NATALE DEL SIGNORE
NATALE DEL SIGNORE
- il
censimento del mondo,
- la nascita
del Salvatore,
- l’annuncio dell’angelo
ai pastori.
Con l’aiuto di Dio presenteremo brevemente ognuno dei
tre avvenimenti.
I. il censimento
del mondo
2. Censimento del mondo: “Uscì un editto”. Osserva che in
questa prima parte si dice, in senso morale, che chi vuole veramente pentirsi
dei peccati commessi, deve prima di tutto “fare il censimento”, “descrivere”
come dice il vangelo, con contrizione tutta la sua vita, e poi accostarsi alla
confessione.
“Uscì un editto di Cesare Augusto”. Cesare, che
s’interpreta “signore del potere”, e Augusto, “in solenne atteggiamento”,
rappresenta Dio onnipotente, Signore di tutto il creato: “La mia mano ha fatto
tutto questo” (Is 66,2); e “sotto di lui si piegano coloro che reggono
il mondo” (Gb 9,13), cioè il peso del mondo, quindi i prelati della
chiesa e principi del mondo. Dio sta in atteggiamento solenne perché, come dice
Daniele: “Mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano” (Dn
7,10).
Si dice che uno sta (in piedi) quando è pronto
ad andare in aiuto ai suoi; invece che siede, quando esercita il
giudizio: in entrambe le positure è nobile, solenne, maestoso.
Questo nostro “imperatore” emette ogni giorno un
editto per mezzo dei suoi banditori, cioè i predicatori della chiesa, perché
venga censito tutto il mondo. Il mondo è detto anche orbe, dal lat. orbis,
cerchio, appunto per la sua rotondità: infatti l’oceano, circondandolo da ogni
parte, ne lambisce tutt’intorno i confini. La vita dell’uomo è un orbe,
cioè come un cerchio: infatti nella Genesi gli viene detto: Sei terra e alla
terra ritornerai (cf. Gn 3,19).
L’uomo deve censire, deve descrivere tutto questo cerchio, ripensando nell’amarezza della sua anima a ciò che ha commesso nella fanciullezza, nell’adolescenza, nella giovinezza e anche nella vecchiaia. E osserva che dice “tutto” il cerchio, per indicare che deve descrivere i peccati commessi con il cuore, con la bocca, con le azioni, e i peccati di omissione, e le loro circostanze: e questo è indicato dal fatto che non dice “scrivere” ma “descrivere”, che significa scrivere i vari modi e i vari luoghi del peccato.
“Questo primo censimento fu fatto dal governatore
della Siria Quirino” (Lc 2,2).
Quirino,
che s’interpreta “erede”, è figura del penitente, erede di Dio e coerede di
Cristo (cf. Rm 8,17), il quale dice: “La mia eredità è splendida per me”
(Sal 15,6). Il penitente fa il primo censimento dei suoi peccati quando,
per prima cosa, cerca diligentemente, con profonda contrizione, ciò che ha
commesso e ciò che ha omesso. Egli è il governatore della Siria, nome che
significa “altezza”, cioè l’altezza della superbia e dell’arroganza. Dice
Giobbe del diavolo: “Egli vede tutte le cose alte, ed è il re di tutti i figli
della superbia” (Gb 41,25). Quale potere è più degno di lode, di quello
che si esercita su se stessi e nell’umiliare la propria superbia?
3. “E tutti andavano” (Lc 2,3). Ecco il giusto
procedimento da seguire nel pentirsi: prima censire tutti i propri peccati e
poi andare alla confessione. “Andavano tutti per farsi registrare” (Lc 2,3).
Ahimè, quanto pochi sono oggi quelli che vanno! Perciò si lamenta Geremia: “Le
vie di Sion piangono, perché non c’è chi si rechi alla solennità” (Lam 1,4).
Ma “Giuseppe” – cioè il vero penitente, “della casa e
della famiglia di Davide” (Lc 2,4), il re che veramente si pentì e alla
cui casa il Signore promise: “In quel giorno vi sarà una sorgente zampillante
per la casa di Davide” (Zc 13,1) – questo “Giuseppe” vi andò. La
sorgente della misericordia divina zampilla per la comunità dei penitenti, “per
la purificazione del peccatore e della donna immonda” (Zc 13,1), lava
cioè in essi sia i peccati palesi che quelli occulti.
“Giuseppe salì dalla Galilea”, – nome che significa
“ruota” (vicenda) e indica la suddetta descrizione della propria vita –, “dalla
città di Nazaret” (Lc 2,4), che significa “fiore”. Al fiore segue il
frutto: è per mezzo del fiore che si arriva al frutto. Così anche alla
contrizione deve seguire la confessione: per mezzo della contrizione si arriva
al frutto della confessione, cioè all’assoluzione e alla riconciliazione.
E osserva che Giuseppe salì “per farsi registrare
insieme con Maria, sua sposa, che era incinta” (Lc 2,5). Maria
s’interpreta “mare amaro”, e simboleggia la duplice amarezza con la quale il
penitente deve salire alla Giudea, cioè alla confessione, nella quale c’è la
città di Davide “che si chiama Betlemme”
(Lc 2,5), cioè “casa del pane”. E questa simboleggia il cibo
delle lacrime: “Le mie lacrime furono il mio pane” (Sal 41,4).
Con tutto questo concordano le
parole di Isaia: “Per la salita di Luchit salirà piangendo; sulla via di
Coronaim alzeranno grida di contrizione” (Is 15,5). Ecco il mare amaro.
Luchit s’interpreta “guance” o “mascelle”, Coronaim “sfogo della loro
tristezza”. Il piangente, cioè
il penitente, sale alla confessione tutto bagnato di lacrime, che dalle sue
guance salgono a Dio, come dice l’Ecclesiastico: “Le lacrime della vedova non
scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza forse contro chi
gliele fa versare? E dalle sue guance salgono fino al cielo, e il Signore che
esaudisce, forse non le gradirà?” (Eccli 35,1819). Lo sfogo della
tristezza è il dolore del cuore contrito, dal quale deve scaturire il grido
della confessione, che il penitente deve elevare per confessare tutto con
sincerità e chiarezza.
4. Osserva ancora che Giuseppe salì con Maria, che era
incinta. L’anima, amareggiate per il duplice dolore dei suoi peccati, viene
come impregnata dal timore di Dio, come dice Isaia: “Come colei che è incinta,
quando si avvicina il parto soffre e grida per il dolore, così siamo stati noi
davanti al tuo volto” o, secondo una diversa traduzione, “per paura di te”; “o
Signore, abbiamo concepito, abbiamo sofferto i dolori del parto, abbiamo
partorito lo spirito di salvezza” (Is 26,17-18). Il volto di Cristo, che
verrà per il giudizio, impregna di timore l’anima, affinché concepisca e
partorisca lo spirito di salvezza.
II. la nascita del
salvatore
5. “E avvenne che, mentre si trovavano lì...” (Lc 2,6).
Lì, dove? Nella casa del pane: anche Maria è la casa del pane. Il pane degli
angeli si è trasformato in latte per i bambini, affinché i bambini diventassero
angeli. “Lasciate che i bambini vengano a me” (Mc 10,14) perché succhino
e si sazino all’abbondanza della sua consolazione (cf. Is 66,11).
Osserva che il latte è di sapore dolce e di gradevole
aspetto. Così Cristo, come dice “Bocca d’Oro” (Giovanni Crisostomo),
attirava a sé gli uomini con la sua dolcezza come il diamante[1]
attira il ferro; egli afferma di se stesso: “Chi mangia di me avrà ancora fame
e chi beve di me avrà ancora sete” (Eccli 24,29); ed è anche di
incantevole aspetto, infatti gli angeli desiderano fissare in lui lo sguardo (cf.
1Pt 1,12).
“Si compirono per lei i giorni del parto” (Lc 2,6).
Ecco la pienezza dei tempi (cf. Gal 4,4), il giorno della salvezza (cf.
2Cor 6,2), l’anno della benevolenza” (cf. Sal 64,12). Dalla caduta
di Adamo fino all’avvento di Cristo fu tempo vuoto; infatti dice Geremia:
“Guardai la terra, ed ecco che era vuota e senza nulla” (Ger 4,23),
perché il diavolo aveva distrutto ogni cosa; fu giorno di dolore e di malattia;
dice infatti il salmo: “Sei sempre stato vicino al letto del suo dolore” (Sal
40,4); fu anno della maledizione, e dice la Genesi: “Maledetta sia la terra
per quello che hai fatto” (Gn 3,17). Ma oggi “si sono compiuti i giorni
del parto”. Dalla pienezza di questo giorno noi tutti abbiamo ricevuto (cf.
Gv 1,16). E il salmo: “Saremo riempiti con i beni della tua casa” (Sal
64,5).
A te, o beata Vergine, sia lode e gloria, perché oggi
siamo stati ricolmati dei beni della tua casa, cioè del tuo grembo. Noi che
prima eravamo vuoti, ora siamo pieni; noi che prima eravamo malati, ora siamo
sani; noi che prima eravamo maledetti, ora siamo benedetti, perché, come dice
il Cantico dei Cantici: “Ciò che da te proviene è il paradiso”, o Maria! (Ct
4,13).
6. Continua l’evangelista: “Diede alla luce il suo figlio
primogenito” (Lc 2,7). Ecco la bontà, ecco il paradiso! Correte dunque,
o ingordi, o avari, o usurai, voi cui piace più il denaro che Dio, correte e
comprate senza denaro e senza alcuna permuta (Is 55,1) il frumento e il
grano che oggi la Vergine ha tratto dal tesoro del suo grembo. Diede dunque
alla luce il figlio. Quale figlio? Il Figlio di Dio, Dio lui stesso. O tu,
donna più felice di ogni altra, che hai avuto il figlio in comune con Dio
Padre! Di quale gloria risplenderebbe una misera donna se avesse un figlio da
un imperatore di questo mondo? Di gran lunga più grande è la gloria di Maria
che ha condiviso il Figlio con Dio Padre.
“Partorì il Figlio suo”. Il Padre ha dato la
divinità, la Madre l’umanità; il Padre ha dato la maestà, la Madre l’infermità.
“Partorì il suo Figlio”, l’Emmanuele, cioè il “Dio con noi” (cf. Mt 1,23):
chi dunque sarà contro di noi? (cf. Rm 8,31).
Dice infatti Isaia: “Sul suo capo ha posto l’elmo
della salvezza” (Is 59,17). L’elmo è l’umanità, il capo è la divinità;
il capo è nascosto sotto l’elmo, la divinità è nascosta sotto l’umanità. Quindi
nessun timore: la vittoria è dalla nostra parte, perché con noi c’è un Dio in
armi. Grazie a te, o Vergine gloriosa, giacché per merito tuo Dio è con noi.
“Partorì dunque il figlio suo primogenito”, cioè generato
dal Padre prima di tutti i secoli; o anche primogenito tra i morti (cf. Col
1,18), oppure primogenito tra molti fratelli (cf. Rm 8,29).
7. “Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia” (Lc
2,7). O povertà, o umiltà! Il padrone di tutte le cose è avvolto in fasce,
il re degli angeli è adagiato in una stalla. Vergògnati, o insaziabile
avarizia! Sprofonda, o umana superbia!
“Lo avvolse in fasce”. Osserva che Cristo all’inizio
e alla fine della sua vita viene avvolto in fasce. “Giuseppe (d’Arimatea) –
dice Marco –, comprato un lenzuolo, calò Gesù dalla croce e ve lo avvolse” (Mc
15,46). Beato colui che finirà la sua vita avvolto nella sindone, cioè
nell’innocenza battesimale.
Il vecchio Adamo, quando fu cacciato dal paradiso
terrestre, venne ricoperto di una tunica di pelli (cf. Gn 3,21); la
pelle, quanto più si lava, tanto più si deteriora: e in ciò è raffigurata la
sua carnalità e quella dei suoi discendenti. Invece il nuovo Adamo viene
avvolto in panni, che nella loro bianchezza raffigurano il candore della Madre
sua, l’innocenza battesimale e la gloria della risurrezione finale.
“E lo depose in una mangiatoia, perché non c’era
posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7), detto in lat. diversorium.
Ecco – come è scritto nei Proverbi – “la cerva amabile e il delizioso
cerbiatto” (Pro 5,19). Dice la Storia Naturale che la
cerva partorisce nella strada battuta” (frequentata); così la beata Vergine partorì
nella strada, che è pure un diversorium, come l’albergo, così
chiamato perché ad esso si arriva da diverse strade.
III. l’annuncio
dell’angelo ai pastori
8. “C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano
di notte e custodivano il loro gregge” (Lc 2,8).
Le “veglie” si chiamano anche excubiae o
stazioni. In antico i romani dividevano la notte in quattro veglie (quattro
turni di guardia) e a turno custodivano la città. La notte raffigura la vita
presente, nella quale camminiamo a tastoni come di notte. Non ci vediamo
neanche tra di noi, cioè non vediamo la nostra coscienza; spesso inciampiamo
con i piedi, cioè con i nostri sentimenti ed affetti. Chi vuole custodire
validamente la sua città durante questa notte (della vita), deve stare alzato e
vegliare attentamente per tutti i quattro turni, fare cioè le quttro veglie.
La prima veglia raffigura l’impurità della nostra
nascita, la seconda raffigura la malizia e la cattiveria che ci accompagnano,
la terza raffigura lo stato miserando del nostro peregrinare e la quarta il
pensiero della morte. Nella prima l’uomo deve vegliare per umiliare e
disprezzare se stesso, nella seconda per mortificarsi, nella terza per piangere
e nella quarta per suscitare un salutare timore. Beati quei pastori che fanno
questo durante le quattro veglia di
questa notte, perché così difendono veramente il loro gregge.
Osserva che il pastore veglia sul suo gregge per due
motivi: per non essere derubato dai predoni, e perché il gregge non venga
assalito dal lupo. Tutti noi siamo pastori, e il nostro gregge è formato dai
nostri buoni pensieri e dai nostri santi desideri. Su questo gregge dobbiamo
fare un’attenta guardia durante le quattro veglie suddette, perché il predone,
cioè il diavolo non ci derubi con le sue maligne suggestioni, e il lupo, cioè
la concupiscenza della carne, non ci assalga strappandoci il consenso. A coloro
che vegliano in questo modo viene annunziata la gioia di questa natività.
9. “E l’angelo disse ai pastori: Ecco, io vi annunzio una
grande gioia, perché oggi vi è nato il Salvatore...” (Lc 2,10.11). Con
questo concordano le parole della Genesi: “Nacque Isacco. E Sara disse: Il
Signore mi ha dato il sorriso e chiunque lo saprà, sorriderà con me “ (Gn
21,5-6). Sara s’interpreta “principessa” o “carbone”, ed è figura della
gloriosa Vergine, principessa e regina nostra, infiammata dallo Spirito Santo
come il carbone dal fuoco. Oggi Dio le ha dato il sorriso, perché da lei è nato
il nostro sorriso. “Io vi annunzio una grande gioia”, perché è nato il sorriso,
perché è nato Cristo.
Questo abbiamo udito oggi dall’angelo: “Chiunque lo
sentirà, sorriderà insieme con me”. Sorridiamo dunque ed esultiamo insieme con
la beata Vergine, perché Dio ci ha dato il sorriso, cioè il motivo di sorridere
e di gioire con lei e in lei: “Oggi vi è nato il Salvatore”. Se uno si trovasse
in punto di morte o fosse condannato all’ergastolo, e gli venisse annunziato:
Ecco, è arrivato uno che ti salverà! Forse che non sorriderebbe, forse che non
esulterebbe? Certamente! Esultiamo quindi anche noi, nella serenità della
coscienza e nell’amore autentico (cf. 2Cor 6,6), perché oggi ci è nato
il Salvatore, colui che ci salverà dalla schiavitù del diavolo e dall’ergastolo
dell’inferno.
10. E per trovare questa gioia ci è dato un segno, quando
l’angelo soggiunge: “Questo sarà per voi il segno: troverete un bambino avvolto
in fasce e adagiato in una mangiatoia” (Lc 2,12). Qui dobbiamo osservare
due cose: l’umiltà e la povertà. Beato colui che avrà questo segno nella fronte
e nella mano, cioè nella professione di fede e nelle opere. Che cosa significa
dire: “Troverete un bambino”, se non che troverete la sapienza che balbetta, la
potenza resa debole, la maestà abbassata, l’immenso fatto bambino, il ricco
fattosi poverello, il re degli angeli che giace in una stalla, il cibo degli
angeli divenuto quasi fieno per gli animali, colui che da nulla può essere
contenuto, adagiato in una stretta mangiatoia? “Questo dunque sarà per voi il
segno”, perché non andiate in rovina insieme con gli Egiziani e gli abitanti di
Gerico.
Per il Verbo incarnato, per il parto verginale, per
il Salvatore nato sia gloria a Dio Padre nei cieli altissimi, e sia pace in
terra agli uomini che egli ama (cf. Lc 2,14). Si degni di concederci
questa pace colui che è benedetto nei secoli. Amen.
IV. sermone
allegorico
11. “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio;
sulle sue spalle è stato posto il potere; e il suo nome sarà: ammirabile,
consigliere, Dio, forte, Padre del secolo futuro, principe della pace” (Is
9,6). E ancora: “Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, che
sarà chiamato Emanuele” (Is 7,14), cioè “Dio con noi”.
Questo Dio si è fatto per noi bambino e oggi per noi
è nato. Cristo ha voluto essere chiamato “bambino” per molte ragioni, ma per
brevità ne illustro una sola. Se fai un’ingiuria a un bambino, se lo provochi
con un insulto, se lo percuoti, ma poi gli mostri un fiore, una rosa o qualcosa
del genere, e mentre gliela mostri fai l’atto di dargliela, non si ricorda più
dell’ingiuria ricevuta, gli passa l’ira e corre ad abbracciarti. Così, se
offendi Cristo con il peccato mortale e gli fai qualsiasi altra ingiuria, ma
poi gli offri il fiore della contrizione o la rosa di una confessione bagnata
dalle lacrime – le lacrime sono il sangue dell’anima –, egli non si ricorda più
della tua offesa, perdona la colpa e corre ad abbracciarti e a baciarti. Dice
infatti Ezechiele: “Se l’empio farà penitenza di tutti i peccati che ha
commesso, io non mi ricorderò più di tutte le sue iniquità” (Ez 18,21.22).
E Luca, parlando del figlio prodigo: “Lo vide suo padre e, mosso a pietà, gli
corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,20). E nel
secondo libro dei Re si racconta che Davide accolse con benevolenza Assalonne,
che aveva ucciso il fratello, e lo baciò (cf. 2Re 14,33).
Oggi dunque ci è nato un bambino. E quali vantaggi ci
sono venuti dalla nascita di questo bambino? Grandissimi vantaggi sotto ogni
aspetto. Senti Isaia: “Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il
bambino metterà la sua mano nel covo del regolo (serpente velenoso); non
nuoceranno più e non uccideranno più in tutto il mio santo monte” (Is
11,8-9).
Il regolo, (che significa piccolo re),
perché si pensava fosse il re dei serpenti; questo serpente velenoso, detto
anche aspide, raffigura il diavolo, e la sua buca e il suo covo sono i cuori
dei cattivi, nei quali il nostro bambino ha messo la sua mano quando con la
potenza della sua divinità ne ha estratto il diavolo stesso. Dice Giobbe:
“Dalla sua mano, che operava da ostetrica, fu estratto il tortuoso serpente” (Gb
26,12).
È compito dell’ostetrica
estrarre dalle tenebre il frutto del parto, e portarlo alla luce. Così Cristo,
con la mano della sua potenza, strappò l’antico serpente, il diavolo, dai cuori
tenebrosi dei reprobi: e così quel serpente e i suoi satelliti non potranno più
recare danno ai corpi, se non con il suo permesso; infatti i diavoli non
poterono entrare nei porci se non dopo il suo permesso (cf. Mc 5,13); e
non potranno più colpire le anime di morte eterna. Prima della venuta del Salvatore, i diavoli avevano
sul genere umano tanto potere, da infierire turpemente sui corpi degli uomini e
da trascinare miseramente le anime all’inferno. Ma d’ora in poi non potranno
più fare danni “in tutto il mio santo monte”, cioè in tutta la mia chiesa,
nella quale io stesso dimoro.
12. “Ci è stato dato un figlio”. Concorda con questo ciò che
leggiamo nel secondo libro dei Re: “A Gob ci fu, contro i Filistei, la terza
battaglia, nella quale Adeodato, il betlemita che tesseva stoffe variopinte,
figlio di Salto, uccise Golia di Get” (2Re 21,19). Osserva che la prima
battaglia avvenne nel deserto: “Gesù fu condotto nel deserto...” (Mt 4,1);
la seconda avvenne nella pianura, cioè in pubblico: “Gesù stava scacciando un
demonio” (Lc 11,14) [davanti alla folla]; la terza avvenne sul legno
[della croce]: inchiodato su di essa, Cristo sconfisse i filistei, cioè le
potenze dell’aria (cf. Ef 2,2).
Questa terza battaglia avvenne a Gat, nome che
significa “lago”: avvenne cioè nelle piaghe del Salvatore, e soprattutto nella
piaga del costato, dalla quale scaturirono i due fiumi della nostra redenzione.
In questo lago, Gesù ci è stato dato unicamente dalla misericordia di Dio
Padre, per essere il nostro campione. Egli fu “figlio di Salto” perché,
come dice Marco, stava nel deserto con le fiere (cf. Mc 1,13); oppure
“figlio di Salto”, perché fu coronato di spine[2].
“Che tesseva stoffe variopinte”:
Cristo si preparò nel grembo verginale di Maria la veste variopinta, cioè l’umanità,
ornata dei doni della grazia settiforme; “fu betlemita” perché oggi è nato
dalla Vergine a Betlemme. O anche: fu “figlio di Salto” nella passione; sarà
“tessitore di stoffe variopinte” nella risurrezione finale, perché allora ci
rivestirà della veste variopinta, ornata delle quattro doti dei corpi
glorificati; sarà infine “betlemita” nell’eterno convito. Così il nostro
campione, il nostro atleta, colpito nel lago della passione, sconfisse e
debellò Golia di Get, cioè il diavolo.
13. “E fu posto sulle sue spalle il potere”. E anche qui
abbiamo la concordanza con ciò che dice la Genesi: “Abramo prese la legna per
l’olocausto e la pose sulle spalle di Isacco, suo figlio” (Gn 22,6). E
dice Giovanni: “ [Gesù], portando la croce, si avviò verso il luogo chiamato
Calvario” (Gv 19,17).
O umiltà del nostro Redentore! O pazienza del nostro
Salvatore! Egli, da solo, porta per tutti il legno al quale sarà appeso,
inchiodato; sul quale dovrà morire e, come dice Isaia, “il Giusto perisce e non
c’è alcuno che mediti nel suo cuore” (Is 57,1).
“E fu posto sulle sue spalle il potere”. Dice il
Padre, per bocca di Isaia: “Porrò sulla sua spalla la chiave della casa di
Davide” (Is 22,22). La chiave è la croce di Cristo, con la quale egli ci
ha aperto la porta del cielo. E osserva che la croce è detta “chiave” e
“potere”: chiave perché apre il cielo agli eletti, potere perché con la sua
potenza precipita i demoni all’inferno.
14. “E sarà chiamato ammirabile nella nascita, consigliere
nella predicazione, Dio nell’operare i miracoli, forte nella
passione, Padre del secolo futuro nella risurrezione. Infatti quando
risuscitò, lasciò a noi, come eredità ai figli dopo di sé, la sicura speranza
della risurrezione. E nell’eternità sarà per noi il principe della pace.
Si degni di prepararci questa pace lui stesso che è
benedetto nei secoli. Amen.
V. sermone morale
15. “È nato per noi un bambino”. Di questo bambino, dice il
vangelo: Se non vi convertirete e non diventerete come questo bambino, ecc. (cf.
Mt 18,3). Osserva: il bambino quando è sveglio, nella sua culla, piange; se
è nudo non arrossisce; se è sculacciato si riguia in braccio alla mamma. La
mamma, quando vuole svezzarlo, si unge di amaro le mammelle; il bambino non sa
nulla della malizia del mondo; è incapace di fare peccati; non fa del male al
prossimo; non serba rancore; non odia nessuno; non cerca ricchezze; non è
sedotto dalla bellezza di questo mondo; non fa preferenza di persone.
Il bambino simboleggia il penitente convertito che,
dopo essere stato una volta con il cuore gonfio di superbia, altero e borioso
nelle parole, tronfio nella sua ricchezza, ora è diventato piccolo, umile e
spregevole ai propri occhi. Quando è sveglio, quando cioè richiama alla mente
il suo precedente modo di vivere, piange amaramente; divenuto nudo e povero per
amore di Cristo non arrossisce, e neppure si vergogna di denudare se stesso
nella confessione; se subisce un’ingiuria non si offende, ma corre alla chiesa
e prega per coloro che lo calunniano e lo perseguitano.La chiesa lo ha, per
così dire, svezzato quando con l’amarezza dei castighi e delle pene gli ha
cosparso la mammella del piacere carnale, alla quale era solito succhiare.
Le altre analogie sono chiare, e quindi vanno intese
alla lettera.
Quando perciò un mondano si converte e diventa
“bambino” di Cristo, con il giubilo del cuore e l’allegria nella voce, dobbiamo
prorompere dicendo: “Ci è nato un bambino”. E Giovanni: “La donna”, cioè la
chiesa, “quando partorisce” con la predicazione o con la misericordia verso i
peccatori, “è afflitta; ma quando ha dato alla luce” con la contrizione e con la confessione “il
bambino”, cioè il neoconvertito, “ non si ricorda più della sofferenza, per la
gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16,21). E di Giovanni “grazia
di Dio” [il Battista] è detto: “Molti si rallegreranno della sua nascita” (Lc
1,14).
16. “Ci è stato dato un figlio”. Siano
rese grazia a Dio, perché da uno schiavo del mondo e del diavolo abbiamo
ricevuto un figlio di Dio, il quale dice nel salmo: “Il Signore mi ha detto: Tu
sei mio figlio, io oggi ti ho generato” per mezzo della grazia, tu che ieri eri
schiavo a causa della colpa; e giacché sei figlio “chiedi a me, ti darò in
possesso le genti”, cioè i pensieri ribelli, “e in eredità e in dominio i
confini della terra” (Sal 2,7-8), cioè i sensi del tuo corpo, perché tu
sappia dominarli.
“Figlio”, del quale è detto nella Genesi: “Figlio che
cresce, Giuseppe, figlio che cresce, e bello di aspetto” (Gn 49,22).
“Che cresce” per la povertà, come dice Giuseppe stesso: “Dio mi fece crescere
nella terra della mia povertà” (dov’ero povero) (Gn 41,52). “Bello
d’aspetto” per l’umiltà: infatti è detto nella Genesi che “Rachele”, nome che
s’interpreta “pecora”, e quindi umile, era “bella nel volto e avvenente di
aspetto” –(Gn 29,17). “Ci è stato dato”. “Infatti era morto ed è
ritornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,24). E a che
scopo ci è stato dato? E a che scopo è stato ritrovato? Proprio per l’esercizio
della penitenza.
17. “Ed è stato posto il potere sopra le sue spalle”.
Concordano le parole della Genesi: “Issacar è un asino robusto, sdraiato entro
i confini. Ha visto che il riposo era bello e che la terra era ottima. Ha
piegato le spalle a portare pesi” (Gn 49,14-15).
Issacar, che s’interpreta “uomo della ricompensa”,
raffigura il penitente che lavora virilmente per l’eterna ricompensa, ed è
quindi chiamato “asino robusto”. Di lui è detto nell’Ecclesiastico: “Cibarie,
bastone e soma per l’asino” (Eccli 33,25). Cibo qualunque, perché non
venga meno; il bastone della povertà perché non insolentisca e non recaltrici;
la soma, il peso dell’obbedienza perché non si disabitui alla fatica. Con
queste tre rimedi si prepara la medicina per il penitente.
“È sdraiato entro i confini”. I due confini sono
l’ingresso alla vita e l’uscita da essa, la nascita e la morte. È tra questi
confini colui che pensando alla sua nascita si umilia, e pensando alla morte
piange. Lo stolto non sta entro i due confini, ma piuttosto si sistema al
centro di essi. È detto perciò nel libro dei Giudici: “Perché te ne stai tra i
due confini per sentire i belati dei greggi?” (Gdc 5,16).
Il centro tra la nascita e la morte è la vanità del
secolo, di questo tempo; i greggi sono gli stimoli della carne; ne ascolta i
belati, cioè i lusinghieri richiami, colui che si adagia nella vanità del
secolo. Invece il penitente, che dimora entro i confini, alza gli occhi della
mente e contempla il riposo della gloria beata: quanto sia perfetta nella
glorificazione del corpo, come sia veramente una terra di eterna sicurezza,
quanto sia insuperata nella contemplazione della Trinità; piega la sua spalla
a reggere il potere, cioè il giogo della penitenza, per mezzo della quale
domina se stesso e vince le tentazioni. Dice infatti l’Ecclesiastico: “Piega la
tua spalla e pòrtala! (Eccli 6,26), la penitenza.
18. “E sarà chiamato ammirabile,
consigliere, Dio, forte, Padre del secolo futuro, principe della pace”. In
questi sei nomi è compendiata la perfezione del penitente, o del giusto.
Infatti è ammirabile nel diligente esame e
nella frequente revisione di se stesso, e vede quindi cose meravigliose nel
profondo del suo cuore. Per questo è mirabile anche Giobbe, la cui pazienza
tutto il mondo ammira: “Io – diceva – non terrò chiusa la mia bocca: parlerò
nell’angoscia del mio spirito, converserò nell’amarezza della mia anima” (Gb
7,11). L’angoscia dello spirito e l’amarezza dell’anima non lasciano nulla
fuori discussione, quando tutto viene esaminato e vagliato con la massima
diligenza.
È consigliere nelle necessità corporali e
spirituali del prossimo, come dice Giobbe: “Fui occhio per il cieco, piede per
lo zoppo” (Gb 29,15). Il cieco è colui che non vede nella sua coscienza;
lo zoppo è colui che devia dal retto sentiero della giustizia. Ma il giusto è
buon consigliere per entrambi, perché al primo è occhio nell’insegnargli a
scoprire il guasto della sua coscienza; al secondo è piede, sostenendolo e
guidandolo affinché compia i passi delle opere nella via della giustizia.
È Dio. Nel governare i sudditi, il giusto è
chiamato “dio” solo di nome, in quanto fa le veci di Dio. Infatti il Signore
dice a Mosè: “Ecco che io ti ho costituito “dio” del faraone” (Es 7,1).
E anche: “Se non viene scoperto il ladro, il padrone di casa si accosterà a
Dio”, cioè ai sacerdoti, e giurerà che non ha allungato la mano sulle cose del
suo prossimo” (Es 22,8). E ancora: “Io ho detto: voi siete Dei” (Sal
81,6). In altro senso: Dio si dice in greco Theòs, vale a dire “che
guarda” – in quanto deriva da theorèo, guardare – perché guarda tutte le
cose; thèo vuol dire anche corro, perché Dio percorre, passa
in rassegna tutte le cose. Il penitente è detto “dio”, cioè che guarda e che
percorre: guarda infatti le cose superiori con la contemplazione, e perciò
corre con la mente a quelle passate solo
per impegnarsi alla penitenza.
È forte nel combattere le tentazioni. Si legge
nel libro dei Giudici: “Comparve un giovane leone infuriato, che correva
ruggendo verso Sansone. Ma lo Spirito del Signore investì Sansone, il quale
squartò il leone come si fosse trattato di fare a pezzi un capretto” (Gdc
14,5-6). Il giovane leone raffigura lo spirito di superbia o di lussuria e
simili: infuria con la sua insistenza, rugge con l’astuzia; compare
all’improvviso e assale con violenza. Ma quando lo spirito della contrizione,
dell’amore e del timore di Dio investe il penitente, questi squarta lo spirito
di superbia simboleggiato nel leone, e fa a pezzi lo spirito di lussuria,
simboleggiato nel capretto, a motivo del suo fetore: distrugge
meticolosamente quel peccato e le sue
circostanze.
È padre del secolo futuro, nella predicazione
della parola e in quella dell’esempio. Dice l’Apostolo: “Figlioli miei, che io
di nuovo partorisco, finché in voi non sia formato Cristo” (Gal 4,19). E
anche: “Io vi ho generato in Cristo, mediante il vangelo” (1Cor 4,15), per l’eterna vita.
È principe della pace nell’armoniosa
coabitazione dello spirito e del corpo. Dice Giobbe: “Le fiere della terra”,
cioè gli impulsi della tua carne, “ saranno in pace con te; e constaterai che
anche la tua tenda gode della pace” (Gb 5,23-24). E anche: “Sepolto”,
cioè nascosto al mondo per mezzo della contemplazione, “dormirai sicuro.
Riposerai e non ci sarà chi ti spaventi” (Gb 11,18-19).
Si degni di concederci tutto
questo, colui che è benedetto nei secoli. Amen.