedesco.
19 Vol. II, p. 402.
20 Vol. II, pp. 411 s.
21 Cfr. H.
Bröchner, Erindringer om Sören
Kierkegaard, Copenaghen
1953, pp. 55-57.
22 Cioè Come «religione della sofferenza» che Feuerbach
respingeva come contro natura e che Kierkegaard invece affermava come l’unica
concezione in accordo con il nuovo Testamento e capace di salvare l’uomo
animale dalle spire del peccato. Bröchner ebbe su questo ampie discussioni con
Kierkegaard anche in occasione della pubblicazione nel 1850 dell’Esercizio del cristianesimo (cfr. Bröchner cit., pp. 54 ss.).
23 Segue la dichiarazione
che il «motteggiatore» di cui parla la Postilla è senza dubbio (upaatvivlelig)
Feuerbach (cfr. H. Bröchner, Problemet
om Tro og Viden,
En historisk-kritisk Afhandling, Copenaghen 1868, pp. 124 s.). Il testo
continua mostrando i punti di convergenza tra Feuerbach e Kierkegaard nel senso
di mettere in luce il «contrasto» tra la ragione e la verità cristiana o la
fede, tra la natura e l’esigenza della fede…
24 Feuerbach, Grundsätze
der Philosophie der Zukunft, § 59, a
cura di M.G. Lange, Lipsia 1950, p. 168; trad. it. di C. Fabro (quella di N.
Bobbio, Torino 1946, p. 139, qui, come quasi sempre, ha forma di parafrasi).
Per il contesto culturale di questa dottrina comunitaria di Feuerbach, cfr. Kl. E. Bookmühl, Leiblichkeit und Gesellschaft,
Studien zur Religionskritik und Anthropologie im Frühwerk von Ludwig Feuerbach
und Karl Marx, Göttingen 1961, pp. 32 ss., spec. pp. 37 ss. - A p. 38 si legge: «Wie Hegel sieht Feuerbach Individualität als “schlechte” Einzelnheit».
25 Perciò non sorprende che l’uomo di Feuerbach sia stato
avvicinato al Dasein di Heidegger (cfr.
H. Arvon, Ludwig Feuerbach et la trasformation du sacré, Parigi 1957, p. 100).
26 Papirer,
1849-1850, X2 A 529; trad. it., vol. II, n. 2192, pp. 61 s. -
Vedi anche dite testi importanti, in questa linea, circa la «identità del divino e dell’umano»
operata dalla teologia moderna (X4 A 258 e 260; trad. it. vol, II,
nn. 2586 e 2587, p. 247). In un progetto di prefazioni al Bog om Adler del 1847 Kierkegaard presenta Feuerbach come l’antitesi dell’Apostolo:
«E l’ostinazione (Selvraadighed) ha due forme: o si vuole abbattere il
padrone o si vuol essere per proprio conto il padrone; o si vuol essere
Feuerbach e con ostinazione abbattere la religione oppure ostinarsi a essere
l’Apostolo», come pretendeva il pastore Adler (Papirer VIII2 B 19, p. 72 e nella redazione completa:
VIII2 B 27, p. 78).
27 Papirer,
1854, XI1A 559; trad.
it. vol. II, n. 3096, p. 605.
Cfr. anche: XI2 A 119, trad. it. vol. II, n. 3174, p. 665.
28 L. Feuerbach, Grundsätze der Philosophie,
Notwendigkeit einer Veränderung, 1842-43; in: L. Feuerbach, Briefwechsel und Nachlass, a cura di K. Grün, Lipsia-Heidelberg
1874, I, pp. 407 s.; SV. II, pp. 216 s.
29 Dimensione antropologica… cit., p. 267.
30 Ivi, p. 268.
31 Ivi.
32 Ivi, p. 269.
33 «Denn ohne Du, ist das Ich unmöglich»
(Jacobi, Werke, IV, 1, p.
211). Con questa
istanza Jacobi prende posizione rispetto sia allo scetticismo di Hume sia al
criticismo di Kant, La migliore monografia critica sull’argomento mi sembra
ancora quella di J. Cullberg, Das Du und die Wirklichkeit. Zum ontologischen Hintergrund der Gemeinschaftskategorie, Uppsala 1933
(tratta specialmente della teologia protestante).
34 «In
Hegel bekämpft Kierkegaard daher nicht nur Hegel selbst und Strauss’
Pantheismus, sondern auch
Feuerbachs Anthropologismus; zugleich aber bekämpft Kierkegaard,
wie man sagen kann, die hugelsche Religionspkilosophie gerade von
Feuerbachs grundsätzlicher Bestimmung des Christentums aus» (T.
Böhlin, Kierkegaards
dogmatische Anschauung, Gütersloh 1927, p. 499), Lo stesso critico osserva
in nota che alla questione se Feuerbach abbia avuto un significato diretto per
la formazione di Kierkegaard, «non si può rispondere in modo categorico» (p.
500). D’accordo con Böhlin è S. Rawidowicz nella sua monografia classica: Ludwig
Feuerbachs Philosophie, Ursprung und Schicksal, Berlino 1931, pp. 347 s. In
questo senso cfr. anche S. Geismar,
Sören Kierkegaard, Seine Lebensentwicklung und seine Persönlickeit,
Gütersloh, Gottinga 1929, p. 447.
35 E. Hirsch, Geschichte der neuern
evangelischen Theologie, im Zusammenhang mit den allgemeinen Bewegungen des
europäischen Denkens, Gütersloh 1954, vol. V, pp. 576 s. Ai nostri
giorni è stato soprattutto K. Löwith il quale, riferendosi al saggio di
Feuerbach sulla fede in Lutero (Das Wesen des Glaubens im Sinne Luthers, 1844; S W. VII
pp. 311 ss.), ha accostato l’ateo radicale al grande riformatore (K. Löwith: Von Hegel zu Nietzsche,
Stoccarda 1950, pp. 364 s.). Ma un nostro valente teologo e esperto di teologia
protestante respinge decisamente tale accostamento (cfr. Gherardini cit., I, p.
261). Mentre per i rappresentanti della «teologia dialettica» come Barth,
Bultmann, la riduzione della teologia ad antropologia può essere un momento
valido nella riflessione teologica, questa tesi è invece apertamente criticata
dai teologi ortodossi come per esempio P. Althaus: Die christliche Wahrheit,
Gütersloh 1949, vol. I, p. 165. Perciò la formula di Feuerbach va piuttosto
capovolta: «Das Geheimnis der
Anthropologie ist Theologie» (E.
Schneider, Die Theologie und Feuerbachs Religionskristik,
Gottinga 1972, p. 55, nota 95).