Iucunda sane - san Pio X
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san Pio X
Iucunda sane
san Pio X
Iucunda sane
Memoria di san Gregorio Magno e della sua
opera restauratrice, ecclesiastica e civile. Richiamo alla formazione del
clero. Attenzione alla musica liturgica: nel ricordo e nella rievocazione di
San Gregorio Magno, detta norme sulla musica liturgica 1.
Gioconda certo torna la memoria, venerabili
fratelli, di quel grande "incomparabile uomo" (Martyrologium Romanum,
3 sept.), il pontefice Gregorio, primo di questo nome, la cui solennità
centenaria, al volgere del secolo XIII dalla sua morte, stiamo per celebrare.
Da quel Dio, che "mortifica e vivifica, ... che umilia e solleva" (1
Re 2, 6.7), tra le cure quasi innumerabili del ministero Nostro apostolico, tra
le tante angosce dell’animo per i molti e gravi doveri che il governo della chiesa
universale C’impone, tra le insistenti sollecitudini di soddisfare nel miglior
modo possibile voi, venerabili fratelli, chiamati a partecipare del Nostro
apostolato, e i fedeli tutti affidati alle Nostre cure, non senza una
particolare provvidenza fu disposto, così pensiamo, che il Nostro sguardo negli
inizi del Nostro sommo pontificato si rivolga subito su questo santissimo e
illustre antecessore Nostro, onore della chiesa e decoro. L’animo infatti si
apre a grande fiducia nella sua validissima intercessione presso Dio, e si
riconforta nel ricordare sia le massime sublimi che inculcò con l’alto suo
magistero, sia le virtù santamente da lui praticate. E se per la forza delle
une e per la fecondità delle altre egli impresse nella chiesa di Dio un’orma sì
vasta, sì profonda, sì duratura, che giustamente i contemporanei e i posteri
gli diedero il nome di "Grande", e oggi ancora dopo tanti secoli si
verifica l’elogio della sua iscrizione sepolcrale: "egli vive eterno in
ogni luogo per le innumerabili sue buone opere" (Apud IOANNEM DIACONUM,
Vita Gregorii, lib. IV, c. 68), non può fare che ai seguaci tutti
dei suoi mirabili esempi, col conforto della grazia divina, non sia dato di
adempiere i propri doveri per quanto lo consenta l’umana debolezza.
Ed è cosa veramente ammirabile quant’egli
ottenne nei poco più di tredici anni del suo governo. Fu ristoratore
dell’intera vita cristiana, ravvivando la pietà dei fedeli, l’osservanza dei
monaci, la disciplina del clero, la cura pastorale dei vescovi. Quale
"padre prudentissimo della famiglia di Cristo", mantenne e
accrebbe i patrimoni della chiesa e largamente sovvenne, secondo la necessità
propria di ciascuno, al popolo immiserito, alla società cristiana, alle singole
chiese. "Divenuto" veramente "console di Dio", spinse
la sua azione feconda ben oltre le mura di Roma e tutta in bene della società
civile. Si oppose energicamente alle ingiuste pretese degli imperatori
bizantini; rintuzzò le audacie e represse le vergognose ingordigie degli
esarchi e degli officiali imperiali, ergendosi a pubblico difensore della
giustizia sociale. Ammansì la ferocia dei Longobardi, non dubitando di andare
egli stesso in persona incontro ad Agilulfo alle porte di Roma, al fine di
smuoverlo dall’assedio della città, come già aveva fatto con Attila il papa
Leone Magno; né mai in seguito si trattenne dalle preghiere, dalle soavi
persuasioni, dagli accorti negoziati, finché non vide quietare quel popolo
temuto e ordinarsi a più regolare governo, finché non lo seppe guadagnato alla
fede cattolica; per opera specialmente della pia regina Teodolinda sua figlia in
Cristo. Perciò Gregorio può a buon diritto chiamarsi salvatore e liberatore
dell’Italia, della "terra sua", come egli soavemente la
chiama. Per le incessanti sue cure pastorali si vanno spegnendo i resti
dell’eresia in Italia e in Africa, si riordinano le cose ecclesiastiche nelle
Gallie, si rassodano nella conversione già cominciata i Visigoti delle Spagne,
e l’inclita nazione inglese, la quale "posta in un angolo del mondo,
mentre finora rimaneva ostinata nel culto dei legni e delle pietre", accoglie
anch’essa la vera fede di Cristo. Il cuore di Gregorio sovrabbonda di gioia
alla notizia di sì preziosa conquista, come quello di un padre che riceve tra
le braccia il figlio suo dilettissimo e ne riferisce ogni merito a Gesù
redentore, "per il cui amore", come scrive egli stesso,
"rintracciamo nella Bretagna sconosciuti fratelli, per la cui grazia
troviamo quelli che ignari andavamo cercando" (Registrum Epistularum, XI,
36 (28), Ad Augustinum Anglorum episcopum).
E la nazione inglese fu sì grata al santo pontefice
che lo chiamo sempre: "maestro nostro, dottore nostro, apostolico nostro,
papa nostro, Gregorio nostro", e considerò se stessa come il sigillo del
suo apostolato. Per ultimo la sua azione fu così salutarmente efficace che la
memoria delle cose da lui operate s’impresse profondamente negli animi dei
posteri, particolarmente durante il medioevo, che respirava, per così dire,
dell’aria da lui infusa, si nutriva della sua parola, conformava la vita e i
costumi a seconda dei suoi esempi, introducendosi felicemente nel mondo la
civiltà sociale cristiana in opposizione a quella romana dei secoli precedenti
per sempre tramontata.
"Questa è mutazione della mano
dell’Altissimo"! E ben si può dire che nella mente di Gregorio non altro
che la mano di Dio fu operatrice di sì grandi imprese. Di fatto, così scriveva
egli al santissimo monaco Agostino a proposito della ricordata conversione
degli angli e può applicarsi a tutto il resto nella sua azione apostolica:
"Di chi è mai quest’opera, se non di colui, il quale disse: Il Padre mio
opera fino al presente e io pure opero? Per mostrare al mondo che voleva
convertirlo, non con la sapienza degli uomini, ma con la sua virtù, elesse a
predicatori del mondo uomini illetterati; e questo medesimo fece pur ora,
essendosi degnato di operare fra la gente degli angli cose forti, per mezzo di
uomini deboli". Noi riconosciamo senza dubbio quel che la
profonda umiltà del santo pontefice nascondeva al suo sguardo: e la perizia
negli affari, e l’ingegno accorto nel condurre a termine, le imprese, e la
prudenza mirabile in ogni disposizione, e la vigilanza assidua e la
sollecitudine perseverante. Ma è certo insieme, che egli non si fece innanzi
con la potenza e con la forza dei grandi della terra, laddove invece
nell’altissimo grado della dignità pontificia volle chiamarsi per primo:
"Servo dei servi di Dio"; non si aprì la strada soltanto con la
scienza profana ovvero con le "persuasive parole dell’umana sapienza"
(1 Cor 2, 4), non con le accortezze della civile politica, neppure con i
sistemi di rinnovamento sociale abilmente studiati e preparati e quindi posti
in esecuzione; neppure infine, e ciò è meraviglioso, col proporsi un vasto
programma di azione apostolica da attuare gradualmente; mentre al contrario,
come è noto, il suo pensiero era pieno dell’idea di una prossima fine del mondo
e perciò del pochissimo tempo che rimaneva per le grandi azioni. Debolissimo e
gracile di corpo, continuamente afflitto da infermità che più volte lo
ridussero in fin di vita, egli possedeva una incredibile energia di spirito, la
quale riceveva sempre nuovo alimento dalla fede viva nella parola infallibile
di Cristo e nelle sue divine promesse. Inoltre con fiducia illimitata contava
sulla forza soprannaturale da Dio data alla chiesa per bene compiere la sua
divina missione nel mondo.
Per questo il proposito costante della sua
vita, quale è comprovato da tutte le sue parole e da tutte le sue opere, fu
questo: di mantenere in sé e suscitare negli altri questa medesima viva fede e
confidenza, operando tutto il bene che tornasse per il momento possibile in
attesa del giudizio divino.
Ne seguiva in lui la volontà risoluta di
adoperare per la comune salvezza l’esuberante ricchezza dei mezzi
soprannaturali dati da Dio alla sua chiesa, quali sono la dottrina infallibile
delle verità rivelate, la predicazione efficace di tale dottrina in tutto il
mondo e i sacramenti che hanno virtù d’infondere o di accrescere la vita
dell’anima, e la grazia della preghiera nel nome di Cristo che assicura la
protezione celeste.
Questi ricordi, venerabili fratelli, ci
tornano di indicibile conforto. Se dall’alto di queste mura vaticane volgiamo
attorno lo sguardo, a somiglianza di Gregorio e forse più ancora di lui
dobbiamo temere; tante sono le tempeste addensate da ogni lato, tanti gli
eserciti nemici che premono, e tanto insieme è l’abbandono in cui siamo di ogni
umano sussidio per ribattere le une e sostenere l’impeto degli altri. Ma se
riflettiamo dove poggiano i Nostri piedi, dove questa sede pontificia è
collocata, Ci sentiamo del tutto sicuri sulla rocca della santa chiesa.
"Chi infatti ignora", scriveva s. Gregorio al patriarca Eulogio di
Alessandria, "che la santa chiesa è fondata sulla solidità del primo degli
apostoli, il quale trasse nel nome la fermezza della sua mente al punto da
chiamarsi, dalla pietra, Pietro?". La forza soprannaturale
della chiesa nel passare dei secoli non è venuta mai meno, né fallirono le
promesse di Cristo; e come già consolavano il cuore di Gregorio, tali si
mantengono, anzi per Noi acquistano maggiore forza nella riprova di tanti
secoli, nel vario corso di tanti avvenimenti.
Passarono regni e imperi, tramontarono popoli
fiorenti per nome e per civiltà, più volte le nazioni come accasciate dal peso
degli anni si disfecero in se medesime. Ma la chiesa, indefettibile nella sua
essenza, unita con vincolo indissolubile al suo Sposo celeste, è qui fulgente
di eterna giovinezza, forte del medesimo primitivo vigore, quale uscì dal cuore
trafitto di Cristo spirato in croce. Uomini potenti del secolo si sollevarono
contro di lei. Essi sparirono, ma ella rimase. Sorsero sistemi filosoci
innumerabili, d’ogni forma, d’ogni genere, superbamente vantandosene i maestri,
quasi avessero finalmente sbaragliata la dottrina della chiesa, rifiutati i
dogmi della fede, dimostrato l’assurdo dei suoi insegnamenti. Ma quei sistemi
l’un dopo l’altro si annoverano nelle storie, dimenticati, falliti; mentre
dalla rocca di Pietro rifulge così sfolgorante la luce della verità, come quel
giorno che Gesù l’accese al suo apparire nel mondo e le diede l’alimento della
sua divina parola: "Passerà il cielo e la terra, ma le mie parole non
passeranno" (Mt 24, 35).
Noi, nutriti di questa fede, resi solidi su
questa pietra, sentendo nel fondo dell’animo tutti i doveri gravissimi che il
primato C’impone, ma insieme tutto il vigore che per volontà divina in Noi
deriva, attendiamo tranquilli che si sperdano al vento le tante voci che ci
gridano intorno che la chiesa cattolica ha finito il suo tempo, che le sue
dottrine sono per sempre tramontate, che da qui a poco essa si vedrà condannata
o ad accettare i pareri della scienza e della civiltà senza Dio o a sparire
dall’umano consorzio. Insieme però non possiamo fare a meno di ricordare a
tutti, grandi e piccoli, come già fece il papa Gregorio, la necessità assoluta
di ricorrere a questa chiesa per avere la salute eterna, per battere la diritta
via della ragione, per nutrirsi della verità, per conseguire la pace e la
stessa felicità di questa vita terrena.
Perciò, per usare le parole del santo pontefice,
"volgete i vostri passi a questa pietra inconcussa, sopra la quale il
Redentore nostro volle fondata la chiesa universa, perché il cammino di chi è
sincero di cuore non incontri ostacoli e si smarrisca". Soltanto la carità
della chiesa e l’unione con essa "unisce la divisione, riordina ciò che è
confuso, tempera le ineguaglianze, compie le imperfezioni". Fermamente
è da ritenere che nessuno può con rettitudine governare le cose terrene, se non
sa trattare le celesti, e che "la pace degli stati dipende dalla pace
universale della chiesa". Nasca quindi l’assoluta necessità di
una perfetta armonia tra i due poteri, ecclesiastico e civile, essendo ambedue
per volere di Dio chiamati a sostenersi l’un l’altro. Di fatto, "la
potestà sugli uomini tutti fu data dal cielo affinché siano aiutati quelli che
aspirano al bene, perché la via del cielo si apra più largamente, perché il
regno terrestre serva al celeste".
Da questi princìpi proveniva l’invitta
fermezza d’animo di Gregorio, che Noi, con l’aiuto di Dio, Ci studieremo
d’imitare, proponendoci di volere ad ogni costo difendere i diritti e le
prerogative, onde il pontificato romano è custode e vindice innanzi a Dio e
innanzi agli uomini. Perciò il medesimo Gregorio scriveva ai patriarchi di
Alessandria e di Antiochia: Quando si tratti dei diritti della chiesa universa,
"dobbiamo dimostrare anche con la morte, che per amore di qualche nostro
particolare interesse, nulla vogliamo che torni a danno del bene comune".
E all’imperatore Maurizio: "Chi per vana ostentazione di gloria leva
la sua cervice contro Dio onnipotente e contro gli statuti dei Padri, non
piegherà a sé la mia cervice, neppure col taglio delle spade, come io confido
nello stesso Dio onnipotente". E al diacono Sabiniano: "Sono pronto a
morire anziché permettere che ai miei giorni la chiesa degeneri. E tu ben
conosci le mie abitudini, che io sopporto a lungo; ma se io poi mi decido di
non sopportare più oltre, vado incontro ai pericoli con animo lieto".
Tali erano le massime fondamentali che andava
annunziando il papa Gregorio, ed era ascoltato. Così nella docilità dei
prìncipi e dei popoli alla sua parola il mondo riconquistava la salute vera e
si rimetteva nella via della civiltà, tanto più nobile e feconda di beni,
quanto meglio era fondata sui dettami inconcussi della ragione e della
disciplina morale e traeva ogni forza dalla verità divinamente rivelata e dalle
massime dell’evangelo.
Ma allora i popoli, sebbene rozzi, ignoranti,
privi ancora di ogni civiltà, erano però avidi di vita. Nessuno poteva loro
darla, se non Cristo per mezzo della chiesa: "Io sono venuto perché
abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza" (Gv 10, 10). Ed ebbero
veramente la vita e abbondante, appunto perché dalla chiesa non potendo venire
altra vita se non quella soprannaturale delle anime, questa racchiude in sé e
rafforza tutte le altre energie della vita, anche solo di ordine naturale.
"Se la radice è santa, santi saranno pure i rami", diceva Paolo al
popolo etnico "e tu pure essendo oleastro sei stato innestato in quelli e
sei divenuto partecipe della radice e della fecondità dell’olivo" (Rm 11,
16.17).
Oggi al contrario, sebbene il mondo goda una
luce sì piena di civiltà cristiana e sotto questo aspetto non possa neppur
lontanamente paragonarsi a quello dei tempi di Gregorio, sembra però stanco di
quella vita, che pure è stata ed è ancora fonte precipua e spesso unica di
tanti beni, non soltanto passati, ma anche presenti. Né solo, come avvenne in
altri tempi al sorgere delle eresie e degli scismi, taglia sé stesso fuori del
tronco quasi ramo inutile, ma pone la scure alla radice prima dell’albero che è
la chiesa, e si sforza di inaridirne il succo vitale, perché la rovina di lei
sia più sicura ed essa più non rigermini.
In questo errore, che è il massimo del nostro
tempo e la fonte da cui derivano tutti gli altri, sta l’origine di tanta
perdita dell’eterna salute degli uomini e di tante rovine in fatto di religione
che andiamo lamentando, e delle molte altre che temiamo ancora, se non si pone
rimedio al male. Si nega cioè ogni ordine soprannaturale, e perciò l’intervento
divino nell’ordine della creazione e nel governo del mondo e la possibilità del
miracolo; tolte le quali cose è necessario scuotere i fondamenti della
religione cristiana. S’impugnano perfino gli argomenti, con i quali si dimostra
l’esistenza di Dio, rifiutando con inaudita temerarietà e contro i primi
princìpi della ragione la forza invincibile della prova che dagli effetti
ascende alla causa, che è Dio, e alla nozione dei suoi attributi infiniti.
"Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili
possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come
la sua eterna potenza e divinità" (Rm 1, 20). Resta quindi aperto l’adito
ad altri errori gravissimi, ugualmente ripugnanti alla retta ragione e nocivi
ai buoni costumi.
Di fatto la gratuita negazione del principio
soprannaturale, propria "della scienza di falso nome" (1 Tm 6, 20),
diviene il postulato di una critica storica ugualmente falsa. Tutto ciò che si
riferisce in qualsiasi modo all’ordine soprannaturale, perché o gli appartiene,
o lo costituisce, o lo presuppone, o perché solo in esso trova la sua
spiegazione, è cancellato senz’altro esame dalle pagine della storia. Tale è la
divinità di Gesù Cristo, la sua incarnazione per opera dello Spirito santo, la
sua risurrezione per virtù propria e in genere tutti i dogmi della nostra fede.
Posta così la scienza sopra una falsa via, non c’è più legge critica che la
trattenga, ed essa cancella a capriccio dai libri santi tutto ciò che non le
garba o crede contrario alla tesi prestabilita che vuoi dimostrare. Tolto
infatti l’ordine soprannaturale, la storia delle origini della chiesa deve
fabbricarsi su tutt’altro fondamento; e perciò i novatori rimaneggiano a
proprio talento i momenti della Storia, traendoli a dire quel che essi
vogliono, non quel che intesero gli autori.
Molti restano tanto presi dall’apparato
straordinario di erudizione che si ostenta e dalla forza apparentemente
convincente delle prove addotte, che o perdono la fede o se ne sentono
gravemente scossi. Ci sono pure di quelli che, fermi nella loro fede, accusano
la scienza critica come demolitrice, mentr’essa è per sé innocente ed elemento
sicuro di ricerca, quando sia rettamente applicata. Né gli uni né gli altri si
avvedono del falso presupposto, da cui pigliano le mosse, vogliamo dire la
scienza di falso nome, la quale logicamente li spinge a conclusioni ugualmente
false. Posto cioè un falso principio filosofico, torna viziata ogni cosa.
Perciò la confutazione di questi errori non sarà mai efficace, se non si cambia
la posizione; cioè se gli erranti non si traggono dal campo critico, dove si
credono trincerati, in quello legittimo della filosofia, abbandonato il quale,
attinsero l’errore.
Intanto però è doloroso dover applicare ad
uomini, ai quali non mancano l’acutezza della mente e la costanza
dell’applicazione, il rimprovero che Paolo faceva a coloro, che dalle cose
terrene non ascendono a quelle che sfuggono allo sguardo: "Svanirono nei
loro pensamenti e si ottenebrò lo stolto loro cuore: infatti, dicendo di essere
saggi, diventarono stolti" (Rm 1, 21-22). E davvero non altro che stolto
deve dirsi colui che consuma tutte le sue forze intellettuali a fabbricare
sulla rena.
Né meno lagrimevoli sono i guasti, che da
quella negazione provengono alla vita morale degli individui e della società
civile. Tolto il principio che nulla di divino esiste oltre questo mondo
visibile, assolutamente non c’è più ritegno alcuno alle sbrigliate passioni,
anche più basse e indegne, donde asserviti gli animi si abbandonano a disordini
d’ogni specie. "Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del
loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi" (Rm 1, 24). Voi
ben vedete, venerabili fratelli, come veramente trionfi dappertutto la peste
dei depravati costumi, e come l’autorità civile, laddove non ricorra agli aiuti
dell’anzidetto ordine soprannaturale, non sia affatto capace di frenarla. Anzi
l’autorità non sarà capace di sanare gli altri mali, se si dimentica o si nega
che ogni potere viene da Dio. Il freno unico d’ogni governo è allora la forza;
la quale però, né costantemente si adopera, né sempre può aversi alla mano;
perciò il popolo si va logorando come per un occulto malessere, d’ogni cosa è
scontento, proclama il diritto di agire a suo arbitrio, attizza le ribellioni,
suscita le rivoluzioni degli stati, talvolta turbolentissime, mette sottosopra
ogni diritto umano e divino. Tolto di mezzo Dio, ogni rispetto alle leggi
civili, ogni riguardo alle istituzioni anche più necessarie viene meno; si
disprezza la giustizia, si calpesta la stessa libertà proveniente dal naturale
diritto; si giunge perfino a distruggere la compagine stessa della famiglia,
che è il fondamento primo e inconcusso della compagine sociale. Ne segue che,
ai tempi nostri ostili a Cristo, si rende più difficile l’applicare i rimedi
potenti, dal Redentore messi in mano alla chiesa, al fine di mantenere i popoli
nel loro dovere.
E nondimeno non c’è salvezza se non in Cristo:
"Infatti non sotto il cielo altro nome dato agli uomini grazie al quale
possiamo essere salvati" (At 4, 12). A lui dunque occorre tornare. Ai suoi
piedi conviene di nuovo prostrarsi per ascoltare dalla sua bocca divina le
parole di vita eterna; poiché egli solo può additarci la via della
rigenerazione, egli solo insegnarci la verità, egli solo restituirci la vita.
Egli appunto ha detto: "Io sono la via e la verità e la vita" (Gv 14,
6). Si è tentato nuovamente di operare quaggiù senza di lui; si è cominciato a
costruire l’edificio, scartando la pietra angolare, come l’apostolo Pietro
rimproverava ai crocifissori di Gesù. Ed ecco di nuovo la mole innalzata si
sfascia e ricade sugli edificatori e li stritola. Ma Gesù rimane pur sempre la
pietra angolare della società umana, e di nuovo si verifica che fuori di lui
non c’è salvezza: "Questa è la pietra rigettata da voi che fabbricate, la
quale è divenuta testata d’angolo, né in alcun altro c’è salvezza" (At 4,
11-12).
Di qui riconoscerete facilmente, venerabili
fratelli, l’assoluta necessità che ci stringe tutti di risuscitare con la
massima energia dell’animo e con tutti i mezzi di cui possiamo disporre,
codesta vita soprannaturale in ogni ordine della società: nel povero operaio
che suda da mane a sera per guadagnarsi un tozzo di pane e nei grandi della
terra che reggono i destini delle nazioni. È da ricorrere anzitutto alla
preghiera privata e pubblica, per implorare le misericordie del Signore e
l’aiuto suo potente. "Signore, salvaci; siamo perduti" (Mt 8, 25),
dobbiamo ripetergli come già gli apostoli sbattuti dalla tempesta.
Ma ciò non basta. Gregorio se la prende col
vescovo, che per amore della stessa solitudine spirituale e della preghiera,
non scende in campo a combattere strenuamente per la causa del signore:
"Egli porta privo di senso il nome di vescovo". E con ogni
diritto; infatti conviene illuminare gli intelletti con la predicazione
continua della verità, ribattendo efficacemente gli errori coi princìpi della
vera e solida filosofia e teologia e coi mezzi tutti che provengono dal genuino
progresso dell’investigazione storica. Più ancora è necessario inculcare
convenientemente nella mente di tutti le massime morali insegnate da Gesù
Cristo; perché ognuno impari a vincere se stesso, a frenare le passioni
dell’animo, a fiaccare l’orgoglio, a vivere soggetto all’autorità, ad amare la
giustizia, ad esercitare la carità verso tutti, ad attenuare con amore
cristiano le dure disuguaglianze sociali, a staccare il cuore dai beni della
terra, a vivere contento dello stato in cui la Provvidenza ha posto ciascuno,
cercando in esso di migliorare con l’adempimento dei propri doveri, ad anelare
alla vita futura nella speranza del premio eterno. Ma soprattutto è necessario
che questi princìpi s’insinuino e penetrino fin dentro al cuore, affinché la
vera e soda pietà vi metta profonde radici, e ognuno, come uomo e come
cristiano, riconosca, non a parole soltanto, ma coi fatti, i propri doveri e
ricorra con fiducia filiale alla chiesa e ai suoi ministri, per ottenere da
loro il perdono delle colpe, ricevere la grazia fortificante dei sacramenti e
riordinare la propria vita secondo le leggi cristiane.
A questi fondamentali doveri del ministero
spirituale è necessario congiungere la carità di Cristo, mossi dalla quale non
vi sia afflitto che per noi non si consoli, non lacrime che dalle nostre mani
non siano asciugate, non bisogno che da noi non sia sollevato. All’esercizio di
tale carità consacriamoci totalmente; cedano ad essa tutte le nostre cose, ad
essa si pospongano gli interessi nostri personali e le proprie comodità,
"facendoci tutto a tutti" (1 Cor 9, 22) per guadagnare tutti al
Signore, dando la stessa nostra vita, sull’esempio di Cristo, che ne impone il
dovere ai pastori della chiesa: "Il buon pastore dà la vita per le sue
pecore" (Gv 10, 11). Questi preziosi ammonimenti abbondano nelle pagine
che Gregorio ha lasciato scritte, e sono espressi con forza di gran lunga
maggiore nei molteplici esempi della sua vita ammirabile.
Ora siccome tutte queste cose sgorgano
necessariamente e dalla natura dei princìpi della rivelazione cristiana e dalle
proprietà intrinseche che deve avere il nostro apostolato, voi ben vedete,
venerabili fratelli, quanto siano in errore coloro che stimano di rendere
servizio alla chiesa e di fruttificare alla salute delle anime, allorché per
una tale prudenza della carne sono larghi di concessioni alla scienza di falso
nome, nella funesta illusione di poter così guadagnare più facilmente gli
erranti, ma in verità nel continuo pericolo di andar perduti essi stessi. La verità
è una sola e non può essere dimezzata; essa perdura eterna e non va soggetta
alle vicende dei tempi: "Gesù Cristo ieri e oggi, egli (è) anche nei
secoli" (Eb 13, 8).
E così pure sbagliano gravemente coloro, che
nell’occuparsi del pubblico bene, soprattutto sostenendo la causa delle classi
inferiori, promuovono sopra ogni cosa il benessere materiale del corpo e della
vita, tacendo affatto del loro bene spirituale e dei doveri gravissimi che
ingiunge la professione cristiana. Non si vergognano di coprire talvolta quasi
con un velo certe massime fondamentali dell’evangelo, per timore che altrimenti
la gente rifugga dall’ascoltarli e seguirli. Non sarà certo alieno dalla
prudenza il procedere a poco a poco nella stessa proposizione della verità,
quando si ha a che fare con uomini del tutto alieni da noi e del tutto lontani
da Dio. "Prima di adoperare il ferro, occorre palpare con mano leggera le
ferite", diceva Gregorio. Ma anche questo espediente si ridurrebbe a
prudenza della carne, se si proponesse come norma di azione costante e comune;
tanto più che in tal modo sembra non tenersi nel debito conto la grazia divina,
che sostiene il ministero sacerdotale e che è data, non solo a quelli che lo
esercitano, ma anche ai fedeli tutti di Cristo, perché le nostre parole e la
nostra azione facciano breccia nei loro cuori. Gregorio non conobbe affatto
questa prudenza, sia nella predicazione dell’evangelo, sia nelle tante e sì
mirabili opere da lui intraprese a sollievo delle miserie altrui. Egli continuò
costantemente quel medesimo che avevano fatto gli apostoli, i quali, allorché
si lanciarono la prima volta nel mondo a portarvi il nome di Cristo, ripetevano
il detto: "Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei,
stoltezza per i gentili" (1 Cor 1, 23). Se v’era tempo in cui la prudenza
umana pareva unico espediente ad ottener qualche cosa in un mondo del tutto
impreparato a ricevere dottrine, sì nuove, sì ripugnanti alle umane passioni,
sì opposte alla civiltà, allora ancor floridissima, dei greci e dei romani,
certo era quello della prima predicazione della fede. Ma gli apostoli
disdegnarono quella prudenza; perché ben conoscevano il precetto di Dio:
"Piacque a Dio di salvare i credenti per mezzo della stoltezza della
predicazione" (1 Cor 1, 21). E come fu sempre, così oggi ancora questa
stoltezza per quelli che sono salvati, cioè per noi, è la virtù di Dio" (1
Cor 1, 18). Lo scandalo del Crocifisso, come per l’innanzi, così sempre in
seguito ci fornirà l’arma più potente di tutte; come altra volta, così di poi,
in quel segno otterremo vittoria.
Tuttavia, venerabili fratelli, quest’arma
perderà della sua efficacia o sarà del tutto inutile, se si trovasse in mano di
uomini, che non siano assuefatti alla vita interiore con Cristo, non educati
nella scuola della vera e soda pietà, non appieno infiammati di zelo per la
gloria di Dio e per la propagazione del suo regno. Gregorio sentiva
siffattamente questa necessità, che adottava la più grande sollecitudine nel
creare vescovi e sacerdoti, animati da gran desiderio dell’onore divino e del
vero bene delle anime. E tale intento si propose nel libro della Regola
pastorale, dove sono raccolte le norme per la salutare formazione del clero e
per il governo dei vescovi, molto utili non solo ai tempi suoi ma anche ai nostri.
Egli, come annota il suo biografo, "a guisa di Argo luminosissimo girava
intorno gli occhi della sua pastorale sollecitudine per tutta l’ampiezza del
mondo", per scoprire e correggere le mancanze e le negligenze del clero.
Ché anzi tremava al solo pensiero, che la barbarie o l’immoralità potessero far
presa nella vita del clero; e andava profondamente scosso e non si dava più
pace, allorché avvertiva qualche infrazione alle leggi disciplinari della
chiesa, e subito ammoniva, correggeva, minacciando pene canoniche ai
trasgressori, talvolta applicandole immediatamente egli stesso, tal altra senza
dilazione alcuna e senza alcun umano riguardo rimuovendo gli indegni dal loro
officio.
Inoltre inculcava molte massime, che in simile
forma di frequente leggiamo nei suoi scritti: "Con quale animo prende
l’officio di mediatore del popolo presso Dio, chi non è conscio di essere
familiare della sua grazia per il merito della vita?". - "Se nel suo
operare vivono le passioni, con quale presunzione s’affretta a medicare il
ferito chi porta la piaga in volto?". Qual frutto si potrà sperare nei
fedeli cristiani, se i messaggeri della verità "combattono coi costumi,
quel che predicano con le parole?". - "Davvero non può
togliere i delitti altrui, chi ne va guastato" (Regula pastoralis, I, 11).
Così egli intende e descrive l’immagine del
vero sacerdote: "È colui che, morendo a tutte le passioni della carne, già
vive spiritualmente; colui che ha posposto le prosperità del mondo; colui che
non teme affatto le avversità; colui che brama soltanto le cose interiori;
colui che non si lascia prendere dal desiderio delle cose altrui, ma è generoso
nel dare del proprio; colui che, tutto viscere di pietà, è incline al perdono,
ma nel perdono non devia mai più di quel che convenga dall’apice della
rettitudine; colui che non commette mai cose illecite, ma le cose illecite
altrui deplora come sue proprie; colui che con ogni affetto del cuore
compatisce l’altrui debolezza, e della prosperità del prossimo si allieta, come
del suo proprio profitto; colui che in ogni cosa sua così si rende modello agli
altri, da non avere onde arrossire, nemmeno circa le azioni passate; colui che
si studia di vivere in modo che possa anche irrigare gli aridi cuori del
prossimo con le acque della dottrina; colui che per l’uso dell’orazione e per
la propria esperienza conosce già di poter ottenere dal Signore quel che
domanda" (Regula pastoralis, I, 10).
Quanto dunque, venerabili fratelli, ha da
pensare il vescovo seriamente con se stesso e innanzi a Dio, prima di imporre
le mani ai novelli leviti! "Né per grazia di alcuno, né per suppliche che
si facciano, ardisca mai di promuovere alcuno ai sacri ordini, se il tenore
della vita e delle azioni sue non lo dimostri degno". Quanto
maturamente deve riflettere prima di affidare le opere dell’apostolato ai
sacerdoti novelli! Se non siano debitamente provati sotto vigile custodia di
sacerdoti più prudenti, se non consti nel modo più aperto della loro onestà di
vita, del loro affetto per gli esercizi spirituali, della pronta loro volontà
di seguire obbedienti le norme tutte di azione, o suggerite dalla consuetudine
ecclesiastica, o comprovate dalla diuturna esperienza, o imposte da coloro che
"lo Spirito santo pose vescovi a reggere la chiesa di Dio" (At 20,
28) eserciteranno il ministero sacerdotale, non già in salute, ma in rovina del
popolo cristiano. Infatti susciteranno discordie, provocheranno più o meno
tacite ribellioni, offrendo al mondo il triste spettacolo di una quasi
divisione d’animi tra noi, mentre in verità questi fatti deplorabili non sono
altro che orgoglio e indisciplinatezza di alcuni pochi. Oh, siano del tutto
rimossi da ogni officio gli eccitatori della discordia. Di tali apostoli la
chiesa non ha bisogno; non sono apostoli di Gesù Cristo crocifisso, ma di se
stessi.
Ci par di vedere tuttora presente al Nostro
sguardo l’immagine di Gregorio nel Concistoro del Laterano, circondato da gran
numero di vescovi d’ogni parte e da tutto il clero di Roma. Oh come sgorga dal
suo labbro feconda l’esortazione sui doveri del clero! Come si consuma di zelo
il suo cuore! Le sue parole sono fulmini che schiantano il perverso, sono
flagelli che scuotono l’indolente, sono fiamme di amore divino che soavemente
investono il più fervente. Leggete, venerabili fratelli, e fate leggere e
meditare al vostro clero, specialmente nell’annuale ritiro degli esercizi
spirituali, quella stupenda omelia di Gregorio.
Con indicibile amarezza egli esclama tra
l’altro: "Ecco, il mondo è pieno di sacerdoti, ma è assai difficile
trovare chi si impegna nella messe di Dio, perché abbiamo sì ricevuto
l’ordinazione sacerdotale ma non ne adempiamo gli obblighi". E
invero, quale forza non avrebbe oggi la chiesa, se in ogni sacerdote potesse
contare l’operaio? Quale larghissimo frutto non produrrebbe nelle anime la vita
soprannaturale della chiesa, se fosse da tutti efficacemente promossa? Gregorio
ha saputo strenuamente suscitare ai tempi suoi questo spirito di energica
azione, e per la spinta da lui data, ottenne che il medesimo spirito si
mantenesse nelle età seguenti. L’intero medioevo reca l’impronta, per dir così,
gregoriana; da quel pontefice infatti riconosceva pressoché ogni cosa: e le
regole del governo ecclesiastico, e quelle molteplici della carità e della
beneficenza nelle istituzioni ufficiali, e i princìpi dell’ascetica cristiana
più perfetta e della vita monastica, e l’ordinamento della liturgia e l’arte
del canto sacro.
I tempi sono di gran lunga cambiati. Ma, come
più volte abbiamo ripetuto, nulla è cambiato nella vita della chiesa. Essa ha
ereditato dal suo divin Fondatore la virtù di offrire a tutti i tempi, sebbene
diversi fra loro, quanto è richiesto, non solo al bene spirituale delle anime,
ciò che è proprio della sua missione, ma anche quanto giova al progresso della
vera civiltà, ciò che da quella missione discende come naturale conseguenza.
Non è infatti possibile che le verità
dell’ordine soprannaturale, onde la chiesa è depositaria, non promuovano
altresì tutto ciò che è vero, buono e bello nell’ordine naturale, e questo con
tanta maggiore efficacia, quanto più tali
verità si riferiscono al princìpio supremo di ogni verità, bontà e bellezza,
che è Dio.
La scienza umana guadagna di gran lunga dalla
rivelazione, sia perché questa apre nuovi orizzonti e fa conoscere speditamente
altre verità di semplice ordine naturale, sia perché apre la retta via
all’investigazione o la tiene lontana dagli errori di applicazione e di metodo.
Così un faro luminoso ai naviganti che solcano l’oceano nelle tenebre della
notte addita molte cose che altrimenti non si vedrebbero, e insieme addita gli
scogli, contro i quali sbattendo, la nave potrebbe naufragare.
E nelle discipline morali, poiché il divin
Redentore ci propone quale modello supremo di perfezione il suo Padre celeste
(Mt 5, 48), cioè la bontà stessa divina, che non vede quanto impulso ne venga
all’osservanza sempre più perfetta della legge naturale iscritta nei cuori, e
quindi al sempre maggiore benessere dell’individuo, della famiglia, della
società tutta? La ferocia dei barbari fu così ridotta a gentili costumi, la
donna fu liberata dall’abiezione, fu repressa la schiavitù, restituito l’ordine
nella conveniente dipendenza reciproca delle varie classi sociali, riconosciuta
la giustizia, proclamata la libertà vera delle anime, assicurata la pace domestica
e sociale.
Le arti infine, richiamato l’esemplare supremo
d’ogni bellezza che è Dio, dal quale deriva tutta la bellezza della natura, più
sicuramente si ritraggono dai volgari concetti e più efficacemente s’innalzano
ad esprimere l’idea, che d’ogni arte è vita. Il solo principio di adoperarle a
servizio del culto, e quindi di offrire al Signore quanto nella ricchezza,
nella bontà ed eleganza delle forme si stima più degno di lui, oh come è stato
fecondo di bene! Esso ha creato l’arte sacra, che divenne ed è tuttora il
fondamento di ogni arte profana. Abbiamo recentemente di ciò trattato in un
particolare Nostro motu proprio, parlando del ristabilimento del canto romano
secondo l’avita tradizione e della musica sacra. Ma quelle norme medesime si applicano
anche, secondo la varia materia, alle arti, così che conviene alla pittura,
alla scultura, all’architettura quel che si dice del canto, giacché di tutte
queste nobilissime creazioni del genio la chiesa è stata in ogni tempo
ispiratrice e mecenate. L’umanità intera, nutrita di questo sublime ideale,
innalza templi grandiosi, e quivi nella casa di Dio, come in casa sua propria,
solleva la mente alle cose celesti, in mezzo alle splendide ricchezze di ogni
arte bella, tra la maestà delle cerimonie liturgiche, tra le dolcezze del
canto.
Tutti questi benefici, ripetiamo, l’azione di
papa Gregorio seppe ottenere ai tempi suoi e nei secoli a lui seguenti; e tanto
per l’intrinseca efficacia dei princìpi ai quali dobbiamo ricorrere e dei mezzi
che abbiamo alla mano, sarà possibile ottenere ancor oggi, mantenendo con ogni
studio il buono che per grazia di Dio ancora si conserva "ristorando in
Cristo" (Ef 1, 10) quanto per disgrazia dalla retta norma fosse deviato.
Ci piace metter fine a questa Nostra lettera
con le parole medesime, onde Gregorio concludeva la sua memoranda esortazione
nel concistoro del Laterano. "Riflettete con sollecitudine a tutto questo
nel vostro intimo, o fratelli, e attuatelo al cospetto del vostro prossimo,
rendendovi, così, pronti a presentare a Dio onnipotente i frutti del ministero
che vi è stato affidato. A queste mete, di cui si è detto, si arriverà più con
la preghiera che con la parola. Preghiamo: O Dio, che hai voluto chiamarci
pastori fra il popolo, concedi a noi, ti supplichiamo, di poter essere ai tuoi
occhi come siamo chiamati dalla voce degli Uomini".
E mentre per l’intercessione del santo
pontefice Gregorio confidiamo di ottenere da Dio il benigno esaudimento della
nostra preghiera, auspice dei celesti favori e testimone della Nostra
benevolenza paterna, a voi tutti, venerabili fratelli, al clero e al popolo
vostro, impartiamo con tutto l’affetto del cuore l’apostolica benedizione.
Roma, presso S. Pietro, 12 marzo 1904, festa
di S. Gregorio I, papa e dottore della Chiesa, nell’anno primo del Nostro
pontificato.
1 Il contenuto
di questa enciclica riassume la preoccupazione della Chiesa di dare ordine alla
materia della musica sacra. Già il Concilio di Trento si era occupato della
materia nel secolo XVI, mostrando avversione all’introduzione della musica
profana nelle cerimonie religiose. Pio X, con un suo "motu proprio"
del 23 novembre 1903, aveva dettato in argomento norme precise e severe,
tendenti a ristabilire come obbligatorie le norme dettate dal Pontefice Gregorio
I il Grande (590-604) che da lui prendono il nome (canto gregoriano). Pertanto
venne vietata ogni modificazione ai testi delle preghiere per essere adattate
al canto; vietata la traduzione dal latino dei testi medesimi; anche gli
strumenti sono rigorosamente limitati, con esclusione del pianoforte, dei
tamburi, della grancassa, dei campanelli; sono poi esclusi i pezzi sinfonici
che precedano o interrompano il canto. Tali norme severe sono poi state
attenuate con disposizioni successive.