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IL SI E IL NO NEL REGNO DELL'OPINIONE




Fonte: Totus Tuus

P. L. Taparelli d'A. S.J., Risorgimento – Il regno dell’opinione. «La Civiltà Cattolica», Serie IV, Vol. VI - 16 giugno 1860, pag. 653 e segg. Leggete le Memorie per la storia del Giacobinismo, che furono, può dirsi, la prima denuncia solenne dell'immensa congiura illuministica; scorrete poi tutta la storia degli sconvolgimenti europei: interrogate finalmente tutti coloro, dai quali fu insegnata in teoria, o esercitata in pratica l'arte (vera arte oggidì che s'insegna per principii, che ha pronti i metodi, sperimentati i mezzi, calcolato il tempo, sicuri i risultamenti) di sconvolgere una società quieta: tutti vi dimostreranno che è uopo padroneggiare le teste prima di comandare nelle piazze.


IL SI E IL NO NEL REGNO DELL'OPINIONE 
«La Civiltà Cattolica», Serie IV, Vol. VI - 16 giugno 1860, pag. 653 e segg.


Che ne dite, lettore? L'opinione è ella regina del mondo?
Gli è cotesto uno di quei problemi equivoci, al quale può giustamente rispondersi il sì non meno che il no. Per distrigarlo dalle ambagi, lo trasformeremo in altri due problemi.
«Tocca alla verità delle cose racconciarsi coll’opinione degli uomini, ovveramente all'opinione degli uomini conformarsi colla verità delle cose»? Se l'opinione potesse trasformare le cose, il dubbio potrebbe essere ragionevole. Ma l'essere delle cose è indipendente dal nostro pensiero. Si opinò per secoli secondo il sistema tolemaico, indi secondo il copernicano, né gli astri cambiarono per questo il loro corso. Dunque l'opinione non è regina del mondo.
Ora ecco un secondo problema. «L'uomo si guida egli naturalmente secondo la sua opinione o contro la sua opinione»? O in altri termini: «L'uomo e la moltitudine degli uomini possono operare senza volere un bene, e volerlo senza conoscerlo»? 
Basta la più lieve tintura d'antropologia per rispondere che no. Se l'uomo deve operare da uomo, bisogna che voglia: per volere dee trovare una qualche ragione di bene; questo bene non lo può trovare se non colla ragione. Dunque l'operare dell'uomo e delle moltitudini è regolato dalla ragione. Ora il giudizio delle moltitudini si appella l’Opinione pubblica. Dunque l'opinione guida l'operare delle moltitudini, ed è per conseguenza regina della società.
Qui nondimeno sottentra un terzo problema. «La moltitudine è ella infallibile nei suoi giudizi? E se sbagliasse, ha ella ragione nell'operare secondo cotesti giudizi falsi? Se la moltitudine ha ragione di operare così, cioè anche quando il suo giudizio è falso, l'opinione è veramente regina; regina di fatto, regina di diritto. Se non ha ragione, l'error suo la condurrà nel fatto, ma l'opinione non sarà regina in diritto.
Qui sta dunque propriamente il gran problema. Che tocchi alla verità regolare le scienze speculatrici, niuno è che lo neghi. Che le moltitudini sieno strascinate dalle opinioni in cui si avvinghiano, è un fatto che tutti veggono. Quello che può essere problematico e se a cotesta opinione del volgo debbasi condiscendere, o debbasi resistere. Il liberalismo eterodosso non cessa d'invocarla, come regina; e quando ha gittate in faccia ai suoi avversari l'opinione pubblica, lo spirito del secolo e simili frasi che nulla dicono, pretende cieca obbedienza. Il Cattolico all'opposto, a fronte anche d'un intiero popolo che neghi la verità, è disposto a combattere l'opinione per non sacrificare i diritti del vero.
Quale delle due sentenze è più ragionevole? Esaminiamone i fondamenti.
Donde muove l'eterodosso per istabilire il regno dell'opinione? Vi parrà strano il fatto: egli parte dalla indipendenza della ragione privata. Sissignore appunto perché la ragione di ciascuno è autonoma per suo diritto inalienabile, appunto per questo ciascuno dee dipendere dalla pubblica opinione.
Strana contraddizione! direte voi: debbo dipendere, perché sono indipendente! Ma come può ella nascere dalla indipendenza assoluta dell'individuo?
La genesi è semplicissima: la società per gli eterodossi è l'unione di migliaia e di milioni d'intelletti autonomi. Or fra cotesti milioni le opinioni discordano necessariamente per mille ragioni, donde nasce immenso divario nei pensieri e negli affetti. E pure se gli uni agli altri non si acconciano, come potrà mai formarsi l'unità, e dare movimento alla macchina sociale? Un sol mezzo si è finora trovato per comporre il dissidio degli uguali, quando l'evidenza del diritto concordemente non parla; si ricorre alla conciliazione, si viene a composizione, si stabilisce un arbitro, promettendo di accettarne, quale che sia per esserne, la sentenza. E così appunto debbono operare fra i protestanti le migliaia, i milioni di cervelli, tutti ugualmente infallibili e pure tutti pensanti a modo proprio. Ben inteso che quando si sceglie l'arbitro, se ne accetta la sentenza pratica per necessità, senza legare l'intelletto a credere vera la sentenza specolativa. Si accetta la prima, perché la necessità sociale l'impone; si ricusa la seconda, perché nella ragione privata una necessità contraria si oppone. L'azione è libera, dunque si consente al comando: l'intelletto non è pieghevole che al vero, dunque finché il vero non apparisce, l'intelletto è restio. Così l'arbitrato regola l'opera esterna e materiale, lasciando liberi gl'intelletti al di dentro a condannare dottrinalmente ciò che praticamente si eseguisce. Quanto sia morale un tal operare non lo cerchiamo per ora: è per l'eterodosso una necessità sociale, e tanto basta.
Ma qual sarà la persona, qual sarà l'arbitro, a cui si darà il Governo dagli eterodossi? fra migliaia di uguali l'unica differenza che può trovarsi è nel numero. Dunque volendo una sentenza definita, o dovrà stanziarsi che i molti obbediscano ai pochi, o che i pochi ai molti. Se si stabilisse il regno dei pochi, sarebbe un Governo irragionevole, senza forza, Governo impotente, Governo inutile, Governo che non può governare. Resta dunque il Governo dei molti sui pochi, della forza sulla debolezza: Governo che, se non è sicuro di aver ragione, è certo almeno di ottenere l'effetto. Quando i molti adoprano la forza materiale, si appellano esercito; quando impongono colla influenza morale, opinione.
Ecco dunque donde nasce il regno dell'opinione: nasce 1° dall'impossibilità presunta di conoscere con certezza il vero e il giusto, a cui gl'intelletti e le volontà dovrebbero soggettarsi; 2° da una certa presunzione probabile che i molti ci azzecchino meglio che i pochi; 3° dalla sicurezza che, abbiano ragione o torto, i molti hanno la forza per farsi obbedire, e sono certi per conseguenza di formare nella società almeno quell'ordine materiale che colla forza di tutti assicura gli assalti di ciascuno.
Quindi vedete per voi medesimo che all'ultimo problema proposto gli eterodossi, come abbiamo detto, debbono rispondere di sì: e il loro argomento può ridursi in questa formola.
Presupposto che la pubblica opinione ottiene a lungo andare la preponderanza nell'opera, e che la società esige assolutamente unità di operazione sociale; chiunque non vuole rinunziare alla società deve ottenere l'armonia della pubblica opinione coll'operazione; o comandato all'opinione medesima perché s'acconci al diritto, o cambiando il diritto perché s'acconci all'opinione. Or fra eterodossi non si può comandare alle opinioni secondo il diritto: dunque bisogna modificare il diritto secondo le opinioni. L’argomento, come vedete, è strettamente logico, se si presuppone il principio della razionale indipendenza degli uomini e della naturale loro socievolezza.
Veggiamo benissimo che il nostro lettore troverà in esso contraddizione e tirannide. «Come? dirà, l'intelletto indipendente per natura, è per natura obbligato ad obbedire! L'intelletto che aderisce necessariamente al vero, dovrà per obbedienza aderire al falso! O se non è obbligato ad aderirvi l'intelletto, dovrà la volontà piegarsi a ciò ch'egli giudica iniquo e malvagio! E l'opinione avrà il diritto di comandare l'iniquità e di costringere ad operare contro coscienza! E tuttociò in nome appunto di quella indipendenza natìa la quale esige come diritto inalienabile, la libertà di coscienza»! Queste contraddizioni, questo despotismo fa ribrezzo ad ogni lettore cattolico: e da tal ribrezzo ha preso le mosse quel grido di indegnazione, con cui tutti i Cattolici hanno condannata la tirannica vessazione di quei governanti che nell'Italia centrale vogliono ad ogni patto estorcere dal clero certi Te Deum, ch'esso non può cantare senza offendere e la legittima autorità ecclesiastica e la propria coscienza. Ma qualunque sia il ribrezzo che ne provate, possiamo noi cangiare le leggi del pensiero? Possiamo noi fare che da un concetto contraddittorio (creatura indipendente, ossia creatura non creatura) non isgorghino conseguenze contraddittorie? O che per la società non sia necessaria la dipendenza? O che fra uguali si trovino ragioni di differenza? O che la differenza di numero divenga differenza di merito e di diritti? O che il dipendere da chi non ha meriti o diritti non sia schiavitù? Tutte queste conseguenze fluiscono a rigore di logica dal principio d'indipendenza eterodossa. Se vi dispiacciono, non vi è altro rimedio che o cangiare la logica, o cangiare il principio: cambiare il principio non si vuole, la logica non si può. Dunque gli eterodossi debbono rassegnarsi ad accettare il regno delle pluralità benché spropositato e dispotico.
Al qual proposito notate: si ride talora del medio evo che a sentenziare sopra un articolo di fede, o sopra un punto di giure, invocava o la naturale voracità delle fiamme, o la spada di un paladino nella giostra: quasi il valore del paladino o il combinarsi dell'ossigeno fossero buone ragioni per concluderne una verità dottrinale. Or sembra a voi molto più savio il secolo presente, quando, per dieci pallottole di più che si gittano nell'urna da qualche ignorante o sbadato, inferisce la santità di una legge che con dieci pallottole di meno sarebbesi riprovata come funesta o malvagia?
Ma l'assurda tirannia esercitata contro gl'intelletti e le coscienze salverà ella almeno quella parte del pubblico bene che potrebbe dirsi interesse materiale? Anche questo, notatelo, dipende per lo più da certe leggi stabili di natura, alla cui mutazione nulla potrebbe l'universale suffragio anche di tutto un popolo. Fate per es. che con tutta codesta pienezza di assenso si prescriva da un'intera nazione di bere invece d'acqua acido prussico: l'universalità dello errore basterà ella a campare quel popolo dagli strazi del veleno? E' forse meno funesto l'oppio ai Cinesi, perché universale è la mania di ubbriacarsene?
Or quel che si dice delle cause materiali vuol dirsi ugualmente delle cause morali. Se la legge del divorzio scompagina la famiglia, se da famiglie scompaginate risulta grave disordine nella società civile; sia pure quanto si vuole innocente l'abbaglio del legislatore, che arreticato dai sofismi introdusse il divorzio nel codice, non riuscirà per questo meno funesto alla società l'avere inghiottito codesto acido prussico. Potrà scusarsi il legislatore se fu veramente innocente (è possibile?) nell'abbandonare le norme del Vangelo e della Chiesa: ma fosse pure innocente come una colomba, gli effetti della legge non cambieranno, e lo scompiglio delle famiglie propagherà lo scompiglio nella società.
Dunque?....
Dunque la prevalenza della pluralità non rende per sé giusta e vantaggiosa la legge. Ciò nondimeno essendo pure necessaria una legge qualunque, affinché la società non si dissolva, l'eterodosso è costretto ad accettare, benché ingiusta e nociva, la sentenza del volgo: e questo è dispotismo di piazza. Ovvero se alcune persone accorte e risolute tengono mano al governo dello Stato e vogliono conseguire intenti diversi da quei del volgo, debbono negare nel fatto (e questo è dispotismo di palazzo), debbono negare nel fatto la libertà del pensiero conceduta per legge, chiudendo circoli, sequestrando giornali, monopolizzando la pubblica istruzione, inceppando la pubblicazione dei libri, indirizzando a loro modo la moralità dei teatri ecc. affinché l'opinione che deve muovere la società sia tale che la conduca ove essi la vogliono. E questo è finalmente ciò che si fa da tutti i periti governanti sieno liberali o cattolici, con questo solo divario che i Cattolici nel così regolarsi sono coerenti, laddove gli eterodossi si contraddicono.
Dunque, per ultimo, ammesso il principio eterodosso della ragione inalienabilmente autonoma, l'unico mezzo di salvare la società è il negare con isfacciata contraddizione codesta autonomia, stabilire il regno della forza a dispetto di qualunque dettato degli intelletti o delle coscienze.
Attento bene, lettore, a questa ultima illazione, la quale aggiunge evidenza novella a ciò che dicemmo là, dove fu per noi citata la libertà al tribunale della Chiesa; e che ripeteremo ancora molte volte, essendo il lecco della libertà una delle attrattive più funeste, con cui la generazione presente viene strascinata a mille errori e delitti, dai quali non si ritrarrà finché non si sia convinta che cotesta famosa libertà dell’89 è in verità un assurdo e scellerato dispotismo. Così l'intendessero i panegiristi di quelle famose conquiste, o si degnassero almeno rispondere ai nostri argomenti! Ma poiché essi si contentano di ripetere gli errori, a voi non dispiacerà che noi, quando l'occasione se ne presenta, rincalziamo la confutazione con sempre nuovi argomenti. Se ottenessimo finalmente di fare ben comprendere che il preteso regno della libertà è verissimo dispotismo, trovereste più un liberale sincero che volesse rinnegare le antiche dottrine cattoliche, per comperarsi con tale apostasia la schiavitudine?
Ripetiamolo dunque: ammessa l'indipendenza eterodossa piena ed uguale per tutti nel pensiero, nella coscienza, nell'opera, più non è possibile la società, se non si trova un arbitro a cui soggettarli. Quest'arbitro non può essere la verità, perché l'indipendenza del pensiero concede a ciascuno il diritto di credere vera la propria opinione. Non essendo legati gli uomini dal diritto della verità, ed essendo pur necessario un vincolo di unità sociale, altro non rimane che la forza della pluralità. Or la forza imposta senza i diritti del vero e del giusto è forza dispotica. Dunque ammessa la libertà eterodossa, ossia l'uguale indipendenza di tutti gl'intelletti, la società non esiste se non con l'aiuto del dispotismo: e per conseguenza i pretesi promotori di libertà debbono necessariamente divenire i tiranni dei loro concittadini.
Se alla teorica corrisponda il fatto, lo vedremo fra poco. Se la teorica, in sé ammette qualche replica, noi preghiamo i nostri avversari a spiegarlaci, contrapponendola punto per punto alla nostra breve e limpida dimostrazione.
Vediamo ora qual è la risposta del Cattolico a codesto problema. «L'opinione ha ella il diritto di guidare sempre l'operare delle moltitudini»? Qualunque sia la moltitudine degl'intelletti, la verità ha il diritto di comandare a tutti, purché ella sia certa. Ora, dopo la rivelazione divina, tutte le verità religiose e morali necessarie a vivere onestamente sono certamente in possesso della chiesa, che è columna et firmamentum veritatis. Dunque tutti gli uomini nelle materie morali debbono dipendere dalla Chiesa, giudicando ed operando a norma dei suoi insegnamenti. Ma a questi insegnamenti può molte volte opporsi l'opinione. Dunque benché questa governi di fatto, non sempre governa di diritto. Abbiasi pure il governo quando si tratta di materie, ove non è impegnata la coscienza, o non è certa la verità. Ma quando trattasi di onestà morale, quando questa onestà è fermamente assicurata dall'oracolo della Chiesa; allora gridi pure un intero popolo reus est mortis, ingiusta sarà la sentenza ed ogni animo onesto sentirà il dovere di resistere.
Secondo il Cattolico dunque l'opinione potrà essere la tiranna del mondo, governandolo di fatto, ma non ne sarà mai la reina, non avendo per sé il diritto di governarlo.
Da queste due teorie risultano come ognuno vede, due politiche: la cattolica la quale s'ingegna di regolare le vicende secondo i principii, a costo di qualunque sacrifizio; e l'eterodossa pronta a sacrificare i principii, purché ottenga il favore degli uomini. La prima espressa dai Francesi col cavalleresco aforismo fais que dois, advienne que pourra, è quella di cui ci dà sì bel saggio il regnante Pontefice esponendosi a tutti gli sdegni dei potentati col suo generosi non possumus. Questa politica è fondata sull'intervento della Provvidenza nelle cose del mondo e sulla promessa evangelica haec omnia adiicientur vobis. La politica eterodossa all'opposto è quella del progredire col suo secolo, del non opporsi all'opinione, del secondare i desideri del popolo; formole tutte che significano in buon volgare mettere all'incanto i principii, per comprare popolarità e vantaggiare gl'interessi.
Abbiamo considerato finora la sentenza teorica delle due scuole; e la contraddizione fra di loro non potrebbe essere maggiore. Ma qual dovrebbe esserne l'applicazione pratica? Lo vede ognuno: il Cattolico persuaso che un'opinione falsa non ha diritto di governare il mondo, dovrebbe adoperarsi a tutt'uomo per correggere l'opinione, espellendone l'errore: cotalché il regno di fatto si congiungesse col regno di diritto, e la Verità, regnando sugl'intelletti, secondo che a lei compete, regnasse ugualmente nel fatto delle opere. Questo pieno consenso della verità, degli intelletti, dell'opera produrrebbe nella società una perfetta e naturalissima armonia e però tutta la pienezza possibile della felicità.
L'eterodosso all'opposto, persuaso che la ragione è indipendente e che la pluralità delle ragioni ha diritto di comandare, dovrebbe lasciare liberissimo il pensiero e la parola, accettando dalla pluralità il decreto, qualunque esso sia, della pubblica opinione.
Sì certamente, così vorrebbe la logica, presupposti i principii. Ma l'uomo è egli sempre logico? E le passioni accettano sempre il giogo dei principii? Confessiamolo francamente e diciamo col Vangelo a nostra confusione prudentiores filii tenebrarum. I Cattolici che negano all'opinione i diritti di sovranità, ne accettano molte volte il giogo da servi; ed appena sentono intimarsi che il secolo vuole, che il progresso comanda ecc., si rassegnano alla tirannide e piegano il collo al giogo senza zittire. Gli eterodossi all'opposto, mentre dicono in teoria regna l'opinione, comprendono benissimo esservi mille maniere dì dominarla; ed applicando a lei il loro aforismo: «il Re regna e non governa», adoprano tutte le arti per dominarla, sicuri di possedere il mondo, incatenata che abbiano l'opinione.
Diamo un'occhiata a questo procedere delle due scuole ugualmente incoerente da ambe le parti. Vediamo in qual Modo gli eterodossi che dovrebbero obbedire, all'opinione, le comandano; ed i Cattolici che dovrebbero comandarle, le obbediscono. E la contemplazione di questo doloroso spettacolo c'incoraggisca per resistere alla tirannia dei primi e per riscuotere l'apatia dei secondi.
E in quanto alla tirannia dei primi, non è chi non sappia come ella proceda. Persuasi della necessità di dominare le teste per dominare la società, appena veggono luccicare una speranza d'afferrare il timone dello Stato, voi li vedete slanciarsi con una specie di smania febbrile sopra tutti i mezzi di pubblicità e d'influenza sugli intelletti. Scuole pubbliche e private, giornali quotidiani, eddomadari, mensili, accademie scientifiche e letterarie, edizioni ripetute di opere favorevoli, silenzio o discredito contro le opere contrarie, declamazioni da saltimbanchi pel volgo; tragedie e commedie pel ceto civile, musiche e romanze per dame e damerini; tutto si procura che canti all'unisono, perché si formi un sol giudizio, una sola opinione. E se talora riescono a razzolare per le fogne sociali un qualche rifiuto del santuario, un prete apostata che profani il Vangelo dal pulpito, o bestemmi in farsetto fra brigate sollazzevoli, allora sono giunti alla pienezza dei loro voti, e vanno strombazzando che anche i preti sono coll'opinione pienamente concordi.
Leggete le Memorie per la storia del Giacobinismo, che furono, può dirsi, la prima denuncia solenne dell'immensa congiura illuministica; scorrete poi tutta la storia degli sconvolgimenti europei: interrogate finalmente tutti coloro, dai quali fu insegnata in teoria, o esercitata in pratica l'arte (vera arte oggidì che s'insegna per principii, che ha pronti i metodi, sperimentati i mezzi, calcolato il tempo, sicuri i risultamenti) di sconvolgere una società quieta: tutti vi dimostreranno che è uopo padroneggiare le teste prima di comandare nelle piazze. E per non allontanarci dagli esempi che ci offre la presente agitazione italiana, udite come ne preparava lo scompiglio uno di quei tanti libercoli anonimi che brulicarono in Francia nel 1859, intitolato La Foi des Traités. Nel § 6° (pag. 27) l'anonimo prende a spiegare in qual modo la gente cristianissima verrà a promuovere in Italia la santa legge di carità e di amore. «Credete voi, dice, che un tal dovere abbia ella a compierlo colla guerra? Non temete: l'opinione va maturando quei principii che furono gridati dalla santa alleanza. Fedele a codesti principii essa ne prepara colle idee la propagazione: e quando codeste idee hanno prodotto il loro frutto, impossessandosi degli intelletti e invogliando i popoli di ridurle in atto, sicché incomincino ad agitarsi, cimentando la pace dell'Europa; allora se qualche opposizione anticristiana (non sappiamo di qual cristianesimo parli l'autore) vietasse il condurle ad effetto, eccoti la Francia accorrere e farsi il primo soldato della PAROLA DI VITA.
«Non già, badate, che voglia subito sguainare la spada: questa si riserba all'ultimo. Prima per quanto è possibile la Francia lavora colle potenze dell'idea e della lingua; sfolgora per ogni dove negli intelletti e nei cuori il diritto, la giustizia, la carità a modo suo, mostrando agli altri il loro tornaconto. E quando a forza di parlare sarà riuscita ad isolare i suoi nemici, a far vacillare le coscienze, a far titubare comandanti e difensori; allora la Francia sguainerà la spada e la vittoria sarà indubitata. Questa politica la professiamo senza dissimulazione, senza mistero, ad alta voce. L'opinione è regina del mondo e chi se ne impadronisce trionfa. L'avea scritto da lungo tempo Napoleone I nelle memorie di S. Elena: «Il primo Sovrano che nella gran pugna abbraccerà di buona fede la causa dei popoli (ossia di chi si dice il popolo) si troverà a sopraccapo di tutta l'Europa e potrà quanto vorrà tentare. Abbracciare dunque in buona fede la causa dei popoli, ecco la missione della Francia».
Così quell'anonimo. Or dite voi, lettore, se potea spiegarsi più candidamente in qual modo cotesti rigeneratori intendono concedere la libertà alle idee e ai popoli. Concedere tale libertà significa, come vedete, nel costoro vocabolario, sorprendere prima colla frode e costringere poi colla forza tutti i popoli ad uniformarsi alle idee francesi o piuttosto alle idee rivoluzionarie. Finché queste non sono penetrate nel popolo, sì chiede libertà per pubblicarle: quando, pubblicate, incominciano ad agitarsi e compromettere la pace dell'Europa, la dottrina contraria si dice opposizione anticristiana; e il soldato della verità si mostra pronto a sguainare la spada per comprimere ogni dottrina contraria. Quando questa è costretta a tacere, quando politici, magistrati, soldati, alleati che la difendono, si trovano isolati in quel silenzio, né più sorge una voce che parli per loro (seront démoralisés), allora la spada si sfodera, e l'opinione trionfa colla libertà della scimitarra.
Ciò che il libello anonimo prometteva nel 1839, gl'italianissimi l'hanno eseguito al primo loro arrivo sulle vette del potere. In Firenze il Barone Bettino dichiarava francamente cheè proibito in Toscana l'ingresso e la circolazione di ogni opuscolo politico e religioso pubblicato a Roma e negli altri luoghi ecc. E sapete perché? Perché cotesti opuscoliconfondono le verità eterne della religione con i transitori interessi mondani, oltraggiando con l’errore la fede e la civiltà... Contro queste armi hanno necessità e diritto di premunirsi gli Stati dell'Italia centrale. Così il Ricasoli.
Ora ogni lettore assennato dee dire nel cuor suo: ma caro Bascià Bettino, se queste armi possono fare tanto male che danno il diritto di premunirsi col togliere all'opinione dei vostri avversari tutti i mezzi di manifestarsi, perché dirci che la stampa deve esser libera e l'opinione regina?
E questo stesso argomento, si potea volgere contro il Farini nell'Emilia, contro il Migliorati in Ferrara e insomma contro tutti i liberali quando giungono al potere, che tosto si affrettano a impadronirsi di tutti i mezzi per governare l'opinione, appunto perché sanno che chi vuol governare gli uomini deve governare l'opinione; essendoché, a diritto o a torto, l'opinione governa di fatto, non potendo l'uomo operare diversamente da ciò che vuole, o volere altrimenti da ciò che pensa.
E qui notate ridicola contraddizione. La ragione che costoro adducono per dare piena libertà alle opinioni è che «tolta la libertà della parola non vi è più schermo contro la tirannia. All'opposto finché dura la libertà del parlare, ogni tirannia ha termine, essendo impossibile che non sorga contro di lei una protesta universale». E poi, quando la protesta incomincia e si fa schermo alla libertà, costoro gridano il diritto di premunirsi, imbrigliando le lingue e i torchi, appunto perché il pubblico vorrebbe valercene per difendersi dalla tirannia.
I libertini dunque hanno ragione in pratica: tutto il loro torto sta nella contraddizione teorica e nella scellerata ipocrisia, con cui proseguono a vantarsi datori di libertà, mentre nel vero sono fabbricatori di catene e tiranni dei loro concittadini. Ma compatiteli: la contraddizione è una necessità del partito e quasi diremmo della società; la quale non può stare senza un governo: se dunque non governano i buoni, bisogna che governino i tristi.
Quelli che non meritano compassione in modo alcuno, sapete chi sono? siamo noi, noi sostenitori dell'ordine, noi credenti cattolici che da un canto professiamo in teoria, tutte le opinioni dover cattivarsi nell'ossequio della fede [In Captivitatem redigentes omnem intellectum, in obsequium Christi. II Cor. X, 5], e solo con tale conformità ossequiosa potersi conseguire la tranquillità e la perfezione dell'ordine sociale; e dall'altro ricusiamo in pratica tutti quei mezzi adoprati per mal fine dei nostri avversari, perché assolutamente necessari al buon andamento della civil comunanza. Vedete, lettore, la strana e deplorabile antinomia! Costoro che professano, le opinioni dover esser libere, incatenano la libertà perché sacrificherebbe i loro materiali interessi; noi che professiamo in teoria non dovere esser libere le opinioni, sacrifichiamo la teoria, e con lei sacrifichiamo ancora gl'interessi. Oh davvero che prudentiors filii tenebrarum!
Ogni lettore perspicace e sperimentato nelle cose del mondo comprenderà benissimo le applicazioni pratiche di queste nostre considerazioni: ma i meno esercitati ed acuti, non misurandone tutta la portata, potrebbero forse riguardarle come querele fantastiche di oscurantista malinconico. Gioverà, dunque mettere in chiaro il nostro pensiero notando e le opinioni ora false, ora equivoche che per colpa nostra acquistano impero, e la noncuranza dei mezzi con cui potrebbero propagarsi le opinioni contrarie. Ma il mostrare questo, il cortese lettore ci consenta differirlo ad altro tempo e ad altro quaderno.
 

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