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Laicattolicesimo

di G. F.
Unavox


Lo Stato, dunque, deve ricevere dalla Chiesa la suprema norma morale; e di conseguenza deve accettare la Chiesa e riconoscerla, non come esso pensa di considerarla, ma quale l’ha costituita Iddio, rispettando in essa per intero quei diritti e quelle prerogative che il suo divino Fondatore volle assegnarle”. (Padre Matteo Liberatore, S.J., Condizione della Chiesa rispetto allo Stato). 

Così parlava un vero cattolico del novecento!
Oggi siamo davanti ai cattolici che credono che sia la Chiesa che debba ricevere la suprema norma morale dallo Stato.
È facile riconoscere questo tipo di cattolici in alti prelati come i cardinali Kasper e Marx, Mons. Galantino e financo Papa Francesco.
Questi cattolici, che hanno messo lo Stato al posto di Dio, è necessario che abbiano un nome, e siccome lo Stato è laico e loro si collocano con a destra la laicità e a sinistra il laicismo, possiamo chiamarli laicattolici.

Conosciamo tutti la dottrina dei due poteri, temporale e spirituale. Dall’insegnamento tradizionale sappiamo tutti che il potere temporale deve essere subordinato a quello spirituale. Una separazione tra i due poteri sarebbe una dichiarazione di reciproca indipendenza … un nuovo manicheismo pratico.
Ora, da quando questo è accaduto per la prima volta, con la riforma protestante, e dopo in forma più marcata, con la rivoluzione francese, il cattolico si è trovato al cospetto di due poteri che fanno leggi opposte. Molti hanno lasciato la Chiesa per seguire lo Stato,  altri invece sono rimasti nella Chiesa pur seguendo lo Stato. Sono questi i cattolici liberali, che fin dal loro sorgere hanno cercato di subordinare la Chiesa allo Stato e hanno raggiunto il loro scopo con il Concilio, esultando con la nota dichiarazione che il “Vaticano II è stato il 1789 della Chiesa”.

Per i laicattolici di destra e di sinistra, la rivoluzione francese è stata una sorta di rivelazione divina, al punto che il cardinale Ratzinger disse:
«Il Vaticano II aveva ragione di auspicare una revisione dei rapporti tra Chiesa e mondo. Ci sono infatti dei valori che, anche se sono nati fuori dalla Chiesa, possono trovare il loro posto - purché vagliati e corretti – nella sua visione» (Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, Ed. Paoline, 1985, p. 34).
«Il problema degli anni sessanta era di acquisire i migliori valori espressi da due secoli di cultura liberale» (Intervista al Card. Ratzinger a cura di Vittorio Messori, in “Jesus”, novembre 1984, p. 72).

Così tra le altre cose, la Chiesa ha fatto suo il concetto di libertà religiosa propria dello Stato moderno:
Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa” (Benedetto XVI, Discorso di Natale alla Curia Romana, 22 dicembre 2005).

Ora, se i due poteri hanno la stessa origine in Dio e sono interdipendenti, sulla base di che cosa il Concilio avrebbe praticato la più ampia e benevola considerazione dei “valori” liberali mondani?
Com’è possibile che Dio possa parlare una lingua attraverso lo Stato e un’altra attraverso la Chiesa?
Difficile capire come la Chiesa possa riprendere “il patrimonio più profondo” accettando la liberta religiosa, che equivale all’accettazione di una sorta di rivelazione dello Stato moderno.
Infatti, con questa operazione, non è la libertà religiosa nata nel mondo che è stata corretta, ma è la condanna di essa da parte della tradizione cattolica e del magistero universale della Chiesa, che è stata capovolta.

C’è da chiedersi:
Roma locuta causa finita est o Stato locuto causa finita est?
Dio non parla più in primis attraverso Pietro, ma attraverso lo Stato?
E che ne è stato del principio della tradizione cattolica che condannava la libertà religiosa?
Abbiamo un’ermeneutica della continuità tra tradizione cattolica e Stato moderno che il cattolicesimo pre-conciliare aveva trascurato?
È la Chiesa o lo Stato il corpo di Cristo?

Come abbiamo visto, la sfida degli anni sessanta era quella di acquisire “i migliori valori espressi da due secoli di cultura liberale”, oggi sarebbe assurdo considerare che Papa Francesco pensi la stessa cosa della cultura laicista?
Non è questo, infatti, lo spirito del Concilio? Lo spirito delle costituzioni degli Stati laici, che fanno coabitare molte ermeneutiche?

L’uomo, come cattolico e cittadino, vive sotto l’influsso della Chiesa e dello Stato, e allora il cattolico difenderà la dottrina della Chiesa nello Stato, mentre il laicattolico difenderà la dottrina dello Stato nella Chiesa.
Il problema è che oggi non vediamo politici cattolici che lavorano per la difesa della dottrina cattolica nello Stato, almeno nella stessa proporzione con cui laici, religiosi, preti, vescovi, cardinali e anche Papi operano in difesa della dottrina dello Stato nella Chiesa. Al punto che vediamo, in Germania, per esempio, come la Chiesa sia diventata, per così dire, un “corpo” dello Stato e i cattolici ancora sottomessi all'autorità laicattolica non sanno più che differenza ci sia tra Stato e Chiesa.

Il manicheismo sta in questa revisione dei rapporti fra la Chiesa e il mondo, di cui parlava il Card Ratzinger, nonché nel problema dell’ermeneutica del Concilio, entrambi interdipendenti e nati nel Concilio stesso; al pari del nuovo manicheismo del “dialogo”, come diceva il Padre Matteo Liberatore:
«Certamente se altri è il creatore della Chiesa, altri il creatore dello Stato, e l’uomo riceve dall’un Principio l’ordinamento alla vita civile e dall’altro quello alla vita religiosa, niente di più naturale che i due fini siano disparati tra loro, e conseguentemente disparati i due poteri che ad essi muovono. Soltanto che, anche in tale ipotesi, identico sarebbe il soggetto sottoposto all’una e all’altra direzione, così, per evitare il contrasto di due opposti impulsi, che renderebbero impossibile il movimento, potrebbe introdursi un accordo, liberamente fatto tra i due motori, per mezzo di scambievoli concessioni; presso a poco nello stesso modo che nel Manicheismo alcuni opinarono essere intervenuto tra il Principio buono ed il Principio cattivo una specie di trattato, acciocché gli effetti dell’uno non distruggessero interamente gli effetti dell’altro. 
All’opposto se uno è il Principio di tutto il creato, come c’insegna la ragione e la fede, Unus est altissimus Creator omnipotens, la posizione liberale, nonché quella moderata, non può sussistere. Se uno è Dio, uno è l'ordinamento dell’universo, uno il fine supremo della creazione. Questo fine non può essere altro che il più sublime, rispetto all’ordinante, il più benefico, rispetto agli ordinati; il che non può essere altro se non la glorificazione di Dio e la beatitudine eterna delle creature razionali. Questo appunto è il fine a cui guida la Chiesa. La Chiesa dunque non solamente è società perfetta (non potendo non essere perfetta quella società che guida al perfettissimo dei beni), ma ancora è società tra tutte suprema, perché il suo fine è supremo. Al detto fine conviene che sia subordinato ogni altro fine inferiore: se è vero che i beni secondarii, rispetto al sommo, han ragione di mezzi, e che i mezzi son subordinati al fine. Da ciò segue con irrepugnabile evidenza che ogni altra società, quale che sia, deve sottostare alla Chiesa, e da lei ricevere norma ed indirizzo. Per quanto dunque voglia magnificarsi lo Stato, per quanto se ne esageri l’eccellenza, la sua subordinazione alla Chiesa non può evitarsi: se pur non vogliasi trasformare esso Stato in Chiesa, ed elevare a Pontefice il governante politico. Ma per fare ciò, bisognerebbe accettare la storpiatura dell’eresia anglicana o dello scisma russo, e mostrare che nel Vangelo non a Pietro ma a Tiberio furon dirette quelle parole di Cristo: “Pasci le mie pecorelle” “Te costituisco fondamento della mia Chiesa”». (Padre Matteo Liberatore, S.J., Condizione della Chiesa rispetto allo Stato).

L’accordo tra il principio buono e il cattivo è il “dialogo”, altrimenti l’uno sarebbe la distruzione dell’altro, come spesso si vede nell’odierno dialogo che non vuole fare proselitismo o nell’amore tra l’ermeneutica della riforma della continuità e quella della rottura. Il vivere per il modernista è la prova della verità: quindi, vivi e lascia vivere è, manicheisticamente, tutto!

Per finire, la confusione tra Stato e Chiesa è tanto grande che con Francesco non sappiamo se lui vuole fare Pietro o Tiberio.
Un Pastore deve avere cura del suo gregge e nella Chiesa ciò che definisce il gregge del Pastore è la fede. Se il Pastore fa l’opzione preferenziale per una data classe, indipendentemente dalla fede, come Francesco che ha fatto l’opzione per i poveri indipendentemente della loro fede, ecco che si comporta come il capo di un Stato laico che si preoccupa di economia, ecologia, sociologia, invece che come il capo della fede cattolica. 


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