DRAMMA DELL'ESEGESI MODERNA 5
Estratto dal libro
MITI E REALTA'
del Servo di Dio Mons. PIER CARLO LANDUCCI(una nota biografica del Servo di Dio in fondo a questo documento)
Scaricabile in Totus Tuus
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PRECISAZIONI DA PRECISARE
Hanno fatto un certo rumore alcuni densi
articoli biblici, di precisazione, di S.E. Salvatore Baldassarri. Uno l'ho
visto riportato in un vivace foglio parrocchiale di Bracciano, gli altri li ho
letti direttamente nella Settimana del Clero n. 29-30, 1967. V'è chi li
ha ammirati e chi li ha criticati; e penso che niente meglio desideri
l'illustre studioso che alimentare la utile riflessione e problematica. Subito,
ad ogni modo, vi si coglie la stringata chiarezza dell'antico dotto professore.
Ma la concisione talora ha forse impoverito il pensiero. Mi riferirò a qualche
affermazione che ha fatto più impressione e che è più significativa, nel quadro
del dramma della esegesi moderna.
ESAMERONE
In questo periodo postconciliare di
ripensamento - si chiede S.E. B. - «che cosa resta?». E' una domanda pressante,
soprattutto in relazione alla Bibbia.
Quanto all'Esamerone: «La Bibbia espone nel
modo popolare del suo tempo e del suo ambiente le cosiddette questioni
scientifiche. Unica preoccupazione che rientra nel mistero della
salvezza: tutte le cose provengono da Dio». - Troppo poco. Le parole da
me sottolineate esprimono una verità fondamentale, ma c'è ben altro nel Genesi
di «importanza sostanziale» per «il mistero della salvezza»: e il Magistero si
è pronunciato più volte in tal senso, come nella Humani generis di Pio
XII e nella ivi citata «Lettera... inviata all'Arcivescovo di Parigi dalla
Pontificia Commissione per gli Studi Biblici». «Questa Lettera infatti dice la
H. g. - fa notare che gli undici primi capitoli del Genesi... con
parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un popolo poco civile,
riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per la nostra
salvezza, sia anche una narrazione popolare dell'origine del genere
umano e del popolo eletto» (H. g. 39). Tra tali «verità fondamentali»
v'è il monogenismo e il peccato originale (38). Si veda in
proposito anche il Tridentino (D-S 1511, 1512, 1513, 1514, 1523), il Vaticano
II (CM 24: deh. 1393; cfr. ivi 22, 29: deh. 1385, 1409; C 2: deh. 285), Paolo
VI (Oss. R. 16 luglio 1966; Professione di Fede, 30 giugno 1968). Già ne
parlai, trattando dell'evoluzionismo.
Il dotto articolista cita bensì la suddetta
Lettera all'Arcivescovo di Parigi (riportata nella H. g.) nel
secondo articolo di Sett. d. Cl.; ma si riferisce soltanto a «la storia
primitiva in genere», mentre avremmo letto volentieri e con tanta utilità una
chiara riaffermazione sul peccato originale.
Ecco poi come nel primo art. di Sett. d.
Cl. è presentata la importantissima problematica attuale sulla storicità
dei Vangeli: «E' difficile oggi per il Sacerdote ordinario distinguere
fra ciò che si riferisce realmente a fatti avvenuti e ciò che è elaborazione
dell'Evangelista... In particolare sui Vangeli dell'Infanzia ci si chiede:
se la tradizione sinottica inizia con la vita pubblica di Gesù, che cosa
pensare del valore storico dei ricordi di ciò che la precede?... anche
sulla vita pubblica di Gesù: che cosa pensare della storicità dei detti e fatti
di Gesù? E' possibile una elaborazione evangelica delle parole di
Cristo che ne abbia mutato il senso?».
Ho sottolineato le parole che lasciano
perplessi e richiedono spiegazioni. L'elaborazione dell'Evangelista sembra
contrapposta, come sovrastruttura non storica, ai fatti avvenuti (come
infatti una certa esegesi progressista afferma). So bene che vi sono esegeti
che moltiplicano in tal senso gli esempi. Ma io nego che vi sia un solo caso
provato. Anzi una esegesi veramente critica sarà sempre più portata a negarlo
(14).
La tradizione sinottica inizierebbe
con la vita pubblica? E allora dove li mettiamo i primi due capitoli di S.
Matteo e di S. Luca? Non fanno parte della sinossi? Se si vuol parlare della predicazione
apostolica iniziale, allora sì, poteva essere ben naturale che partisse dai
fatti più recenti e notori. Ma tanto essi quanto i fatti dell'Infanzia venivano
tratti da ricordi e testimonianze ugualmente sicure, garantite ugualmente dalla
probità degli scrittori e dalla infallibile assistenza dello Spirito Santo.
Quanto ai ripetuti documenti del Magistero circa la verità dei «detti» e
«fatti» di Gesù (fino agli ultimi, ossia alla Intructio della P. C.
Biblica del 1964, n. 2 e alla Cost. conciliare Dei verbum del 1965, n.
19: deh. 901; cfr. 11: deh. 890) è chiaro che l'Infanzia vi rientra, con
importanza fondamentale.
In merito all'elaborazione
dell'evangelista e agli autentici fatti e alle autentiche parole
di Cristo, l'Ecc.mo autore risponde nel secondo articolo del medesimo settimanale,
opportunamente appellandosi ai suddetti due ultimi documenti del Magistero.
Sottolineo le espressioni che non eliminano però le perplessità, su un punto
tanto delicato.
«I vangeli... partendo dalla vita e
predicazione di Gesù, passano per la predicazione apostolica
[salvo probabilmente, quanto alla primitiva predicazione, per il racconto
dell'Infanzia, non meno però accuratamente attinto da sicure testimonianze:
cfr. Lc 1, 3] e sono messi in iscritto secondo i diversi punti di vista dei
singoli autori».
Purtroppo quell'indeterminato «passano» e
soprattutto quella generica espressione «diversi punti di vista» possono
indurre a temere chi sa quale contributo personale dell'agiografo nella
narrazione evangelica, capace di porre un invalicabile diaframma tra il Vangelo
e i veri «detti» e «fatti» di Gesù.
E' inutile aggiungere, per tranquillizzare,
come fanno tanti esegeti, che anche le elaborazioni didascaliche e teologiche
degli agiografi sarebbero state assistite dallo Spirito S. e sarebbero quindi infallibilmente
vere. Resterebbe il falso di presentare tali fatti e detti come
direttamente e storicamente compiuti e pronunziati da Gesù. Ciò, mentre da un
lato ripugna alla infallibile verità dello Spirito Santo, dall'altro minerebbe
la sicurezza storica di base della verità di Cristo e della conseguente
infallibile assistenza dello Spirito S. Questa infatti non può essere
logicamente affermata prima della documentazione evangelica, la cui sicurezza è
condizionata alla piena obiettività della narrazione; e questa a sua volta è
caratterizzata dalla obiettività delle concrete e circostanziate affermazioni.
Molto più precisi sono i due supremi
documenti del Magistero opportunamente citati. Nella Istruzione si parla
solo ripetutamente di «variis dicendi modis» e si enumerano soltanto
questi tipi di elaborazione, del resto ovvi, da parte degli evangelisti e dei
primi predicatori: «seligentes», «synthesim», «explanantes», «alio contextu»,
«diverso ordine», «non ad litteram, sensu tamen retento», «variis condicionibus
fidelium et fini a se intento accommodata [scelta di ciò che era adatto]».
Nella Costituzione conciliare poi figurano solo le espressioni:
«seligentes», «synthesim», «explanantes», «formam praeconii», insieme alla
ribadita condizione che «semper ut vera et sincera de Iesu
[tutto, dunque anche l'Infanzia)... communicarent».
Solo così possono ammettersi quei «diversi
punti di vista» dell'articolo. Solo così la storicità obiettiva è salva e il
Vangelo è sicuro, secondo la logica, la critica imparziale, la fede.
Nell'articolo sono esposte poi varie
conseguenze, che meritano riflessione.
«Nei Vangeli hanno fondamentale valore storico
principalmente i fatti della vita pubblica, della passione, morte e
risurrezione di Gesù, di cui gli Apostoli furono diretti testimoni e che
essi ripeterono nella predicazione. I fatti della vita nascosta, pur
essendo anch'essi basati certamente su alcune tradizioni, sono
più aperti alla elaborazione teologica dell'evangelista, non avendo
avuto nel kerygma una forma fissa di trasmissione». - Ora, v'è innanzi
tutto da notare che il principio della ispirazione biblica e i documenti del
Magistero che hanno ribadito, come fa la suddetta Costituzione conciliare, che i
Vangeli riportano «vera e sincera de Iesu», non fanno alcuna
distinzione tra vita pubblica e vita nascosta. Noi, quindi, come possiamo
farla?
Non è d'altra parte criticamente ragionevole
il farla. E' chiaro che gli Apostoli non poterono essere testimoni diretti
della storia dell'Infanzia di Gesù; ma vi era per lo meno il testimone più
autorevole di tutti, la Madonna. Comunque gli evangelisti (che non furono tutti
Apostoli) furono identicamente assistiti dall'infallibile Spirito Santo
ad attingere alle sicure testimonianze dirette degli Apostoli e a quelle di
altri testimoni sicuri (cfr. Luca 1, 3). La stessissima infallibilità si
estende quindi per tutto l'arco della vita del Signore, a cominciare
dall'Annunciazione sua e del Precursore.
L'unica elaborazione teologica
ammissibile è quella che poté fare meglio ordinare, sintetizzare, spiegare
(come, per es., nei richiami alle profezie o nei brevi commenti personali,
chiaramente indicati nel quarto Vangelo). Presentare invece come diretti fatti
e detti di Gesù quelli che direttamente non lo furono, costituirebbe non
una elaborazione, ma semplicemente un inganno; e quando si tratta dei fatti e
detti di un Dio, che sono alla base di tutto, l'inganno sarebbe gravissimo.
Non si vede poi che importanza avrebbe, a
garanzia della autenticità e obiettività della narrazione, la concretizzazione
in una forma fissa di trasmissione, quale avrebbe avuta la primitiva
predicazione, a differenza della storia dell'infanzia. Se si trattasse infatti
di una elaborazione di puro peso storico umano resterebbe da chiedersi se tale forma
si fosse fissata o no nella verità; trattandosi invece di
infallibile assistenza divina, nella scelta delle autentiche testimonianze, sia
quella, sia la storia della infanzia e della vita nascosta debbono ritenersi
identicamente certe.
Anche per la vita pubblica si afferma poi:
«In alcuni elementi appare già la interpretazione ispirata e la
spiegazione che la Chiesa dava di essi... Tali elementi, pur non appartenendo
alla storia cronistica, non si possono dire inventati, ma sono
anch'essi vera storia, nel senso modernamente inteso di penetrazione della
sostanza dei fatti del passato». Tali elementi «risalterebbero da un
esame minuzioso». - Il guaio è che tale «senso modernamente inteso della
storia» non lo era per niente in quei tempi, dove era caratteristica anzi,
specialmente presso gli Ebrei, secondo la mentalità orientale, la concretezza
narrativa dei fatti esteriori e dei dialoghi. Gli agiografi quindi che avessero
attribuito direttamente a Gesù fatti e pensieri derivanti invece da
elaborazione teologica o da artificio didascalico, senza farlo in qualche modo
comprendere, o avevano la coscienza d'ingannare o erano stati ingannati: in
entrambe le ipotesi non dicevano la verità, il che ripugna all'infallibile
ispirazione. Gli esegeti che rifiutano questa conseguenza o dimenticano il
fatto dell'ispirazione o equivocano sul concetto di verità storica evangelica.
Questa - ripeto - non riguarda la verità del pensiero, come può essere vero
anche il pensiero di un moderno e ortodosso trattato di teologia (aggiunta
solo, per i Vangeli, la infallibilità), ma riguarda la verità della narrazione
in quanto tale, in cui la concreta attribuzione di atti e parole a chi li ha
veramente compiuti è essenziale, tanto più quando si tratta della divina
persona di Gesù.
E' vero che la stesura dei quattro libri
s'inserisce nella nascita e crescita della comunità ecclesiale sostenuta dallo
Spirito Santo. Ma mentre tale divina assistenza nella comunità ecclesiale ha
operato in vista della integra trasmissione della rivelazione, negli
agiografi ha operato invece in vista della fedele narrazione dei fatti che
sono all'origine della rivelazione e ne costituiscono il fondamento.
Mescolare le due fasi sarebbe illogica confusione.
Quanto all'«esame minuzioso» che nei singoli
casi permetterebbe la scoperta, nel quadro della esteriore narrazione, dei profondi
elementi d'«interpretazione», ne ho dato più volte dei ben significativi
esempi. Sul cavallo apparente della sottigliezza si galoppa, in realtà,
troppo spesso nel mondo della superficialità e della fantasia.
VECCHIA
E NUOVA ESEGESI
Il ch.mo scrittore, nel primo articolo sopra
citato, non aveva mancato anche di addurre, contro quella che chiama «la
vecchia esegesi» sempre in cerca della «precisa concordia» tra i quattro
Vangeli, il secolare accavallarsi di «soluzioni varie che lasciano più o meno
insoddisfatti» e che per ciò stesso «invitano a tentare nuove vie». Egli cita, per
es., le genealogie, i ciechi di Gerico, gli angeli della risurrezione, ecc.
Ma che forse le «nuove vie» conducono a
soluzioni più sicure, univoche e soddisfacenti? Non ho mancato nei precedenti
capitoli di darne dei saggi.
Perché, d'altra parte, meravigliarsi se, per
concordare i testi, invece di una, vi sono più soluzioni? Anzi meglio.
Vi sono più strade di possibile concordanza.
Questa cioè con l'una o con l'altra si può ottenere benissimo. Che vogliamo di
più?
Resta l'insoddisfazione della
incertezza? Si parli piuttosto di punti oscuri, che non potevano mancare
in una quadruplice narrazione d'una storia così complessa, stesa in modo così
breve ed episodico. La difficoltà è cioè criticamente scontata, anche alla luce
della storiografia umana comune.
L'importanza è che la possibilità di
concordanza, anche se ipotetica, vi sia: e c'è. E le disparità che tanto
frequentemente richiedono tale lavoro di concordanza non fanno che confermare
l'autonomia d'impostazione e di ricerca dei singoli evangelisti, moltiplicando
la forza della loro complessiva testimonianza.
ALLA BASE DELLA FEDE:
VANGELI STORICI, GESU' STORICO
BULTMANN
E' appena credibile l'irragionevole
involuzione fideista del famoso manifesto del 1941 di R. Bultmann
sulla valutazione critica del kerygma, ossia della proclamazione della parola
di Dio. Eppure è difficile negare l'influsso più o meno aperto della sua
dottrina nell'esegesi moderna. Qualche riflessione in proposito, in
quest'ultimo capitolo - preso lo spunto da un articolo della Civiltà
Cattolica - chiuderà quindi opportunamente questa parte sul Dramma della
esegesi moderna.
Secondo il Bultmann «Cristo, il crocifisso e
risorto, c'incontra nella parola della predicazione... Sarebbe un errore...
fondare la fede nella Parola di Dio sulla ricerca storica... porre la
domanda di legittimazione [della parola di Dio]... essa stessa domanda a noi se
vogliamo credere o no».
P. Silverio Zedda S. J. ha chiaro e facile
gioco, in un denso articolo della Civiltà Cattolica (18 maggio 1968),
nel rivendicare la esigenza di assicurarsi prima che si tratti veramente della
Parola di Dio, che sia garantita cioè la sua verità storica, ossia la verità
storica di Gesù. Tale esigenza - afferma limpidamente P. Z. - costituisce una ovvia
riaffermazione del «valore della intelligenza umana nella ricerca di Dio e
nell'accostarsi a Cristo con la fede» (355).
STORICITA'
RIDIMENSIONATA
L'ultima parte dell'articolo però - ad
essere sinceri - non dà la stessa soddisfazione. Proseguendo sul filo della
logica la storicità di Gesù richiede la storicità dei Vangeli. Ma per il
distinto scrittore, che si fa eco di una ben nota corrente, questa storicità è
vera un poco sì e un poco no.
Ottima certo è l'idea di «procedere
cautamente tra due estremi». Ma guai a trovare un preteso giusto mezzo tra la
verità e l'errore, tra la solida critica ed idee preconcette: ciò specialmente
su un punto così delicato e tanto più con la parvenza di seguire il Vaticano
II. Vediamo un po' alcune interessanti argomentazioni.
Secondo il Concilio dunque «i Vangeli
trasmettono una predicazione orale, conservandone il carattere».
Certamente. E questa è la ragione per cui la
Tradizione ha, quanto al tempo e alla completezza, una precedenza sulla Scrittura
(contro la tesi protestantica della sola Scrittura). Questa è pure la ragione
del carattere frammentario, episodico e disparato (benché armonizzabile) delle
multiple narrazioni evangeliche.
Il Concilio ricorda inoltre che nella
predicazione gli Apostoli ebbero «quella più completa intelligenza di cui essi,
ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di
verità, godevano» (R 19: deh. 901): e ciò ovviamente si riflette sugli
«scritti». Certissimo anche questo.
Ma ecco ora una infondata deduzione. Secondo
l'illustre biblista ciò indurrebbe a negare ai Vangeli il genere di «pura fonte
storica», a negare cioè la piena obiettività di descrizione dei «detti» e
«fatti» del Signore (R, ivi).
La logica conseguenza apparisce invece
opposta, perché l'illuminazione dello «Spirito di verità» non può non aver
garantito sia i primi trasmettitori, sia gli scrittori evangelici
(selezionatori delle fonti), da ogni errore, sensibilizzandoli anche alla
estrema responsabilità di riportare i «fatti» e «detti» del divino
Redentore, così da non mescolare particolari fittizi a quelli veri e divini di
Gesù e da non presentare, senza farlo comprendere, le proprie interpretazioni,
anche se giustissime, come direttamente date da Gesù.
Ciò era imposto dal rispetto sia della
verità, sia della persona stessa di Gesù.
Tali scritti - si insiste - non sarebbero
comunque equiparabili a puri «documenti di archivio che presentano i fatti
nella loro spoglia realtà, con l'esattezza e la freddezza della
cronaca, senza un soffio d'interpretazione, di collegamento tra i
fatti».
Certo. I Vangeli, per l'epoca e per le loro
caratteristiche episodiche ed occasionali, non hanno la struttura tecnica
di moderni, completi «documenti di archivio». Ma ciò non può confondersi con
mancanza di piena obiettività di narrazione. Questa anzi si deve nei
Vangeli attendere, più che in qualsiasi cronaca umana (sia pur moderna e
tecnicamente perfetta), per la speciale garanzia dello «Spirito di verità».
Quanto alla scarna freddezza del
racconto, anziché mancare nei Vangeli, ne costituisce proprio una
caratteristica (preziosa conferma della loro obiettività), giacché le gesta più
drammatiche, dalla natività alla passione, vi sono narrate in sorprendente forma
semplice, spersonalizzata c dimessa.
E quanto al soffio d'interpretazione,
dovremo stare ben attenti a non confondere la comprensione dei «fatti» e
«detti», il loro eventuale riassunto pienamente obiettivo, con
l'interpretazione personale, sia pure esattissima, che gli agiografi si
sarebbero permessi di presentare come parole direttamente pronunciate da
Gesù. Questo sarebbe inammissibile offesa alla verità e mancanza di rispetto
alla persona stessa del Signore. In realtà quando gli agiografi parlano con
proprie riflessioni lo fanno capire (anche se qualche volta si può restare in
dubbio).
Nei Vangeli, proprio la mancanza di una
tecnica di cronaca moderna di documenti d'archivio, mentre da un lato non
infirma minimamente l'obiettività delle narrazioni di testimoni diretti o
quasi, dall'altro costituisce la più bella garanzia della spontaneità e
veridicità dei narratori.
IL
VATICANO II
P. Z., come era da attendersi, adduce ad
avallo della tesi della «non pura fonte storica» dei Vangeli il celebre testo
conciliare che esplicitamente dichiara: «Gli autori sacri scrissero i quattro
Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce
o anche in iscritto, alcune altre sintetizzando, altre spiegando con
riguardo alla situazione delle Chiese, conservandone infine il carattere di predicazione»
(R, ivi). Secondo P. Z. «questo modo di raccontare i fatti non si iscrive certo
tra i metodi con cui procede chi stila un documento d'archivio, che debba
servire di fonte per una storia a tendenza positivista».
D'accordo, ma solo quanto alla tecnica e
alla completezza di stile moderno per una cronaca di stile moderno, non quanto
alla piena obiettività di ciò che è narrato.
Nessuna delle caratteristiche metodologiche
dei Vangeli che il Concilio ha sottolineato - «scegliendo», «sintetizzando»,
«spiegando», «predicando» - può legittimamente intendersi come interpretazione
e integrazione personale, compiuta dal narratore, dei fatti e delle
parole di Gesù. E anche quanto alle illuminate spiegazioni eventualmente
date dagli agiografi non si può criticamente ammettere che essi le abbiano
potute presentare come direttamente pronunciate da Gesù. Sarebbe stato un
inganno su un fatto di estrema importanza quale la realtà dei discorsi
esplicitamente e direttamente risuonati sulle divine labbra. Un conto sono, per
es., le spiegazioni delle parabole date da Gesù e un altro conto le riflessioni
dell'agiografo, come quando cita le profezie realizzate o riferisce le
riflessioni dei discepoli, per es. dopo la prima cacciata dal tempio (Gv 2,
17), ecc.
Che gli agiografi effettivamente non abbiano
trascurato tali essenziali differenze è confermato dal proseguimento (omesso da
P. Z.) del suddetto testo conciliare: «sempre però in modo tale da riferire su Gesù
con sincerità e verità». Affermazione assoluta. Chiara preoccupazione del
Concilio di non fraintendere le caratteristiche enunciate.
Equivoca, in particolare, è quella ripulsa
di una «storia a tendenza positivista». Se questa tendenza s'intende come
materialista è ovvio che non si trova nei Vangeli. Ma quanto alla piena obiettività
della narrazione l'esigenza positivista s'identifica con l'esigenza del rigore
critico, pienamente reclamato dall'esegesi cattolica.
«NOSTRAE
SALUTIS CAUSA»
Contro la «pura fonte storica» vi sarebbe
poi «la ragione generale che vale per tutti i libri della Bibbia» e si
troverebbe in quest'altro celebre testo: «i libri della Scrittura insegnano con
certezza, fedelmente e senza errore la verità, che Dio per la nostra
salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere» (R 11: deh. 890).
Secondo P. Z. pertanto «domandare ai
Vangeli (e in genere alla Bibbia) un insegnamento certo, fedele e senza errore
circa altre cose che non siano la verità che ha ordine (è utile,
necessaria, indirizzata) alla nostra salvezza, è domandar loro quello
che non hanno voluto dire».
Pur trattandosi di un'affermazione sfumata
(essendo considerato, in modo molto estensivo, che potrebbe anche essere
indiretto, tutto ciò che ha «ordine alla nostra salvezza»), quelle parole che
ho sottolineato delineano un'interpretazione inammissibile di questo testo: nei
Vangeli cioè vi sarebbero cose erronee, al di fuori delle verità
attinenti alla nostra salvezza. Di tali cose infatti nel proseguimento
dell'articolo vengono date delle esemplificazioni. Si noti che non si pada di generi
letterari non storici (ammissibili prudentemente nell'Antico Testamento e
non nelle narrazioni evangeliche di «fatti» e «detti» del Signore, che si
appellano ad accurate ricerche e a testimonianze dirette o quasi: cfr. Lc 1, 3;
Gv 19, 35; 1 Gv 1, I), ma di errori.
Questa
interpretazione infatti, a parte il suo contrasto con il dogma della totale
ispirazione divina della Scrittura (che la rendono «ab omni affinino errore
immune»: Leone XIII, Enc. Provid., EB 127), toglierebbe ogni valore al
ben noto diretto intervento del S. Padre perché nel testo conciliare non si
padasse soltanto, quanto all'esclusione di ogni errore, di «verità salutari».
E si tornerebbe praticamente alla tesi, ripetutamente condannata dal magistero,
di una ispirazione divina limitata soltanto alle «res fidei morumque» (cfr.
Leone XIII, Enc. Provid., EB 124; Benedetto XV, Enc. Spir.
Par., EB 455; Pio XII, Enc. Div. affl. Sp., EB 539).
Il testo effettivamente si
riferisce a tutte le asserzioni della Scrittura (intese nel loro «genere
letterario») e quindi a tutto il contenuto, di cui si afferma la «verità».
Basta anche solo guardare alla prima proposizione con cui inizia questo
capoverso della Costituzione. Esso dice: «Tutto ciò [senza alcuna
eccezione], che gli autori ispirati o agiografi asseriscono, è da ritenersi
asserito dallo Spirito Santo». L'affermazione sulla verità
prosegue poi come conseguenza di ciò, con riferimento sempre a tutto,
secondo questo filo logico: «per conseguenza... i libri della Scrittura
insegnano [in tutto il loro contenuto] con certezza, fedelmente e senza
errore [essendo tutto asserito dallo Spirito Santo] la verità, che
Dio... volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere [non cioè tutto lo scibile,
ma solo quanto è contenuto nelle Scritture]».
Va aggiunto l'inciso: «per la nostra
salvezza». Ma esso non può contraddire all'affermazione totalitaria precedente,
bensì solo additare la finalità ultima ed essenziale di tutta la
Scrittura. Un conto è il contenuto (di cui è garantita la verità), un
conto la finalità di tale contenuto. Quando per es. è detto che Gesù
nacque a Betlemme e dimorò poi a Nazareth, tale notizia è data allo scopo di
inquadrare e garantire storicamente la persona di Gesù e ricordare i
riferimenti profetici, non di insegnare una pagina di geografia: il contenuto
della notizia è il fatto geografico, il fine è la precisazione storica del
Messia. E così di seguito.
Del resto il medesimo inciso si ritrova, al
medesimo scopo, nel testo parallelo, relativo strettamente ai Vangeli, dei
quali si afferma: «senza alcuna esitanza la storicità [senza alcuna riserva]».
Essi «trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra
gli uomini, per la loro eterna salvezza [scopo di tutta la sua attività]
effettivamente operò e insegnò»: trasmettono cioè i veri fatti e detti
del Signore (R 19: deh. 901). L'inciso evidentemente non delimita questi fatti
e detti, ma addita, di tutti, le finalità.
Quando pertanto P. Z, deduce che «domandare
ai Vangeli un insegnamento... senza errore, circa altre cose
non... ordinate alla nostra salvezza, è domandar loro quello che non banno
voluto dire», identifica arbitrariamente ciò che i Vangeli hanno voluto
dire (in sé anche fatti geografici, ecc.) con il loro fine ultimo (soltanto
salvifico); e non tiene abbastanza presente la dignità intrinseca di tutta la
parola scritturale, che, quale parola di Dio, non può mai essere contaminata
dall'errore.
Tuttavia la inesatta tesi stessa dello Z.
(comune a notevole parte della esegesi moderna), pienamente e coerentemente
sviluppata, finirebbe indirettamente per ricadere nella totale immunità
da errore. Basta che quell'ordine alle verità salutari si consideri non
soltanto immediatamente e direttamente, ma anche indirettamente. Ciò
risulterà chiaro da qualche ulteriore riflessione.
In base alla sua inesatta tesi lo Z. così
esemplifica (anche qui pongo dei sottolineati miei): «L'esattezza cronistica
dei particolari, per esempio della successione dei fatti geografica e
cronologica, si può certo esigere da una pura fonte storica, ma non dai
Vangeli, se non nella misura in cui consti che la verità voluta insegnare poggia
appunto sull'esattezza, sulla realtà oggettiva, di quei particolari. Almeno per
parecchi casi la scienza critica sembra dimostrare (o almeno dare come la
ipotesi migliore) che questa esattezza di realtà oggettiva non è il supposto
necessario, inteso dall'evangelista, per il suo insegnamento di verità che
hanno ordine alla salvezza».
Questo enunciato seguita, innanzitutto, a
identificare poco felicemente la «pura fonte storica» con una narrazione completa
ed ordinata, la quale certo nelle narrazioni saltuarie ed episodiche dei
Vangeli non si può trovare. In queste la piena storicità, ossia la piena
esclusione di errore, richiede invece solo che i detti e i fatti, con tutte le
circostanze positivamente affermate, siano vere. Così se è descritto il luogo e
il tempo di un evento (in tale luogo, dopo tanti giorni, ecc) essi debbono
essere veri. Niente invece impedisce che, senza affermare positivamente la
identità di tempo e di luogo, si accostino, per analogia e per sintesi, a
un evento positivamente presentato in un luogo e in un tempo, altri di cui non
si dicono luogo e tempo. Sarebbe erroneo invece se anche di questi altri positivamente
si affermasse tale luogo e tempo, mentre sono avvenuti altrove, e in altro
momento. Similmente, oltre le circostanze di luogo e di tempo debbono ritenersi
obiettive le altre circostanze concrete, positivamente affermate.
Ma, soprattutto, il problema è male impostato
perché implicitamente ed esplicitamente si riferisce a un «supposto necessario»
della verità salvifica soltanto intrinseco e diretto. Questo può quasi
sempre essere negato, per tutte le circostanze episodiche che sono accidentali,
da chi restringa la verità ispirata alla sola dottrina.
Vi è anche invece un «supposto necessario» indiretto,
che consiste nella garanzia della veridicità dei detti e dei fatti del
Signore, che solo può nascere dalla obiettività del narratore: obiettività il
cui sigillo caratteristico è dato - quando si tratta di testimoni diretti o
quasi - dalla realtà delle circostanze concrete affermate.
Un testimone e un narratore che su eventi
così grandiosi come quelli divini (e con intenti talora anche esplicitamente
professati di precisione: «ho investigato accuratamente ogni cosa», Lc 1, 3) si
permettesse tacitamente liberi abbellimenti e integrazioni, non avrebbe
più diritto alla fiducia critica del lettore sulla sostanza stessa della sua
narrazione, se non altro perché mai si potrebbe sapere quando finiscono gli
adornamenti e comincia la sostanza.
Qualche esegeta suol rispondere che questa
libertà dell'agiografo deve essere necessariamente ammessa per superare le
difficoltà di interpretazione e di concordanza di alcuni passi. Ma io sfido a
citarmi nei Vangeli una sola di tali difficoltà veramente insuperabile:
non c'è. E non ci può essere.
QUESTIONI
DI BUON SENSO
Tornando all'articolo che sto considerando,
non potevo anche non attendermi e infatti ho trovato, il solito alibi che non
manca nemmeno nelle esegesi anche ben più disgregatrici della piena verità
storica dei Vangeli. Si afferma cioè che questa storicità ridimensionata,
anziché menomare, tornerebbe a vantaggio della ricchezza del messaggio
evangelico. Dice P. Z.: «Il Gesù storico di alcuni moderni scrittori,
che vogliono dare... come degli altri personaggi... un ritratto di Gesù
psicologico storico, con tutti i particolari di cronologia e di geografia ecc.,
rischia di nascondere il... Cristo Figlio di Dio... che è quello che gli
evangelisti soprattutto ci vogliono dare».
Certo una descrizione soltanto naturalistica
di Gesù come di ogni altro uomo ne distruggerebbe la suprema grandezza.
Ma ciò non ha niente a che vedere con le
accurate precisazioni di modo, tempo, luogo, ecc., quali si possono avere
dall'esame critico dei testi, perché esse non servono che a garantire la
storicità di Gesù, senza la quale la sua divina grandezza si dissolverebbe nel
sogno.
E' una riflessione di semplice buon senso.
Vorrei concludere rilevando che nelle ottime
intenzioni di tale esegesi questa ridotta nozione di storicità dei Vangeli
dovrebbe costituire anche un modo per andare incontro alle obiezioni degli
avversari.
Ma a quali avversari si pensa: logici o illogici?
Non sarebbe certo raccomandabile di subordinare la nostra linea critica a
pretese illogiche.
Se si tratta pertanto di avversari logici,
questa presentazione della storicità non potrà invece che allontanarli (15).