DRAMMA DELL'ESEGESI MODERNA 1
Estratto dal libro
MITI E REALTA'
del Servo di Dio Mons. PIER CARLO LANDUCCI
(una nota biografica del Servo di Dio in fondo a questo documento)
(una nota biografica del Servo di Dio in fondo a questo documento)
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LOGICA ED ESEGESI BIBLICA
RAZIONALITÀ
E COMPETENZA ESEGETICA SPECIFICA
L'approfondimento critico, nella scienza
biblica come in ogni campo scientifico, richiede preparazione culturale
specializzata ed è naturale che soltanto gli esegeti di professione possano
affrontare, con piena competenza, certi problemi. Nessun approfondimento
critico d'altra parte è possibile senza limpidezza intellettuale e rigorosa
razionalità.
Questa razionalità è necessaria tanto nelle
scienze positive che nelle scienze speculative, pur avendo rispettivamente
portata e tonalità diverse. La razionalità richiesta infatti dalle ricerche
positive storiche, filologiche, testuali, ecc. ha un carattere più circoscritto
e concreto ed esige più larghezza di erudizione che non la razionalità
richiesta dalla speculazione. E' un po' come nel confronto tra la fisica
sperimentale e quella razionale. I poderosi problemi ideologici e teologici
implicati nella esegesi biblica impongono all'esegeta il doppio approfondimento
della ricerca positiva e speculativa.
La competenza specifica biblica però è
primariamente caratterizzata dalla ricerca positiva, che deve garantire testi,
materiale, generi letterari per la comprensione, le deduzioni, le
sintesi, i confronti speculativi (con riflessi reciproci di questi ultimi sulla
stessa ricerca positiva).
La speculazione razionale sui testi e sui
problemi biblici non richiede uguale specifica competenza biblica e può essere
compiuta da ogni pensatore e studioso, che abbia ricevuto dai competenti
biblisti la sostanziale informazione positiva. Gli ottimi esegeti di
professione d'altra parte sanno bene quanto possa essere loro dannoso
d'indebolire, in conseguenza del progressivo allenamento alla ricerca positiva,
l'acutezza e completezza della abitudine speculativa.
Mi propongo pertanto delle riflessioni
puramente razionali, che, in linea logica, possono illuminare qualche problema
e dirimere qualche controversia o per lo meno focalizzarla e precisarla nella
sua reale portata.
BIBBIA
E LIBRI PROFANI: IDENTICO METODO CRITICO
Parlando dello studio critico della Bibbia
intendo qui prescindere dalle finalità e dai significati spirituali del libro
sacro, limitandomi a considerare il libro in sé, nel suo testo autentico e nel
suo significato letterale (su cui debbono sempre appoggiarsi gli altri
significati). Tale libro è stato scritto immediatamente da uomini, per
gli uomini, ed è comparso nel corso della storia umana, come tutti gli altri
libri. Debbono quindi valere per esso le medesime norme di critica scientifica
che valgono per gli altri libri. Anzi il rigore critico, data l'importanza
degli argomenti e i loro supremi riflessi nella vita, deve essere maggiore.
I capisaldi del giusto metodo critico
consistono nella esatta ricostruzione del testo, nel suo ambientamento locale e
temporale, nella comprensione del genere letterario, nell'approfondimento
filologico, nella identificazione e nella piena conoscenza dell'autore, nella
piena focalizzazione del protagonista, nell'ampia considerazione del contesto e
nel ricorso alle altre solide testimonianze e autorità estrinseche. Ciò vale
tanto per il Vangelo e per tutta la Bibbia, quanto per la vita di Napoleone.
Ma ecco che nel caso della Bibbia si scopre
il fatto essenziale e originale che l'autore principale è Dio, che il
protagonista principale - prima adombrato e poi esplicitamente descritto - è il
divino Redentore, che il pieno contesto dottrinale (al quale si ricollega lo
stesso contesto storico) è l'armonia del dogma cattolico, che l'autorità
estrinseca è la Chiesa infallibile.
Colpisce anche subito la perfetta coerenza
logica di tale scoperta. Al libro che parla infatti di Dio, del Verbo Eterno
Incarnato, dei segreti di Dio (in sé e in relazione all'uomo), non può
convenire che un autore principale divino. Al libro, d'altra parte,
fatto per parlare agli uomini, con linguaggio umano, conviene un autore strumentale
umano. Alla sproporzione conseguente tra comunicazione divina e imperfetto
strumento umano non può rimediare che un divino e infallibile magistero
scritturale quale si ha solo nella Chiesa.
Fatta tale scoperta ne segue immediatamente
un processo effettivo di indagine esegetica biblica profondamente e
specificamente diverso da quello di ogni altro libro: profondamente diverso
proprio perché identicamente critico, e quindi coerente alla speciale
trascendenza dei suddetti capisaldi. Ne segue anche che i risultati per un
cattolico e per un miscredente o non cattolico - ugualmente studiosi ed
ugualmente dotati - non possono spesso essere i medesimi, essendo diversi per
essi quei fondamentali capisaldi critici. Invece non vi può essere differenza,
per es., per uno studio di matematica o di un fatto storico profano.
Non vi sarà differenza, anche quanto alla
Bibbia, per le acquisizioni critiche sicure e di base, testuali, archeologi
che, ecc., o anche ideologiche più generali (10), mentre potrà esservi, oltre
che per la piena interpretazione, per le acquisizioni solo probabili anche di
base, intervenendo rispettivamente per un cattolico e un non cattolico
riferimenti contestuali ed ideologici e realtà obiettive diverse, capaci di
modificare le valutazioni di probabilità.
Non vi è nessun pericolo, d'altra parte, per
un critico cattolico, di cadere in un circolo vizioso assumendo come guida,
per la interpretazione della Scrittura, quei dati soprannaturali e divini e
quel Magistero che debbono fondamentalmente dedursi dalla S. Scrittura
stessa. Infatti la deduzione di tale guida nasce da primordiali e sicure
valutazioni sostanziali del testo, considerato ancora come puro documento
storico. Tali valori di guida vengono poi utilizzati - logicamente quindi in un
secondo tempo - per l'approfondimento e il completamento particolareggiato
esegetico.
IMMUTABILE
PRINCIPIO FONDAMENTALE DELL'ERMENEUTICA
Oltre settanta anni fa Leone XIII,
riallacciandosi alle norme di S. Agostino, enunciò nella Enc. Providentissimus
(18 nov. 1893) il seguente principio fondamentale della interpretazione
biblica: «a litterali et veluti obvio sensu minime discedendum, nisi qua
eum vel ratio tenere prohibeat vel necessitas cogat dimittere»
(EB 112). Pio X, per tramite della Pont. Comm. Bibl. (1909) ribadì il principio
(EB 328); e così Pio XII (EB 525).
Nonostante le prospettive enormemente
allargate della scienza esegetica moderna e nonostante le apparenze contrarie,
tale principio è restato e resterà immutabile: valeva al tempo della condanna
di Galileo e dopo la chiarificazione dell'equivoco; valeva quando i giorni
della creazione del mondo, narrata dal Genesi, si interpretavano in senso
letterale, come vale oggi, e così via. Tale principio infatti non fa che
esprimere il logico criterio che si segue sempre davanti al discorso di una
persona seria e verace. Le parole vanno cioè intese secondo il loro senso
proprio, finché non vi sia la fondata prova del contrario. La
presunziore sta quindi sempre per il senso letterale: proprio l'opposto di
quello che sarebbe se fosse il discorso di un noto commediante o mentitore.
La Chiesa non ha quindi propriamente
modificato i suoi fondamentali principi esegetici. Solo che l'evoluzione
scientifica e l'approfondimento degli strumenti critici hanno fornito le prove
che prima mancavano - ossia la «ratio» e la «necessitas» - d'interpretare certe
affermazioni in senso non letterale. La richiesta di Giosuè che si fermasse il
sole non poteva essere interpretata se non in senso letterale - come cioè se il
sole e non la terra fosse in movimento - nell'epoca in cui vigeva la scienza
astronomica tolemaica, mentre oggi l'espressione resta vera nell'ovvio senso
metaforico della apparenza sensibile, secondo il modo del parlare comune degli
uomini.
Che dire dell'inconveniente che, frattanto,
cioè prima dell'affiorare delle ragioni per abbandonare il senso letterale,
tali testi avevano suggerito l'errore? E' un fatto accidentale del tutto
naturale. Ciò è dipeso dalla normale limitatezza e ignoranza umana, che lo
Spirito Santo non ha il compito di correggere su questioni estranee alla fede e
al costume. Fuori di questo campo il pensiero umano doveva ovviamente essere
lasciato alla normale evoluzione, affinché la Scrittura non si trasformasse -
miracolisticamente e inopportunamente - in un trattato di scienze fisiche,
tanto più che, anticipando i tempi della umana evoluzione scientifica, esso
sarebbe risultato incomprensibile.
Quando invece le affermazioni riguardavano
l'oggetto della rivelazione, come nella promessa dell'Eucaristia e nella sua
istituzione, Gesù ebbe cura di usare quelle insistenti e chiare espressioni,
che escludevano positivamente il senso figurato e garantivano il senso
letterale.
Il medesimo fondamentale principio di
ermeneutica vale identicamente per l'A. e il N.T. La ragione della più larga
possibilità del senso non letterale, o non pienamente storico, o solo didascalico
nelle narrazioni dell'A.T. sta nel genere e nelle circostanze di quelle
narrazioni, ben diverse da quelle del N.T.
In questo infatti la narrazione si
concretizza, con particolare precisione, intorno alla figura storica e
all'insegnamento di Gesù, fatta da testimoni oculari o molto vicini, con
esplicita dichiarazione di esattezza - necessaria d'altra parte per dar credito
a tutta quella storia - e mentre esistevano altri testimoni, amici e nemici,
che avevano, per motivi opposti, tutto l'interesse, in caso di errore, o di
nascosti rivestimenti didascalici, o di adornamenti puramente popolari, o di
tacite e incontrollate citazioni, di smentirli.
POSSIBILITÀ,
PROBABILITÀ, PRESUNZIONE
In tutti i settori della critica biblica,
dalla ricostruzione del testo originale al problema dei singoli scrittori, alla
determinazione del genere letterario più o meno storico, alla
interpretazione miracolosa o meno di alcuni fatti, ecc., non sempre si può
raggiungere la certezza. In tali casi si contrappongono sul piano ipotetico
soluzioni opposte o per lo meno diverse, le quali si possono sempre
fondamentalmente raggruppare in più favorevoli alle sentenze tradizionali o più
innovatrici. Razionalmente le tesi più innovatrici debbono essere preferite
solo quando rappresentano un progresso e un approfondimento nella
conquista della verità biblica: non cioè il nuovo per il nuovo, ma il nuovo -
almeno probabilmente - per il più vero.
Mentre però nel caso della certezza la
scelta è fuori discussione, negli altri casi essa può essere influenzata da
fattori talora imponderabili, non esclusi quelli psicologici e di tonalità
mentale generale. In sede critica questo rilievo mi sembra di notevole
importanza. La razionalità infatti richiede che anche tale tonalità psicologica
e mentale rientri nella coerenza logica, tenuta ben presente la natura
dell'oggetto di studio: altrimenti essa verrebbe a influenzare irrazionalmente
e quindi erroneamente le preferenze e le scelte.
Ora un fatto da considerare con molta
attenzione è il facile combaciamento di molte tesi innovatrici e nuove
interpretazioni con le soluzioni meno soprannaturali. Soprattutto poi colpisce
lo stato d'animo, talora esplicitamente manifestato, della soddisfazione per
tali soluzioni, come per la bramata e riuscita evasione dalle strettoie
dell'antica mentalità, troppo legata al prodigioso, al miracoloso, al
soprannaturale: evasione che sarebbe vittoria della razionalità. E'
l'orientamento ben noto e diffusissimo della demitizzazione.
Prescindendo pertanto dai singoli casi,
ognuno dei quali andrebbe trattato a parte, e restando a tale orientamento
generale, esso non risulta razionalmente coerente. L'oggetto infatti di tutta
la Scrittura, prima preparato (A. T.) e poi descritto (N. T.), è, nel quadro della
misericordia divina e della redenzione, il divino Redentore, Gesù, cioè la
realtà più sublimemente soprannaturale e miracolosa che si possa immaginare: il
Verbo Eterno Incarnato. Ora in un libro che ha così sublime principale
protagonista è presumibile trovare non scarsezza, ma piuttosto
abbondanza di elementi soprannaturali e miracolosi.
Non è questione - ripeto - dei casi
particolari, ognuno dei quali andrà risolto a suo modo, ma è questione di
presumibilità e di coerente orientamento mentale. Sotto tale aspetto l'esegesi
antica, più favorevole alle interpretazioni soprannaturali, finisce per essere
più razionale e coerente.
Il massimalismo soprannaturale nella
Scrittura - quando sia poggiato ogni volta su solidi motivi - è presumibilmente
più vero del minimismo naturalistico, armonizzando meglio con il sublime
massimalismo della persona di Gesù. Se si propone una spiegazione naturale del
passaggio del Mar Rosso, che salvò gli ebrei, della stella che guidò i Magi a
Betlemme, della pesca inaspettatamente sovrabbondante nel mare di Tiberiade, e
così via, non c'è che da studiare il testo ed il contesto per decidere. Ma
l'errore sta nel fare tale studio con preconcetto atteggiamento preferenziale
verso la spiegazione naturale e innovatrice, mentre invece l'orientamento
preferenziale deve piuttosto essere razionalmente lo opposto.
Per esemplificare questa erronea posizione
psicologica e questo difetto di razionalità si rifletta al gaudio di alcuni
dotti per la scoperta di una sorgente a diverso grado termico, nel fondo del
lago di Gennesaret, vicino alla quale si sono trovati densi banchi di pesci.
Subito è stata felicemente divulgata la notizia come scientifica conferma
di Lc 5, 6 e Gv 21, 6, cioè delle pesche miracolose, compiute
sovrabbondantemente dagli Apostoli, per indicazione e comando di Gesù, dopo i
precedenti lunghi tentativi infruttuosi. La scoperta cioè doveva rendere
testimonianza di verità alla narrazione evangelica, come se l'ipotesi
miracolosa, più conforme al senso letterale e al contesto, potesse altrimenti
creare difficoltà. Ma non era avvenuto il fatto per ordine dell'Uomo-Dio Gesù?
Si può obiettare che la preferenza delle
soluzioni naturali, quando sia possibile trovarle anche con piccolo fondamento,
è razionalmente fondata sul principio generale che la presunzione deve stare
sempre per il naturale e che il soprannaturale non va affermato senza positive
sicure prove: non è il naturale, ma il soprannaturale che va provato.
Ma la logica applicazione di questo giusto
principio deve tener conto della diversità del protagonista. Quando si tratta
di un semplice uomo e anche di un santo (tanto più se non ancora proclamato
tale) la presunzione sta effettivamente sempre per la soluzione naturale. Ma
quando si tratta della preparazione e della comparsa del Verbo Eterno Incarnato
e poi della sua vita e delle sue opere la presunzione s'inverte, per la
prevedibile coerenza tra le opere manifestative e la grandezza del divino
protagonista («operatio sequitur esse»). In tale caso cioè si deve trovare
difficoltà non ad ammettere il soprannaturale, sufficientemente presentato come
tale, ma a non ammetterlo. Non debbono meravigliare i prodigi che
accompagnarono la natività, ecc., bensì dovrebbe meravigliare che non vi
fossero stati.
Non è quindi logico abbandonare
metodicamente le antiche soluzioni esegetiche, più favorevoli al miracoloso e
al soprannaturale, ogni qualvolta si presenti la pura possibilità -
talora anche scarsissima - di spiegazioni naturali. Anzi non è logico nemmeno
quando la possibilità corrisponda a probabilità, a meno che si tratti di
probabilità largamente maggiore. Ma anche in questo caso il vero rigore critico
richiede di affermare tale misura di probabilità; non di trasformare -
almeno praticamente - la probabilità in certezza, radiando definitivamente la
tesi più soprannaturale e tradizionale. Questa resta invece ancora possibile,
con il suo grado di probabilità, finché non risulti la certezza del contrario.
In tale valutazione delle tesi contrastanti
si deve riconoscere quindi, per ragioni critiche, una posizione in qualche modo
privilegiata e preferenziale per quelle più soprannaturali e tradizionali, così
da avere per queste - logicamente - anziché diffidenza, benevolenza.
Ciò è vero anche per un altro motivo che si
potrebbe dire di carattere giuridico pratico. Giuridicamente quelle tesi
godono della condizione preferenziale di ciò che è posseduto, che ha
maturato la riflessione di tanti Padri e scrittori cattolici, e che su materia
di fede e morale (a prescindere dalla autenticità) può esprimere la dottrina
universalmente posseduta dalla Chiesa e quindi infallibile (eventualmente non
come Scrittura, ma come pensiero della Chiesa). Praticamente poi si deve
attentamente osservare che l'abbandono di una interpretazione ritenuta
antiquata, ma ancora possibile, è di solito irreversibile. Si crea il pericolo
di perdere definitivamente un fatto e una conoscenza soprannaturali, che (non
trattandosi per l'opposta tesi di prova certa) potrebbero in realtà essere
veri.
A tale riguardo non v'è simmetria tra i due
opposti pericoli, di mantenere cioè una erronea interpretazione soprannaturale
o di perderne una vera. La seconda eventualità infatti costituisce la perdita
di un tesoro vero, di divino valore e costituisce quindi una iniziativa e una
perdita positive, praticamente irrimediabili; mentre la prima, conservando la
illusione di avere un tesoro che non vi è, corrisponde a un difetto di
iniziativa (con riflessi tuttavia per accidens vantaggiosi, per i più
forti richiami ai valori divini, che superano sempre ogni nostra affermazione)
difetto che comunque potrà essere sempre rimediato.
LA
OPINIONE DEGLI ALTRI: PADRI, ESEGETl
I Padri vengono sempre meno considerati
nella moderna esegesi, o perché - si dice - raramente unanimi, o perché non
hanno voluto affrontare il problema critico, o perché non intendono farsi eco
del pensiero propriamente della Chiesa.
Generalizzando troppo però questi concetti
si può snervare praticamente il principio del magistero della Chiesa
nell'interpretazione biblica. Per rispettare questo principio infatti non basta
inchinarsi ai suoi interventi positivi e alle sue eventuali proibizioni, che
sono ben rari, ma bisogna coerentemente tenere conto delle sue preferenze e dei
suoi orientamenti, di cui i Padri costituiscono una eco particolare e
qualificata.
Più che guardare se i Padri intendevano
esprimere il pensiero della Chiesa si deve guardare se la Chiesa ha
riconosciuto nei Padri se stessa. E' la Chiesa che riconosce e addita i Padri
come suoi figli particolarmente santi e illuminati e fedeli, il che costituisce
appunto il titolo della loro autorità, che in certi casi è decisiva.
Non è giusto ad ogni modo passare senz'altro
dal caso della loro autorità decisiva alla nancuranza, quando manchino alcune
condizioni. Vi è qualcosa di analogo in questo - con le ovvie e debite
distinzioni con l'obbedienza dottrinale alla Chiesa, che è proporzionatamente
doverosa anche negli insegnamenti non strettamente infallibili. Quanto alla
svalutazione dei Padri, in base alla mancata impostazione critica, non si deve
dimenticare che il valore della tradizione cattolica non si proporziona, per
sua natura, all'uso del metodo critico scientifico - che va tuttavia
opportunamente caldeggiato - ma all'assistenza dello Spirito Santo.
Un inverso atteggiamento, di immensa fiducia
cioè verso la opinione degli altri, si nota invece modernamente nel campo
esegetico riguardo agli eruditi della cultura esegetica più riformatrice.
Talora sembra di assistere a un vero fenomeno di moda della cultura,
quale si nota in tutti gli altri campi scientifici, non esclusa la fisica.
Quando qualche dotto avanza sul terreno
opinabile in posizioni particolarmente ardimentose - come son chiamate,
non si capisce logicamente perché, quelle meno soprannaturali: mentre il
massimo ardimento è di aderire pienamente al soprannaturale - in vari altri
studiosi vi è un primo movimento di sorpresa. Si guarda poi se l'autorità
ecclesiastica reagisce - il che essa, maternamente longanime, fa ormai tanto di
rado - e in caso contrario ci si volge sempre più numerosi verso quelle
posizioni, con la simpatia della novità e dell'ardimento, inteso nel suddetto
senso, cioè come preferenza per le tesi meno soprannaturali ed antiche. Vengono
poi i divulgatori a dire: «L'esegesi cattolica moderna oggi pensa così».
Ma in realtà spesso non è il vero pensiero
della esegesi cattolica, bensì di quel primo isolato e avventato iniziatore.
Alla plenaria episcopale italiana dell'8
aprile 1967 il S. Padre lamentava - in una visione ancora più generale - che
«persone e pubblicazioni, che avrebbero la missione d'insegnare e di difendere
la fede, non mancano purtroppo anche da noi di far eco a quelle voci
sovvertitrici, per la celebrità più che per il valore scientifico, dei
loro fautori; la moda fa legge più della verità».
INTENZIONE
E INFALLIBILITÀ DELL'AGIOGRAFO
Quando grandi biblisti dicono delle formule
molto spinte, le concretizzano poi con chiarimenti ed esemplificazioni, che le
delimitano e le possono rendere ammissibili. I divulgatori invece non hanno
sempre tale accortezza e, con la migliore intenzione, possono giungere a
posizioni generalizzate obiettivamente disastrose.
Uno dei principi più pericolosi, se non bene
inteso, è quello della ricerca della intenzione dello scrittore sacro,
come indispensabile per comprendere quanto ha voluto dire e quindi
quanto ha realmente detto, dietro la veste di una espressione letterale
eventualmente fittizia.
E' così che viene radicalmente risolta la
questione dei generi letterari, ossia dei modi di narrazione biblici
solo apparentemente storici. La verità biblica è salva - si dice - considerando
l'intenzione dello scrittore, il quale può aver parlato metaforicamente, aver
voluto narrare a scopo didattico delle pure storie popolari, aver voluto
adornare per maggior efficacia dei fatti storici con episodi fittizi
(armonizzanti però con la figura e il pensiero dei protagonisti reali), aver
voluto filtrare i fatti stessi evangelici traverso la integrativa, comunitaria
e personale meditazione teologica, ecc. Tutto ciò, anche per i fatti storici,
si afferma consono alla mentalità di quei tempi. L'infallibilità dell'Agiografo
e della Scrittura riguarderebbe dunque solo ciò che lo scrittore ha voluto
dire, nel modo come lo ha voluto dire. Se, per es., egli ha incorniciato alcuni
fondamentali eventi di Gesù - come l'infanzia - con circostanze mitiche e
favolose, l'infallibilità riguarda la sostanza dei fatti, di cui egli ha voluto
solo facilitare psicologicamente la comprensione con quelle amplificazioni
favolose e miracolose. Se un fatto storico è narrato con particolari raccolti
da fantasiose tradizioni popolari - quasi come citazioni implicite -
l'infallibilità riguarda il fatto, non quei particolari, che costituiscono
soltanto un ripiego per fissare le idee: come chi dipinga una storica
battaglia non intende certo riprodurre fotograficamente quegli episodi.
E così via.
Questo principio, indiscriminatamente
applicata, può distruggere in realtà ogni sicurezza della esegesi biblica,
trasformando la rigorosa analisi del testo nella aleatoria ricerca delle talora
inafferrabili intenzioni dello scrittore. Quando anche si raggiungesse una probabile
conoscenza di tali intenzioni, la certezza del testo si declasserebbe in pura
probabilità.
Nessuna difficoltà possono creare certe forme
metaforiche o paraboliche o altrimenti didascaliche, in cui le intenzioni dello
scrittore sono chiaramente indicate dal testo e dal contesto. Ma la difficoltà
è massima quando l'intenzione, modificatrice del senso ovviamente letterale,
riguarda narrazioni storiche, scritte non a scopo didascalico, come alcuni
libri dell'A. T., ma a scopo dimostrativo della verità storica di persone e del
loro insegnamento e soprattutto della persona di Gesù. La distinzione tra
sostanza e accidenti è aleatoria ed essenzialmente indeterminata: nessuno potrà
dire in molti casi fondamentali dove finiscono le accidentalità e dove comincia
la sostanza. Inoltre la sostanza non può acquistare la sua veridica concretezza
se non mediante i veridici accidenti. Quando le particolarità descritte della
vita di Gesù - fatti e detti - possono essere elaborazione didascalica ed
interpretativa dello scrittore, nessuno può escludere che la realtà stessa
essenziale della vita di Gesù si dissolva in una creazione mitica, frutto
magari della illusione in buona fede dell'Agiografo.
Riprendo un precedente paragone. E' vero che
una pittura riproducente una battaglia non ne fotografa certamente i
particolari, ma è anche vero che il quadro creato dal pittore non prova per
niente la verità storica della battaglia, potendo benissimo il pittore avere
rappresentato un conflitto mitico o leggendario. E' per altra via che debbo
conoscere la verità storica della battaglia. Mentre il Vangelo è un quadro che
deve dimostrare la verità storica del divino Redentore.
Con questa concezione di una intenzione
dell'Agiografo facilmente diversa dal senso letterale, a ben riflettere,
l'infallibilità dell'Agiografo, per assistenza dello Spirito Santo, non si
traduce nell'inerranza scritturale, ma nella sincerità scritturale,
ossia nella sincerità dello scrittore, nel senso che esso non voleva ingannare,
ma soltanto edificare, o citare e così via. Non è più, in fondo, assistenza
alla mente, ma solo al cuore dell'Agiografo, garantendone soltanto la retta
intenzione.
L'inerranza è reale ed operante invece non
quando termina nell'onestà morale dello scrittore sacro, ma quando comunica la verità
al lettore. Ora questa comunicazione veridica suppone che l'intenzione dello scrittore
corrisponda, per sé, al senso letterale della descrizione e questa
corrisponda ai fatti. Lo scostarsi per accidens da tale senso deve
risultare non dalla nascosta intenzione dello scrittore, ma dal testo stesso e
dal contesto (intendendo il contesto, in senso estensivo, come qualunque
conoscenza estrinseca, come le conoscenze astronomiche per interpretare il
fermarsi del sole, ecc.).
Tale discostarsi dal significato letterale
non può nemmeno giustificarsi in base alle ovvie limitazioni umane e al
temperamento dello scrittore sacro, che lascerebbero la loro traccia fatale,
non essendo la infallibile ispirazione una dettatura. L'ispirazione infatti
opera appunto sostenendo tali deboli forze umane contro l'errore,
inteso, a prescindere dalla retta intenzione dello scrittore, come obiettiva discordanza
dal significato ovvio letterale. Essa non può concepirsi che come assistenza
all'Agiografo perché attinga alle fonti vere e dica le cose vere: ossia non
soltanto perché non voglia ingannare, ma perché non inganni: ora,
con la predetta concezione vi sarebbe effettivamente inganno. Quando nella
genealogia di Gesù si parla di 14 generazioni e poi ancora di 14 e ancora di 14
(Mt. 1, 17) apparisce subito dal contesto remoto scritturale stesso, ossia
dalla conoscenza di altri personaggi, oltre quelli elencati, il valore
puramente mnemonico e sintetico della così precisata numerazione. Ma quando
fosse narrato particolareggiatamente un episodio di Gesù - per es. nella
natività - non avvenuto, non si avrebbe che obiettiva falsificazione perché
nessuna solida indicazione contestuale può suggerire il carattere puramente
ornativo di tale particolare: a meno che lo si veda - incoerentemente, come si
è visto sopra - nella soprannaturalità stessa dello episodio.
Quanto alle caratteristiche dei singoli
stili degli scrittori ispirati sono invece ben naturali, non trattandosi di
dettatura. Ma un conto è lo stile, o l'impiego di una narrazione didascalica
invece che storica, o l'assenza del rigore cronologico e della precisione
circostanziata al modo della cronaca e della scienza storiografica moderna e un
conto è, in un quadro di narrazione certamente storica, inventare un fatto o un
detto, mai avvenuto. Quella è impronta umana, questa è falsità.
Si
potrebbe obiettare che se, per es., un predicatore popolare, nel narrare un
avvenimento storico, lo adornasse di macchiette e colloqui fittizi per renderlo
più interessante, restando però fedele alla sostanza dello avvenimento, non lo
si potrebbe tacciare di falsità. Non lo so. Nel mio piccolo ho avuto sempre
molta ripugnanza a usare tale metodo. Certo, piena sincerità non è; e si può
rendere il racconto molto interessante per il modo come si dice, senza
ricorrere a tale ripiego.
Ma, comunque, si deve vedere una netta
differenza tra il caso del predicatore e il caso dell'Agiografo. Tali debolezze
e ripieghi umani infatti, nel caso dell'Agiografo si inserirebbero proprio
nella linea di comunicazione infallibile della verità, il che non è
ammissibile e non può essere permesso dallo Spirito Santo.
In tale linea di verità anzi la divina
ispirazione potrebbe anche scavalcare la intenzione dell'Agiografo, come quando
esso scriva un annuncio profetico, di cui può non essere consapevole, o anche
quando egli intenda - senza adeguata indicazione testuale e contestuale -
riferire una incontrollata tradizione popolare, che potrebbe, a sua insaputa,
corrispondere tuttavia alla realtà.
È
LA VERITÀ DOTTRINALE O ANCHE L'EPISODIO, IN SÉ, CHE CONTA?
La svalutazione dell'episodio in sé è
frequente nei biblisti moderni. Se un adornamento favoloso o una totale
creazione favolosa possono sottolineare e meglio chiarire una dottrina, la
quale è lo scopo della narrazione, o se possono sottolineare la sublimità di un
personaggio (per es. i prodigi della natività per sottolineare la divinità di
Cristo) perché non sarebbero compatibili con la ispirazione dello Spirito
Santo? Né similmente sembrerebbe che possa ripugnare ad essa l'elaborazione e
l'approfondimento teologico che lo scrittore sacro abbia fatto, sotto
l'ispirazione dello Spirito Santo, esplicitando e integrando quello che Gesù ha
detto, o attribuendogli parole che, pur non essendo state pronunciate,
armonizzano col suo pensiero. Ciò non sembrerebbe ripugnare anche perché
attualmente la Chiesa stessa, sotto la infallibile assistenza dello
Spirito Santo, sviluppa il dogma per approfondimento ed esplicitazione.
Ma, pur restando (nei giusti limiti) la
possibilità del genere letterario non storico, in questa generalizzazione si
dimenticano due cose. La prima è che si cade, quanto ai Vangeli, in un circolo
vizioso, negando quella loro scarna e piena obiettività storica, che è il
valido presupposto dimostrativo - come vedremo meglio tra poco - della
realtà di Cristo e della Chiesa e quindi anche del dogma della infallibile
ispirazione dottrinale, a cui ci si appella.
La seconda è che si dissolve in tal modo
ogni differenza tra ispirazione biblica e infallibile tradizione.
L'assistenza dello Spirito S. in questa infatti riguarda solo la dottrina,
mentre in quella riguarda tutta la narrazione scritturale, episodi compresi. La
Chiesa è infallibilmente assistita in quanto maestra di verità,
l'Agiografo in quanto scrittore, come ha ribadito il Vaticano II (cfr. R
11; 19: deh. 890; 901): vi tornerò sopra in seguito.
SENZA
L'ARMONIA TRA I VANGELI È MINATA LA FEDE
Ammettere la piena storicità delle
narrazioni evangeliche o ammettere la loro piena concordanza è la stessa cosa,
perché se i Vangeli sono pienamente - e non soltanto sostanzialmente - storici,
essi descrivendo la medesima realtà debbono andare d'accordo e le disparità
debbono risolversi in diversi e integrativi aspetti di cotesta unica realtà. Le
difficoltà, che possono sorgere in proposito, debbono essere sicuramente
superabili, anche se talora possa essere incerto il modo.
Chi, nel campo cattolico, nega tale completa
storicità, non intende certo infirmare la fede; anzi intende sottrarla ai colpi
di tali difficoltà. Logicamente però, nonostante il nobile intento, tale
posizione regge ben poco.
Logicamente infatti i Vangeli vanno
considerati satta due aspetti, in due successivi tempi: prima come libri
puramente umani, per trarne la prova storica fondamentale della verità di
Cristo e della Chiesa; poi come libri divinamente ispirati, come tali
presentati dalla Chiesa infallibile. Prima di aver provato la realtà storica e
divina di Cristo e la rivelata sua infallibile assistenza alla Chiesa, non si
può logicamente parlare d'ispirazione nemmeno sostanziale dei Vangeli; e
inutilmente ci si appellerebbe alla primitiva infallibile tradizione a cui
avrebbero attinto gli scrittori sacri o alla ispirata loro elaborazione
teologica, perché questa infallibile tradizione e questa infallibile
ispirazione suppongono già provata la divinità di Gesù e la sua perenne
assistenza alla Chiesa.
Ora per pater trarre dai Vangeli -
integrati con gli altri libri scritturali - la piena prova storica
della divinità di Cristo (da cui la verità e infallibilità della Chiesa
immediatamente dipendano) è necessario riconoscerne la piena storicità. E
questa risulta infatti - secondo la pensosa critica tradizionale - dalla
presenza o vicinanza degli scrittori agli eventi; dallo intento di precisione
esplicitamente manifestato; dalle circostanze, dal tempo e dal luogo dove sono
stati scritti e divulgati, in mezzo ai controlli degli altri interessati
testimoni nemici ed amici; dalle mirabili conferme contestuali storiche; dalla
semplicità disadorna e disinteressata con cui appariscono scritti,
sottolineando anche gli aspetti meno favorevoli a Gesù; dalle loro diverse
caratteristiche, che costituiscono, nella loro effettiva capacità di
concordanza, un'alta conferma di spontaneità e veridicità; dal sigillo di
verità del martirio dei narratori.
Ora la piena storicità, sola capace
di garantire la realtà storica della persona di Gesù, delle sue opere e del suo
insegnamento, reclama la obiettività delle circostanze concrete di tempo, di
luogo, ecc. delle narrazioni.
Bisogna ricordare, a tale riguardo, che la
difficoltà fondamentale contro il cristianesimo è la dissoluzione della figura
di Cristo nella leggenda e nel mito, leggenda e mito che tanto più tentano gli
studiosi quanto più essi considerano le strabilianti affermazioni di una
religione, come il cristianesimo, adoratrice, addirittura, di un Uomo-Dio. Ora
il mito si dissolve solo quando la nascita, l'attività pubblica, i miracoli, la
morte, la risurrezione del grande protagonista si sanno avvenuti lì, in quel
tempo, così e così. Togliete da tali narrazioni tale concretezza e la loro
attendibilità perderà solida consistenza. Non potrò coerentemente prestare
solida fede alla notizia del concepimento miracoloso di Gesù per opera di
Spirito S. quando tale notizia mi venga data da un Evangelista che abbia
pareneticamente creato o ingenuamente riportato pradigiose circostanze di
tempo, di luogo e di eventi, prive di realtà. Non potrò coerentemente fidarmi
di chi mi comunichi la promessa del primato petrino, quando egli incornici
l'episodio in un circostanziato, fittizio colloquio tra Gesù e Pietro, in una
circostanziata e fittizia apologia di Pietro fatta da Gesù. E come credere
sicuramente alla prova fondamentale della divinità di Cristo, che è la
risurrezione, e alla prova fondamentale della risurrezione, che sono le
apparizioni, quando gli Evangelisti me le avrebbero narrate sbagliando, o gli
uni o gli altri, circostanze essenziali di luogo e di tempo, poiché, per es.,
non sarebbero conciliabili le apparizioni a Gerusalemme narrate da S. Giovanni
con quelle in Galilea narrate dai sinottici ?
Gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Quegli esegeti infatti che hanno ritenuto di dover abbandonare criticamente il
principio della piena storicità dei Vangeli, quando si trovano davanti a
qualunque difficoltà nel concordare diverse descrizioni particolari dei
medesimi fatti, negano subito e metodicamente la storicità di tutti i
particolari apparentemente discordanti.
Essi dicono: è difficile conciliarli, quindi
non passono essere storici. Mentre dovrebbero dire: sono storici e quindi
debbono essere conciliabili: e, messi coerentemente su questa strada, vi
riuscirebbero, pur restando nel rigoroso piano critico. Ciò di fatto è
possibile in tutti i casi in discussione: e mai con stiracchiature, anche se
talora con qualche residua difficoltà, derivante dalla insufficiente
informazione sulla complessa realtà.
Molte sono le illusioni logiche di questi
atteggiamenti esegetici. Si afferma che abbandonando la piena storicità e i
vani tentativi di armonizzazione dei vari testi i fatti vengono sfrondati dal
rivestimento secondario, emergendo così nella loro più robusta e profonda
sostanza. Per es., nel caso delle apparizioni, facendo cadere la circostanza
accidentale che alcune siano avvenute a Gerusalemme, resta che secondo tutti
gli Evangelisti, Gesù è apparso, gli Apostoli in un primo tempo non credettero
e poi l'hanno riconosciuto. Ma non si tiene conto del rilievo suddetto, che
cioè le circostanze di luogo, di tempo e di modo sono fondamentali per dare
solidità concreta alle apparizioni e per escludere il dubbio di ingannevoli
suggestioni (che costituiscono la difficoltà principale contro di esse).
Quello sfrondamento delle accidentalità
dalla sostanza dei fatti potrebbe avere qualche significato costruttivo solo
quando già si sapesse la esistenza dei fatti stessi. Ma invece la loro
prova pende proprio da quelle descrizioni, solo capaci di esprimere la
concretezza e quindi la realtà dei fatti.
Tali descrizioni risultano fondamentalmente
snervate da tale pretesa inesattezza dei narratori. Essi infatti, come
sarebbero caduti in inganno su quelle precise circostanze, così potrebbero
esservi caduti anche per la sostanza del fatto.
Si afferma anche che tale abbandono della
preoccupazione concordista libera la via al processo di approfondimento
critico, ossia alla scoperta del vero genere letterario dei testi,
attraverso la storia delle forme che permette di identificare i
successivi strati e i rispettivi generi della tradizione evangelica, rendendo
con ciò possibile di raggiungere le prime fonti, di comprenderne il carattere e
di chiarirne meglio il significato.
Ma in ciò si delinea una idea preconcetta e
una illusione. L'idea preconcetta è che il genere letterario dei Vangeli
non sia pienamente storico. L'illusione è di cercare la chiarificazione e la
sicurezza critica in quella storia delle forme notoriamente regolata da
criteri di congettura e di sola e talvolta limitatissima probabilità, variabile
da autore ad autore e da mentalità a mentalità. Si abbandona cioè - in base a
considerazioni generali preconcette (e ben poco consone al dogma della
ispirazione) e per risolvere difficoltà particolari di concordanza tutt'altro
che insuperabili il principio chiaro della piena storicità, per assumerne un
altro molto meno chiaro, meno conforme al dogma e capace di moltiplicare le
difficoltà particolari. Si vuol consolidare la casa fondata sulla roccia,
fabbricandola sulla rena.
In definitiva quelle considerazioni
generali, ispiratrici di tali criteri esegetici, si risolvono nella già vista
sopravvalutazione della limitatezza umana dello scrittore sacro, che - non
trattandosi di dettatura - deve lasciare la sua traccia. Si dimentica però che
l'influsso dell'autore principale, che è Dio, mirando essenzialmente alla
verità, deve correggere e vincere tale defettibilità umana nella linea appunto
della verità, ossia della storicità.
Quanto alle difficoltà particolari che
si opporrebbero alla piena storicità è veramente sintomatico notare la loro
minima consistenza, per cui si è indotti a pensare più che a una motivazione
veramente obiettiva, a una errata impostazione mentale, troppo ristretta e
naturalistica. Un esempio classico è dato dal fondamentale fatto delle
apparizioni. Perché non sarebbero avvenute veramente quelle narrate da S.
Giovanni, nel cenacolo di Gerusalemme, il giorno stesso della risurrezione e la
settimana dopo? Perché Gesù - dicono - aveva precedentemente ammonito i
discepoli di andare dopo la risurrezione in Galilea (Mt. 26, 32) e le donne
corse al sepolcro ebbero l'incarico di ricordarlo loro (Mt. 28, 7-10). Ma basta
riflettere allo stato d'animo depresso e incredulo in cui i discepoli erano
caduti - tanto che presero per vaneggiamento il messaggio delle pie donne (Lc.
24, 11) - e le apparizioni immediate nel cenacolo si spiegano benissimo come
meraviglioso gesto della divina misericordia, per rincuorarli e far loro
adempiere poi il prestabilito viaggio in Galilea, dove Gesù sarebbe più a lungo
apparso.
Un altro esempio - tra tanti - può essere
utile, sia per mostrare ancora la inconsistenza delle pretestuose difficoltà
che si opporrebbero alla piena storicità di alcune narrazioni, sia per mostrare
quali soggettive intuizioni si vorrebbero sostituire alla obiettività
della affermazione del testo. Perché il colloquio e la glorificazione petrina
di Mt. 16, 16-17 non sarebbero, così come sono narrati, storicamente
ammissibili e la promessa del primato di Pietro (ivi, 18-19) non avrebbe potuto
essere formulata così, in quel colloquio? Perché da un lato Pietro non poteva
essere allora capace di quell'atto di fede in Cristo e dall'altro la
glorificazione di Pietro da parte di Gesù contrasta con la opposta tonalità di
rimprovero, che si trova nel corrispondente e più ristretto passo di Mc. 8,
29-30. Ma la prima difficoltà non tiene conto dell'opera della grazia (cui non
contraddicono né i progressi di fede, né gli oscuramenti che poi ebbe Pietro);
la seconda non tiene conto che il rimprovero riguarda tutt'altra cosa e
soprattutto che esso c'è anche esattamente nel successivo v. 20 dello stesso
Matteo, senza quindi alcuna contraddizione con Marco. A questo punto sentiamo
alcuni autori di questa scuola sentenziare arbitrariamente che tale v. 20 è
«intuitivamente» fittizio! Troppo comoda questa esegesi.
Ma la più grave incoerenza logica di questa
mentalità esegetica è il fatale uso dei due pesi e delle due misure per non
infirmare gli altri testi scritturali dommatici più importanti.
Infatti, se tali criteri fossero usati, per
es., anche per testi fondamentali come quelli della istituzione della
Eucaristia, che congiungono alla unità della descrizione alcune notevoli
differenze, si avrebbero motivi molto più forti che negli esempi suddetti per
infirmarne la obiettività storica e il loro significato realistico. Solo il
sano concordismo sa vedere nella quadruplice descrizione dei sinottici e di S.
Paolo l'identità storica della grande affermazione di Gesù, integrata e resa
anzi tanto più sicura dalle diversità testuali, che danno un valore autonomo e
quindi maggiore a ognuna delle quattro testimonianze e conseguentemente al loro
complesso.
INCOERENZA
DEL MINIMISMO EVANGELICO
C'è un minimismo nei riguardi del
miracoloso e del soprannaturale - già considerato precedentemente - che
consiste nella metodica preferenziale interpretazione naturalistica dei
fatti, secondo la moderna tendenza della demitizzazione. Esso manca,
come si è visto, di coerenza, specialmente per la vita di Gesù, che attua nella
sua persona la vertiginosa soprannaturalità della unione ipostatica e
giustifica quindi, nei casi dubbi, la presunzione in favore del meraviglioso, o
per lo meno proibisce di sentenziare con sicurezza in senso naturalistico e
minimista.
Ma c'è un altro minimismo, più diffuso
ancora dell'altro, che come l'altro non sembra logico. E' la tendenza ad unificare
i fatti e i detti del Signore, appena si vedano rassomiglianti, quando siano
narrati, pur talora con notevole diversità, dai diversi Evangelisti e talora
anche dallo stesso. E' chiaro che questa tendenza moltiplica anche, in certi
casi, le difficoltà della concordanza, dovendosi conciliare tra loro
differenze, che sarebbero invece naturali nell'ipotesi di episodi diversi.
Un esempio tipico è la doppia cacciata dei
venditori dal tempio, allo inizio della vita pubblica (Gv. 2, 13-17) e alla
fine (Mt. 21, 12-12; Mc. 11, 15 -17; Lc. 19, 46-46). Nonostante vari
particolari diversi e la netta diversa localizzazione dei due clamorosi fatti,
la sostanziale rassomiglianza induce non pochi ad unificarli nell'unico episodio
narrato da Giovanni all'inizio.
Eppure uno spostamento così netto del giusto
posto cronologico da parte dei sinottici non è facile ad ammettersi anche per
la grande diversità psicologica ed ambientale dei due momenti. D'altra parte,
se l'episodio non fosse effettivamente avvenuto due volte, dato che i sinottici
parlano esplicitamente della sola ultima pasqua passata da Gesù a Gerusalemme
(quella della morte) sarebbe stato naturale che omettessero totalmente quello
avvenuto, come risulta da Giovanni, nella prima. Ciò tanto più che essi non
riferiscono le parole, riportate da S. Giovanni, dette in quella occasione da
Gesù nella contestazione seguita al suo gesto: «disfate pure questo tempio e in
tre giorni io lo farò risorgere» (Gv. 2, 19): parole che i sinottici, se si
fosse trattato nel loro racconto del medesimo episodio di Giovanni, avrebbero
avuto particolare interesse di riportare poiché ad esse si riferiscono nella
narrazione della passione (Mt. 26, 61; 27, 40).
Questa tendenza alla unificazione non tiene
sufficientemente conto della molteplice ricchezza della vita e
dell'insegnamento di Gesù - di cui gli episodi evangelici sono soltanto una
limitata espressione (Gv. 21, 25) - e della presumibile ripetizione di parole e
di gesta che il divino Maestro deve aver fatto per inculcare il suo
insegnamento, secondo il principio della buona pedagogia: «repetita iuvant».
Nel caso quindi di episodi un po' diversi e
diversamente collocati, l'affrettata tendenza alla unificazione non è
razionalmente fondata. Ci si dovrebbe anzi meravigliare che di ripetizioni ve
ne siano così poche. Tanto meno quella tendenza è ammissibile quando si tratta
di ripetizioni del medesimo Evangelista. Dando logico peso a tale presumibile
ripetizione anche molte difficoltà di concordanza - come dicevo - si risolvono.
Entrambe queste tendenze di minimizzazione
producono il grave inconveniente di impoverire la ricchezza della vita e del
messaggio di Gesù, ricchezza alla quale la mentalità umana - ristretta,
spontaneamente incline al naturalismo e propensa a ridurre tutto alla propria
misura dura già tanta fatica ad adeguarsi.
Nell'alternativa quindi o di interpretare
dei testi in modo troppo naturale ed unificato o d'interpretarli in modo troppo
soprannaturale e molteplice - quando l'indicazione del testo non sia certa - è
preferibile la seconda, perché essa contribuirà per accidens al migliore
adeguamento alla realtà, ossia al migliore adeguamento conoscitivo alla
superiore ricchezza di Gesù, sempre al di sopra di qualunque immaginazione e
concezione. Tutto l'opposto si dovrebbe dire se il protagonista fosse una
limitata comune persona umana. Ma qui si tratta della divina persona di Gesù.
Niente vieta naturalmente che, quando si
presenti il serio fondamento, nei singoli casi, della più probabile
interpretazione ristretta, tale probabilità - senza trasformarla
arbitrariamente in certezza - sia imparzialmente presentata: anzi ciò è
criticamente necessario. Ma ciò che appare non criticamente fondata è la
metodica preferenza per tale tipo d'interpretazione e il suo avallo come di
cosa certa.
Il danno che può derivare da tale tendenza
preferenziale alla adeguata conoscenza di Gesù, rimpiccolendone ingiustamente
la figura, è grande: tanto più - per tornare su una riflessione precedente - in
quanto una volta affermatasi - sul piano della pura probabilità - una
interpretazione minimista, difficilmente si riesumerà la più ricca
interpretazione forse più vera - potendosi quindi perdere per sempre
importanti luci della divina grandezza. Tornando all'esempio suddetto è facile
intuire quale portata immensamente maggiore acquista il gesto di Gesù, sia come
insegnamento ascetico e religioso, sia come drammatica rivelazione del cuore di
Gesù, sia come rivelazione della sua potenza umano-divina, ammettendo la doppia
cacciata dal tempio, proprio una all'inizio e una alla fine; e, alla fine,
proprio nella cornice dell'ingresso trionfale e della passione.
Dunque, si debbono scegliere le tesi
massimaliste per partito preso e al solo scopo di amplificare la vita di Gesù?
Chi ha seguito i precedenti ragionamenti comprenderà che si deve stare ben
lontani da tale criterio. E si deve anche essere ben lontani dal pensare che
ciò sia necessario per comprendere sostanzialmente la persona di Gesù. Si
tratta invece di usare la vera critica razionale, affermando come certo ciò che
è certo e come probabile ciò che è probabile. Ma dovendo, in questo secondo
caso, fare una scelta, il criterio preferenziale più logico è quello
massimalista.
Non si tratta che di un criterio prudente
per sbagliare il meno possibile e per aderire alla verità e comprendere Gesù il
meglio possibile.