Romano Amerio: LA DISLOCAZIONE della funzione magisteriale nella TEOLOGIA dopo il CONCILIO VATICANO II
Papa Francesco:
Romano Amerio:
"L’uomo si salva senza la Grazia, senza il battesimo, per virtù delle sue opere di uomo religioso, buono, pio, giusto, si entra nel sistema pelagiano. E il sistema pelagiano meriterebbe molta attenzione dai teologi moderni perché il mondo tutto pelagianizza".
Romano Amerio
Dovendo dare un contributo al Convegno Teologico di si sì no no, vorrei sviluppare
questo principio: la crisi della Chiesa cattolica è una crisi di dislocazione
dell’autorità magisteriale che, dall’autorità del Magistero universale, passa
all'autorità dei teologi. Dislocazione che fu subito avvertita perché, negli
anni appena a ridosso del Concilio, ci fu una viva reazione. Ma la gran massa
dei teologi, in questi sei ultimi lustri, è riuscita a realizzare la
rivendicazione che essi allora si proponevano di compiere: che, cioè, i teologi
stessi fossero riconosciuti come partecipi dell’officio didattico della
Chiesa; io ho tra le mie carte molti ritagli, molte prove, che la cosa era
sentita come un pericolo.
***
La dislocazione dell’autorità di cui vogliamo parlare è uno dei movimenti
di ispirazione razionalista, umanistica e naturalistica più imponenti e radicati.
Il suo gran principio è: le verità di fede sono partorite dal lavoro dell’intelletto
umano.
Nella dottrina tradizionale, la fede è un superamento della ragione; secondo
la dottrina della Chiesa cattolica, per credere bisogna uscire fuori della
ragione, andare sopra la ragione essendo, quello che è sopra la ragione, a lei
estrinseco. Che sia fuori non vuol dire che ne sia l’opposto: vuol dire invece
che ne è un completamento, un sussidio, e proprio per questo ne è fuori.
Secondo la dottrina moderna, invece, la fede è una forma della ragione, cioè è
qualcosa a lei intrinseco. Questo vuol dire che per credere non occorre uscire
dalla ragione.
La funzione del Magistero della Chiesa è di inculcare nello spirito dei
fedeli le persuasioni soprannaturali: apprendere, attaccare, far aderire. La
parola «insegnare» vuol dire «fare in maniera che uno sappia quello che non
sapeva». Inoltre, la funzione del Magistero è anche apologetica, perché il
maestro deve difendere quello che insegna. E lo deve difendere addu- cendo sia
motivi offerti dall’autorità biblica, motivi quindi di ordine soprannaturale,
che motivi di ragione naturale. Per terzo, insegnare una cosa vuol dire anche
farla «ritenere» alle menti a cui la si è insegnata, perché il maestro deve
vegliare che il proprio insegnamento non vada né perduto né modificato.
Essenza del Magistero
A testimonianza della consapevolezza che, al tempo del Concilio, la virtù
didattica qui ricordata si stava diluendo nella vacuità, si può ricordare
quella dichiarazione venuta dall’auto- rità del cardinale Heenan, Primate della
Chiesa d’Inghilterra, che in una della prime sessioni del Concilio cosi si
esprimeva: «Oggi, nella Chiesa, non c'è più l'insegnamento dei
Vescovi: essi non sono più un punto di riferimento nella Chiesa. Il solo punto
in cui ancora si attua la funzione magisteriale della Chiesa è il Sommo
Pontefice». Cioè, dove nessuno più insegna tutti insegnano; e
dove non c’è più verità insegnata è insegnatala moltitudine déF le opinioni.
Ma quella- dichiarazione del Primate d’Inghilterra, a trent’anni di
distanza, suona ottimistica, perché oggi neanche nel Pontificato si esercita,
più la funzione magisteriale. Se, come abbiamo visto, il Magistero è la manifestazione
della Parola divina depositata nella Chiesa, che la Chiesa ha per officio il
dovere di insegnare, di predicare, questa manifestazione della Parola divina
nell’attuale Pontificato viene a mancare, o perlomeno, a declinare: non avrei
scritto 57 chiose sul documento Tertio Millennio Adve niente se il Santo Padre avesse sempre insegnato e manifestato la Parola divina
che è, essa sì, il vero «Magistero vivente» nella Chiesa, e non avesse invece
manifestato del suo, esprimendosi in una maniera non direttamente e nettamente
manifestativa della verità. Invece, ho fatto quelle chiose proprio perché anche
il Santo Padre, nell’esercizio del suo magistero, non presta l’aiuto che i
fedeli si aspettano dal Sommo Magistero: parla, ma non manifesta quello che
gli toccherebbe manifestare. Perché, bisogna pur dirlo, anche nei documenti più
impegnativi non ogni parola del Papa è più Magistero, ma oramai spessissimo è
solo espressióne delle vedute, dei pensamenti, delle considerazioni diffuse
presentemente nella Chiesa: qui voglio dire precisamente che anche il Papa
riflette nelle sue allocuzioni tutto un sistema di pensiero che è il sistema di
pensiero di cui l’uomo oggi si compiace.
Una dottrina privata è l’elaborazione
propria dell’individuo, ma qui non si tratta di questo: si tratta di dottrine
che si sono diffuse e che sono divenute dominanti in gran parte della teologia.
Dalla Tertio Millennio: «Cristo è il compimento
dell'anelito di tutte le religioni del mondo e, per ciò stesso, ne è l'unico e
definitivo approdo»; ancora: «[non va trascurato] rincontro ecumenico con quelle antichissime forme di religiosità
significativamente caratterizzate da un orientamento mono- teistico»; e ancora: «nel dialogo interreligioso
dovranno avere un posto preminente ebrei e musulmani»; dalla Ut unum sint
«L'infallibilità del Papa è una verità irrenunciabile della Chiesa. Però si
dovrà trovare un modo nuovo di interpretarla ».
Quindi, anche le manifestazioni didattiche del Papa hanno assunto una
caratteristica aliena dalla funzione magisteriale suprema. Quando il Papa non
manifesta la Parola divina che gli è affidata e che ha l’obbligo di manifestare,
esprime le sue vedute personali ' nel senso che abbiamo chiarificato sopra.
***
Quindi, quella cui ci troviamo davanti è la manifestazione della decadenza
del Magistero ordinario della Chiesa. Il Papa deve custodire e manifestare il
Deposito della fede, la Rivelazione divina, ma la manifesta solo pallidamente.
Nel momento in cui il Papa desiste dal compiere questo suo primario dovere
si apre una gravissima crisi della Chiesa, perché è il punto centrale della Chiesa
a soffrirne. Ma non c’è nessun organo di correzione superiore al Pontefice:
infatti, il Primato del Pontefice romano è uno dei dogmi fondamentali, si può
dire, della Chiesa.
Nel 1969 alcune parti allemanne sostennero, persino in faccia al Legato pontificio
Cardinal Testa, che fosse il Concilio dei Vescovi ad assumere la facoltà, nei
momenti di grave crisi della Sede Apostolica, di correggere il Pontefice o,
estremamente, di deporlo. Ma questa dottrina includeva un grave errore, che è
la negazione del Primato e quindi dell’infallibilità.
D’altra parte il Pontefice è infallibile quando parla ex cattedra e, cioè,
quando dice delle cose con l’autorità vicaria di maestro infallibile.
Negli ultimi trent’anni centinaia e centinaia di Vescovi, di Superiori religiosi
dei più diversi Ordini, di prelati di Curia e, in ultimo, il Sommo Pontefice,
hanno progressivamente indebolito questo fondamento dottrinale che dissolve la
fede e la sua radice soprannaturale in una miriade di opinioni private e
personali. La ragione ; sta nel fatto che, il principio del Pontificato
romano essendo il vero principio della Chiesa, se il Papa desiste, desiste la
Chiesa e, se si abbatte il Papa, si abbatte la Chiesa. Il principio
delfautorità della Chiesa è proprio uno solo: il Sommo Pontefice, il Vicario
di Cristo che, da Cristo, ha ricevuto il mandato di confermare nella fede
tutti i fratelli. «Confermare» vuol dire «rendere forte», «rendere fermo».
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Nella crisi del Concilio ha una parte rilevante quel tentativo fatto di
spartire tra il Papa e i Vescovi il Magistero infallibile. Nel suo complesso,
il movimento antipapale è riuscito, nonostante la Nota praevia, perché questo spirito
antipapale, antiromano, anti- autoritativo, oggi è ben diffuso. Anche i
cristiani sono convinti che l’infallibilità si debba interpretare in un modo
nuovo. D’altra parte, lo stesso pontefice Giovanni Paolo II fa delle dichiarazioni,
come abbiamo visto, antipapali: «Ascolto la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di
esercizio del Primato — egli scrive nella Ut unum sint, al §95 — che, pur non rinunciando in alcun modo all'essenziale della sua
missione, si apra a una situazione nuova». Che è come dire: È irrenunciabile, ma non è irrenunciabile. E un principio
assoluto, ma non è un principio assoluto. L’infallibilità del Papa è una rupe
immota, «però»... Quando dici «però» hai già operato il cedimento. Il nuovo
modo darà un’alterazione della verità che viene definita irremovibile.
Difatti serpeggiano già proposte di teologi luterani, appoggiati da teologi
cattolici, che dicono che i protestanti potrebbero ammettere l’infallibilità
concedendo che rimanga come consuetudine e credenza peculiare solo alla Chiesa
romana. E il Santo Padre, con quelle parole che abbiamo citato, sembra che
acceda a quell’idea. Per cui si renderebbe disponibile a circoscrivere
l’infallibilità in modo tale che, non essendo più universale, non sarebbe
neanche più un domma di fede. Senza dire che sarebbe rotta la natura della
Chiesa, perché se alcune diocesi credono e altre miscredono, è la natura che viene
compromessa. La Chiesa e la fede sono una, mentre così la fede e la Chiesa
sarebbero altra a Roma e altra a Berlino.
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Negli ultimi trentanni questa supremazia pontificia ha ricevuto dei colpi
più sordidi ancora di quelli ricevuti durante il Concilio. Infatti questa
grave ferita al sommo del Santuario divino è solo mascherata dal fatto che
l’autorità morale del Pontefice è oggi nel mondo cresciuta. Ma è un accrescimento,
quello a cui assistiamo, che non ha nessun significato religioso, non ha nessuna
forma soprannaturale: il Papa è riverito come esponente dell’ idea umanitaria
che deve costituire il fondamento del mondo futuro, quell’
idea umanitaria condannata con tanta forza nel Sillabo, nelle proposizioni LV: «Si deve separare la Chiesa dallo Stato; e lo Stato dalla Chiesa »; LXXVII: «Ai tempi nostri non
giova più tenere la religione cattolica per unica religione di Stato, escluso
qualunque altro culto»; e LXXX: «Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la
moderna civiltà venire a patti e conciliazione».
Il Santo Padre invece sembra che assecondi quest’idea perché parla sempre
di un «nuovo mondo», di un mondo retto dalla giustizia, di un mondo in cui i
popoli si amano e si riveriscono nelle loro distinte e buone tradizioni, di un
mondo fraterno e pacifico dove regna la pace e il benessere su tutti i popoli.
Ma, davanti ai capi delle Nazioni, il Santo Padre non parla mai dell’autorità
del Cristo nel suo rappresentante sulla terra, non parla mai di Cristo Re, mai.
Il discorso pronunciato all’ONU è un discorso tutto umanitario; soltanto in
qualche luogo si accenna per o- bliquo al Cristo, ma sono accenni, per così
dire, di forma, di complimento: il discorso è imbevuto e fa imbibere di
umanitarismo perché il suo fine è umanitario.
Il Santo Padre parla poi di «nuova evangelizzazione», ma questa «nuova
evangelizzazione» o è il ripetere il Buon Annuncio oppure è annunziare una
qualche novità. La novità è nell’ annunzio umanitario, che prescinde dall’idea
religiosa cattolica a cui invece si riferisce l’autorità della Lettera di San
Paolo agli Efesini (Ef. 2,4°): «Una sola fede, un solo battesimo». La novità sanziona invece la religiosità umana per cui tutte le religioni
meritano rispetto e tutte le religioni concorrono al bene dell’umanità. Ma se
la nostra religione si diluisce nel sentimento religioso universale è una
religione che non c’è; la nostra religione, se non è un primum, non è niente e,
se non è la luce, è nigrificata.
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Il solo conflitto con il mondo è sui punti di morale, come
l’indissolubilità matrimoniale, come l’aborto, come le Tavole della legge
morale in genere. Il Santo Padre, su questi punti, ha perseverato sulle
posizioni doverose per lui, ma in tutte le altre, cioè nelle posizioni
dogmatiche, il dissolviménto della Dottrina nelle sue proprie opinioni è, come
abbiamo sopra visto, crescente.
I successi del Santo Padre nel mondo sono difatti grandiosi: si muovono
migliaia di giornalisti, ci sono incontri con i Grandi della terra; il Papa,
poi, partecipa a pari alle riunioni ecumeniche. E tutto questo è importante,
perché, così facendo, Giovanni Paolo II ha occupato il mondo: il mondo è oggi
imbevuto delle sue idee sull’ecu- menismo, sulla bontà indistinta, intrinseca
e pareggiata di tutte le religioni che tutte ex sese portano al Cristo,
sul bisogno dei popoli di affratellarsi rimanendo nelle proprie specie
tradizionali e nelle proprie convinzioni culturali, e via dicendo. Il Santo
Padre è entusiasticamente accolto, ma non perché è il Pontefice Romano, ma
perché è riguardato come il sommo esponente di questa generale mentalità
«buona» del nostro mondo.
Il Papa manifesta la sua specialità, la sua peculiarità di «sommo», solo
sui punti spinosi, i punti della morale che il mondo nega. Che nega però senza
rendersi conto e senza che alcuno gli ricordi che la negazione dei punti morali
include la negazione dei punti dogmatici, perché la legge morale è la
manifestazione del Verbo, cioè della Ragione divina, la quale Ragione divina
si è incarnata e si chiama Cristo. La legge morale rimette direttamente al
Verbo. Quindi la negazione della legge morale è una negazione implicita, ma
non meno reale, del Verbo. H principio della Chiesa e il principio di tutto si
chiama Cristo, che è il Verbo incarnato, che è la Ragione divina, che esprime
la morale naturale. La legge morale è una legge razionale ed è l’espressione
della Ragione divina: è sommamente ragionevole la legge morale.
Il principio autoritativo del Sommo Pontefice è tale in quanto la sua parola è vicaria della Parola
divina, esprime la legge morale assecondando l’Incarnazione del Verbo.
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Le verità che tentennano nei discorsi e nelle Lettere Encicliche di
Giovanni Paolo II, sono verità centrali. Sopra tutte le quali verità vi è la
verità fondante del Cristianesimo: che, cioè, Dio si è rivelato hic et nunc,
qui e non là, ora e non prima. Questa verità primigenia oggi è dubitata, come
abbiamo letto nella Lettera Tertio Millenio Adveniente: in quei paragrafi si sviluppa la dottrina nella quale si afferma che «il cristianesimo è la risposta all'anelito che sale da tutte le
religioni: dal buddismo, dall’induismo, dall'islamismo». Ma il Cristianesimo non è una risposta a queste religioni («... di dei — diceva la regina
Ester — che neppure esistono», Es 17k), perché il Cristianesimo è la Parola divina rivelata soltanto al
popolo eletto, in un certo tempo, in un certo luogo, come ben canta il Salmo
147,20: «Non fecit taliter omni nationi».
Di potenza assoluta, Dio può salvare senza battesimo qualunque uomo; ma
di potenza ordinata no, perché la salvezza senza il battesimo non è il sistema,
non è nell’economia pensata e voluta da Dio. La salvazione di uomini senza
battesimo è eccezionale, è extrasistematica, perché non appartiene al sistema
che si impernia sul Cristo e sulla trinitarietà stessa di Dio. Ma, quando si
dice: L’uomo si salva senza la Grazia, senza il battesimo, per virtù delle sue
opere di uomo religioso, buono, pio, giusto, si entra nel sistema pelagiano. E
il sistema pelagiano meriterebbe molta attenzione dai teologi moderni perché
il mondo tutto pelagianizza.
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Nella stretta della sintesi, il decadimento autoritativo dall’autorità del
Magistero episcopale all’autorità dei teologi si impernia su una realtà individua,
che è lo sviluppo che il Papa dà alle proprie opinioni private a detrimento della dottrina
universale, della
Tradizione. Ma c’è, oltre a questa che affligge l’apice, una seconda
realtà, più universale, più impalpabile, che si invera nella desistenza del
Magistero episcopale, in tutto il mondo rattratto davanti alla prepotenza
dell’ opinione teologica più disparata, varia e «ricca». Opinione disparata
perché si dice disparato ciò che differisce per qualcosa di essenziale. Varia
perché si dice vario ciò che differisce per qualcosa di accidentale. Due cose
dispari sono due cose di genere diverso; due cose varie sono due cose che
possono appartenere allo stesso genere. Così anche nelle opinioni teologiche
che pullulano in questi ultimi trent’anni nel mondo cattolico postconciliare:
esse divergono dalla Dottrina una e santa e perché quando sono dello stesso
genere si distanziano negli accidenti e perché il più delle volte non sono
nemmeno dello stesso genere della Dottrina; cioè non hanno quella medesima
radice soprannaturale che fa della Dottrina cattolica un unicum . Per terzo, poi,
opinioni teologiche, dicevo, «ricche»:- nel senso che i teologi stessi parlano
di «ricchezza» di pensiero teologico quando ad esso concorrono tante mentalità
e non soltanto la mentalità della fede nostra, ma anche la mentalità delle
fedi straniere: la protestante, l’ebraica, la buddista, l’islamica,
l’animista.
Convergendo gli sguardi in questo tripode
di opinioni varie, disparate e «ricche», in un certo senso si può dire che oggi
la Dottrina della fede non è più una: l’unità della Chiesa dovrebbe essere
essenzialmente un’unità teoretica, dottrinale, perché si tratta di cose
dell’intelletto, si tratta della teoresi: non è mica un’unità di stemmi o di vesti. Del resto, il Santo Padre sostiene che c’è un’unità morale nelle
varie religioni, tutte ordinate alla salvezza, per cui tutte le religioni é le
culture sono «idealmente» l’uno, sen: za che ci sia un’unità
dottrinale, confessando cioè che sono dottrinalmente disparate: nel dettaglio
teoretico si trovano le differenze.
L’Unità di fede: ognuno di noi deve avere la certezza a priori di pensare che tutto
ciò che pensano gli altri cristiani del mondo, e che in tutti i secoli hanno
pensato, è identico al proprio creduto. Io devo essere certo a priori di credere tutto ciò
che crede un altro cristiano senza andare a verificare ciò che quest’altro
cristiano professa. Nel mio Iota unum, parlando di
infallibilità, ho anche detto che ogni cristiano, quando enunzia una verità di
fede, è infallibile. Per esempio: il Santo Padre ha enunciato infallibilmente
che la Vergine Maria è esente dal peccato originale; ebbene, quando io dico che
la Vergine è esente dal peccato originale, cioè quando ripeto il pronunciato
del Sommo Pontefice, sono infallibile, non posso dubitare di sbagliare.
Questa dottrina evidenzia la univocità della Dottrina della fede: «univocità»
perché tante voci, milioni di voci, di miriadi di uomini, professano e sempre
hanno professato l’unica Dottrina che è il Verbo generato dalla Mente del
Padre («Dio nessuno lo ha visto. Solo il
Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, egli lo ha conosciuto» Gv. 1,18). La fede, per natura una e univoca, oggi è invece la Tède dei
carismatici, che non è quella dei neo- catecumenali, che non è quella del
cardinale Ratzinger, che non è quella del cardinale Martini, che non è quella
del Papa. E ciascuno va alla radio, alla televisione, e scrive sulle riviste e
sui libri e rende testimonianza alla sua «particolare» fede. Tutte queste testimonianze,
tutte queste manifestazioni di fede, hanno in comune tra loro il fatto che
tutte hanno una certa attinenza con la fede cattolica: sono opinioni intorno ala
fede cattolica e ‘dissenzienti dalla fede cattolica. Possiamo ancora dire che
questi teologi sono cattolici? E San Tommaso d’ Aquino ci porterebbe a
concludere con grandissima e dovuta preoccupazione: «E eresia sostenere opinioni sbagliate su argomenti di fede,
specialmente se vi si unisce la pertinacia» (S. Th. I, q.32,a.4).
***
A trent’anni di distanza è possibile accertare quanto il movimento, sia
perfettamente riuscito poiché il popolo cristiano oggi crede gli articoli di
fede secondo la maniera divulgata da questi teologi.
Com’è segnalato anche sul mio ultimo Zibaldone, io ho almanaccato
una serie di dogmi di fede che non vengono più creduti dal popolo cristiano proprio
perché rifiutati dalla teologia moderna, per cui oggi non si credono più i
dogmi di fede secondo la formula ni- cena: che cosa crede oggi il popolo
cristiano dell’Inferno? Crede quello che vanno dispuntando i teologi sull’ Avvenire o che caldeggiano le
trasmissioni imponenti di Radio Maria: che l’Inferno non c’è, che se c’è è una forma di castigo, che va
attenuandosi, che forse nemmeno Giuda è dannato perché forse, nell’ultimo
punto vitale, l’ animo di lui si è pentito, che quindi probabilmente l’Inferno
è vuoto, ma San Gregorio Magno, in una sua omelia, dava per certissima la
dimora nellTnferno di Erode Agrippa (At. 12,23): «In quel medesimo istante, un angelo del Signore lo percosse, perché non aveva dato a Dio la gloria;
e mori roso dai vermi».
Che cosa credono i cristiani oggi circa il Genesi? Credono che quello è un
racconto simbolico; tutti i cristiani oggi su questo punto sono d’accordo,
annientando una sentenza della Pontificia Commissione Biblica del 1906 che
confermava autorevolmente il carattere storico del sacro racconto del
Pentateuco. Che cosa pensano oggi i cristiani dell’Eucaristia? Che l’Eucaristia
non è la presenza reale del popolo cristiano: sì, perché il sillogismo neo-
terico è costruito su queste somiglianze: l’Eucaristia è il sacramento in cui è
presente il Signore, ma il Signore che è presente è misticamente lo stesso popolo
cristiano, quindi il popolo cristiano è presente nell’Eucaristia; la veduta
comune oggi ammette sì l’Eucaristia come il sacramento in cui è presente il
Signore, ma il Signore che è presente è lo stesso popolo cristiano.
Che cosa credono oggi i cristiani circa la predestinazione? Bisogna qui
segnalare la disformazione completa del concetto di predestinazione, perché i
teologi moderni che ancora ne parlano, la intendono come previsione delle cose
nell’uomo, non come la determinazione delle cose nell’uomo da parte di Dio.
Ora, questa, è una falsificazione importante, perché la predestinazione,
costituendo la parte che Dio ha nel disegno di salvezza eterna degli uomini,
dal battesimo alla gloria, concerne il nostro fine ultimo, e il nostro fine
ultimo è la cosa più importante che riguardi l’uomo. Se falsifichiamo il fine
dell’uomo, cosa rimane mai dell’uomo?
È dunque confermato che la pratica avviata dopo il Concilio si è imposta
rovesciando le opinioni generali della cristianità. Dopo trent’anni, non si può
che riconoscere che questa tendenza sia riuscita.
La fede cattolica è frantumata in mille opinioni sui Novissimi,in mille Opinioni sulla verginità di Maria, in mille opinioni sulla presenza reale nell’
Eucaristia, sui sacramenti, sulla Chiesa, sul Primato petrino, e persino sulla
Trinità. Non c’è articolo del Credo, del Simbolo della fede che ogni domenica
si professa alla Messa, che non sia ferito da opinioni e opinioni professate a
dispetto e contro la fermezza assoluta dei suoi articoli. Il cristiano quindi
perde la fede perché perde l’unità: non c’è una fede che non sia^ s
una. Questa dispersione nelle opinioni significa la dissoluzione della fede.
***
Nella Summa, la dispersione dell' uno nel molteplice, in quanto alla verità, è ben individuata e riconosciuta: «La prima verità è oggetto dell’incredulità come punto dal quale essa si allontana;
mentre la falsa idea che viene abbracciata ne è l’oggetto formale, come termine
verso cui si volge: e da questo lato le sue specie sono molteplici. Perciò come
unica è la carità che a- derisce al sommo bene, mentre molteplici sono i vizi
opposti alla carità, che se ne allontanano, sia volgendosi verso i beni
temporali, sia per i diversi rapporti disordinati verso Dio; così anche la fede
è un ’unica virtù, per il fatto che aderisce all’unica verità; ma le specie
dell’incredulità sono molteplici, per il fatto che gli increduli seguono
diverse false opinioni» (S. Th. II-II, q. 10, a.5, ad.l).
Soltanto che, oggi, quelli che negano gli articoli di fede professati la
domenica mattina, non lo confessano più, non lo dicono più: ieri c’erano gli ariani,
i donatisti, i sabelliani; poi c’erano i luterani, i calvinisti, i valdesi.
Oggi gli eretici rimangono . cattolici come i cattolici, perché non c’è piu'to
spavento della contraddizione, il pudore della distinzione delle cose cattoliche
dalle cose non cattoliche.
La contraddizione è una cosa profonda, anzi è uno dei princìpi primi, ed è
la cosa più profonda dell’essere perché è con l’essere nella più stretta relazione.
Se l’essere è profondo, cioè è un principio primo, la sua contraddizione, la
sua contrarietà, è parimenti profonda, è alla pari primo. Quando siamo in
questo ordine di riflessione siamo nel più profondo: non si può andare oltre.
Quindi, della contraddizione bisognerebbe averne riguardo, timore, spavento.
Oggi invece la contraddizione non terrorizza: le andiamo incontro, la
accogliamo, la abbracciamo: tutto è nel tutt’altro e non cattolici sonò cattolici.
***
Sant'Agostino distingue nell’atto di fede tre concetti: «Credere Deo, credere Deum, credere in Deum». Riguardo a questi tre aspetti dell’atto di fede cristiano, come si
pongono oggi i teologi che fanno opinione? Mi pare che il concetto che svanisce
è il concetto di Dio come cosa creduta, «credere Deum», cioè si dissolve Dio
come materia di fede. Invece «credere in Dio», cioè affidarsi con un moto dello
spirito alla volontà di Dio, è una cosa che anche i teologi moderni sostengono;
sopravvive qui l’aspetto fiduciario della fede, quello più affine al concetto
di fede che hanno i luterani, per cui «si procede verso Dio credendo», come dice San Tommaso nella Summa (S. Th. II-II, q.2,
a.2) e «della fede si fa carico la carità». Ma se non credo Dio, meno credo a Dio. Infatti, se non credo all’esistenza
di Dio così come è enunciata nel Simbolo Niceno- Costantinopolitano, come crederò
mai alla forza della sua Autorità?
Il frutto della dislocazione dell’ autorità didattica della Chiesa dalla
Gerarchia del Magistero alla massa dei teologi è il decadimento della prima
Autorità a cui essi dovrebbero credere, è la dissoluzione dell’Autorità credendo
la quale la fede viene specificata, essendo il motivo della fede «credere ciò
che è stato detto da Dio». Infatti, se si dubita dell’esistenza provvidente
dell’Autorità non si potrà credere certo che le Scritture abbiano in essa
origine, e difatti oggi le Scritture sono lette come un genere letterario
analogo a quello delle tradizioni islamiche, in- duiste, giudaiche: sono una
tradizione umana. Casomai, Dio non è la loro causa ma il loro frutto, la loro
conseguenza.
Ma tutti i teologi credono quello che credono solo in forza di ciò che i
loro ragionamenti e le loro opinioni autorizzano a credere: tutta l’autorità
sta lì. Non è l’Autorità soprannaturale che si disvela e che porta a credere al
di là della ragione, ma è un’autorità ragionevole, ponderata, scientificamente
dimostrabile.
C’è una questione, nella Summa di San Tommaso (S.
Th. II-II, q.5, a.3) che domanda se un eretico, rinnegando un articolo di
fede, possa avere una fede informe sugli altri articoli. La risposta è sulla
negativa, perché gli articoli di fede si credono perché rivelati da Dio e
l’uomo non può discernere articolo da articolo, e un articolo respingere
accettando invece gli altri perché, così facendo, ha già rinnegato il
principio della fede: tutti gli articoli di fede si credono «perché sono
rivelati». Se tu ne escludi uno intendi che quell’uno non sia rivelato e
offendi il principio generale della fede, che non è in te, ma che è fuori di
te. San Tommaso insegna tante volte che la causa formale della fede è proprio
la veracità di Dio.
Oggi l’uomo vuole credere solo ciò che riesce a capire: qui la fede mette
le radici nell’uomo e le toglie da dove devono stare, in Dio, in Cristo Gesù,
nel Verbo rivelatore, come ricorda 1’ Apostolo: «Non tu porti la radice, ma la radice porta te» (Rm. 11,18).
Il significato dell’atto di fede viene generalmente trascurato. Il
«credere» sembra un atteggiamento psicologico arbitrario. Invece, il «credere»
suppone l’immolazione del principio supremo dell’uomo: un sacrificio più alto
non possiamo farlo, perché sacrificare il senso è certo una cosa che ha valore,
ma sacrificare l’intelletto, che è la parte suprema dell’uomo, questa è
un’azione quasi incredibile: può compierla solo la forza della Grazia. La
prepotenza della ragione privata si manifesta nella pretesa di scegliere:
«questa cosa non la credo, perché non mi pare né ragionevole, né possibile;
questa invece la credo, perché la trovo ragionevole e possibile». L’eretico si
spiega, come ogni parola, con l’etimologia. «Eresia» è un vocabolo di origine
greca, che viene dal verbo ai- rùmai, che vuol dire «prendo», «scelgo». L’eresia è una «elezione» delle cose da
credere. Questa elezione vien fatta in base al criterio individuale, mentre gli
articoli di fede, tutti, si devono credere perché rivelati e basta.
La funzione della teologia è di chiarire, di articolare bene quello che
crediamo. Se noi crediamo, per esempio, l’Immacolata Concezione, la teologia
deve chiarire il concetto di «immacolata», deve chiarire il concetto di «concezione»,
deve quindi dare una moltitudine di chiarimenti su tutte le parti del dogma
perché il dogma sia disvelato nella sua interezza e nella sua profondità.
All’opposto, i teologi innovatori, quelli della nuova evangelizzazione, si
fondano sul principio che quello che crediamo deve essere intelligibile, deve
essere razionale e, per cercare questo elemento di intellegi- bilità, negano la
sostanza della fede: infatti, se tu credi di intendere qualche cosa del dogma
dellTmmacolata Concezione, sei un eretico. Vuoi intendere qualcosa che,
essendo per natura sovraintelligibile, non può essere inteso. Se tu pretendi
di intenderlo, se tu pretendi di risolverlo nella tua razionalità, sei
eretico: neghi l’ordine soprannaturale, neghi l’ordine della fede.
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Ci sono delle cause a tutto questo dissolvimento della dottrina nelle opinioni,
a questa dislocazione dell’insegnamento dal’autorità episcopale al lume
privato? Vi sono le cause generali morali di ogni atto: qualcuno lo fa con
superbia: qualcuno lo fa per invidia; qualcuno lo fa per qualche altro motivo
irragionevole: le cause di questa nuova teologia sono le cause di ogni aberrazione
dello spirito. Bisognerebbe poi indicare la causa di queste cause individuali:
perché uno diventa invidioso? Perché uno diventa vanaglorioso e desidera
spiccare? Bisognerebbe risalire al diavolo. San Gregorio Magno così
concludeva: «Dalla vanagloria nascono le
stravaganze dei novatori»; e San Tommaso
ricorda due volte questa sentenza di San Gregorio proprio nelle questioni
riguardanti l’incredulità (S. Th. II-II, q.10, a.l).
Le cause generali invece, nel nostro caso, non sono cause che si possono individuare,
dove si possa mettere il dito lì e dire: è lì, o mettere il dito qua e dire: è
qua. E lo spirito del mondo, lo spirito del mondo che ha investito e ha
penetrato la Chiesa. Non si può quindi indicare un fatto come causa perché
tutti i fatti particolari che possiamo segnalare sono già espressione di quel
fatto generale che, essendo generale neanche può chiamarsi fatto. La sostanza
del mondo non si identifica ancora con la sostanza della Chiesa, però ha
corrotto e continua a corrompere la sostanza della Chiesa. Quale sarà la
conclusione di questo processo è un segreto suggellato nel cuore di Dio.
Le cause generali, aeree, sono la manifestazione e la diffusione delle
cause individuali. Quest’atmosfera erronea non ha altra causa che l’individuo
errante e, l'errore degli individui, è dovuto a una di quelle cause comuni
proprie della vita morale.
Una notte di poco tempo fa feci un sogno.
Ero sulla soglia, e il Santo Padre Roncalli occupava la soglia. C’ erano altre
persone, che però io non discernevo. Sentivo che dicevano, rivolgendosi a lui:
«Santità». A un certo
momento, io parlai distintamente e a voce molto alta, per dire queste parole:
«Santità, c’è una cosa di cui il mondo moderno ha tanto bisogno:
tanto; tanto; tanto; tanto (l’ho detto quattro volte): l'intelletto; l'intelletto;
l'intelletto; l'intelletto (l’ho detto anche questo quattro volte). Invece oggi ci
predicano soltanto l'amore; ignorando che lo Spirito Santo “procede” dal Verbo
cioè l'Amore procede dalla Ragione. Di questa Ragione, Santità, la nostra religione,
o il nostro sacerdozio, non fanno più nessuna menzione». Quando io ebbi finito, il Santo Padre, avendo in mano un libro,
è entrato, ed ha appoggiato il libro su un tavolo.
Il primum è l’intelletto. Ho detto «intelletto», ma potrei dire anche «ragione».
Questo sogno adombra una dottrina. Lina dottrina a cui gli uomini di
Chiesa oggi vengono meno: la dottrina per cui il primum non è l’amore, ma
l’intelletto; non la volontà, non il moto, non il trasporto (lìelan), non la
pietà, ma la ragione, la conoscenza, la verità, la contemplazione, il pensiero,
l’idea, il Verbum.
Oggi, i teologi neoterici non tengono più, come primum, il Verbo, ma tengono
l’Amore. Però, così operando, non possono tenere l’Amore nella sua verità e
quell’amore che tengono è un amore falsificato: se l’Amore perde la sua
relazione essenziale con la Ragione, che è una relazione di processione,
l’Amore stesso si snatura. L’ amore senza regola confonde Tamore di sé con
l’amore degli altri e l’amore di ogni cosa. Perché è proprio il Verbo quello
che determina, è il Verbo quello che stabilisce il limite, il fondamento,
l’orizzonte; l’amore invece, di per sé* è incapace di ogni determinazione.
Quin- . di l’Amore deve avere sempre un riferimento a una cosa che è prima
dell’Amore: come un fiume, deve scorgere nel suo letto, non deve straripare
per le terre sennò le stesse acque salutari si mutano in mortali. L’Amore
procede dal Verbo, ed è misurato dal Vèrbo.
R. Amerio