IL MODERNISMO TEOLOGICO E IL SUO SISTEMA DI CONCILIAZIONE
La Civiltà Cattolica anno 59° vol. 2 (fasc. 1388, 10 aprile 1908), Roma 1908 pag. 170-187.
IL MODERNISMO TEOLOGICO E IL SUO SISTEMA DI CONCILIAZIONE
La contraddizione teoretica e la ipocrisia pratica inerente per necessità logica all'assurdità del modernismo – come accennavamo nei precedenti articoli [1], comprovando le asserzioni dell'enciclica con le testimonianze di capiscuola modernisti – appare ben manifesta nella sintesi delle dottrine nebulose del modernista credente: fede ridotta primariamente a un intuito della coscienza, a un'adesione del cuore o esperienza intima, e insomma a un sentimento sui generis; rivelazione a quell'eccitamento psicologico, organico, talora anche morboso che lo causa, a una « emozione » partecipata immediatamente alla coscienza di ciascuno, che è pure esperienza o via di esperienza; tradizione a una trasmissione di siffatta esperienza; ispirazione a un impulso o bisogno di spiegare o « formulare l'esperienza »; domma a una concezione umana, come « formula » ordinata a rappresentare, o piuttosto a simboleggiar l'esperienza secondo categorie mutabili del pensiero umano; e via via, con vario, ambiguo ed esotico frasario, che pallia ma non mitiga l'enormezza degli errori.
Ma più anche appare evidente, l'una e l'altra contraddizione dell'assurdo, quando inseguendo il modernismo nei suoi infiniti rigiri, nelle sue sparse e molteplici manifestazioni, se non in tutte le conseguenze innumerevoli e pestifere dei suddetti principii, si veda raccolto – quello che prima si dava per semplice metodo o per tendenza teologica – in un dottrinale proprio, quasi in un corpo di teologia, fermo, determinato e complesso, o vogliamo dire in un formale e proprio sistema teologico. Allora ci si scopre un sistema ibrido di negazioni, il quale si stende a tutte universalmente le parti della teologia cristiana, a tutte fa contrasto arditamente e tutte le vuole abbattere dai fondamenti per ricostruire su le macerie dell'antica la nuova teologia. Quindi un sistema che è di proposito l'antitesi della teologia cristiana e cattolica, a quel modo stesso e per le stesse ragioni, che la filosofia del modernista filosofo è antitesi di filosofia razionale e la fede del modernista credente è negazione della fede religiosa, come abbiamo dimostrato precedentemente dietro i passi dell'enciclica. E ciò intende inculcare l'enciclica stessa, mentre stringe in una sintesi vigorosa gli elementi sparsi e fluttuanti, ma non fittizii, delle premesse e delle conseguenze teologiche più gravi del modernista teologo, come prima del filosofo e del credente; poichè, giova ripeterlo, questo smascherare l'errore n'è la prima e più necessaria, come la più opportuna e la più efficace confutazione. Nè per altro titolo, crediamo noi, ne presero tanto sdegno i modernisti ostinati, nè per altro ancora essi protestano di non voler sapere di sillogismi, di logica, di sintesi definitiva. Sdegno impotente e inutile protesta, perchè niuno può presumere di opporsi alla legge stessa del pensiero; e il modernista che ciò presume, si smentisce da se stesso con la contraddizione intrinseca dell'errore: contraddizione tanto più riprovevole ed enorme in chi ha preteso escogitare un sistema nuovo di conciliazione tra la scienza e la fede, la cultura nuova e la teologia antica, il progresso dell'evoluzionismo e il trionfo del cattolicismo.
La contraddizione sgorga anche qui da tutte le parti dell'edifizio che si sfascia; da tutti e singoli i punti della nuova teologia; giacchè tutti si manifestano di primo tratto ripugnanti all'uno insieme e all'altro dei due elementi che si vorrebbero comporre in nobile accordo.
Ma non potendo noi dilungarci nei particolari, la cui espressa e distinta confutazione per il nesso intimo delle questioni trarrebbe seco un troppo ampio trattato di pressochè tutta la teologia cristiana, ci restringeremo da capo ad uno sguardo sintetico del tutto, cioè del sistema complesso già sopra mentovato, del modernista teologo; il quale è tutt'uno col modernista credente e col filosofo, e in quanto assegna le fonti e i principii della sua teologia, e in quanto spiega la genesi e la evoluzione dei suoi « germogli » di fede.
II.
Alla doppia contraddizione teoretica e pratica del modernismo teologico, in quanto sistema di conciliazione nuova tra scienza e fede, allude anzitutto l'enciclica, quando ci addita il modernista scendere « sull'arena teologica », spiegare alla luce del sole la sua recondita teologia – brevis profecto supellex, sed ei superabundans... – più che abbondante cioè a lui che professa doversi stare in tutto alle così dette conclusioni della scienza: teologia perciò « tutta ligia ai deliramenti dei filosofi »; quindi con filosofemi esoterici, con finzioni o speculazioni umane studiarsi a ingrossare questa sua tenue suppellettile teologica; da filosofie esoteriche, da speculazioni umane, non daa fonti divine, non da un deposito sacro di rivelazione, attingere l'interpretazione dei misteri divini, come anche la spiegazione tutta dell'origine, dello svolgimento, del progresso dei floridi e rigogliosi « germogli » della sua fede. Tutto ciò per ottenere il gran fine che è appunto, dice l'enciclica, « la conciliazione della fede con la scienza, restando però sempre incolume il primato della scienza su la fede ».
Questo atteggiamento ardito e contradittorio del teologo modernista che scende nell'arena teologica disarmato affatto di tutte le armi della teologia, di ogni presidio di parola divina scritta o tramandata, di ogni magistero autentico ed infallibile, come di ogni criterio esterno di verità rivelata; quindi il metodo che ne consegue, di procedere nella scienza divina affatto all'umana, anzi peggio che nelle cose umane, ad arbitrio individuale o soggettivo, si può dire atteggiamento e metodo necessario e, secondo la logica dell'errore, anche logico nel teologo modernista che ha negato come filosofo e come credente la soprannaturalità della fede, della rivelazione positiva e delle sue fonti (Scrittura e Tradizione), che ha scosso insomma il fondamento stesso della religione cristiana. Ma da ciò appunto balza irresistibile l'evidenza della ipocrisia pratica e dell'assurdità teoretica dell'atteggiamento e del metodo stesso in chi promette di difendere e conciliare la fede medesima e il cristianesimo con la scienza e la modernità: la quale evidenza poi getta necessariamente la sua fosca luce su tutta l'opera di conciliazione pseudo–scientifica e pseudo–teologica, tentata dal modernista teologo.
Siffatti metodi e atteggiamenti appaiono di primo tratto così pieni d'incoerenza, che sembrano implicare una manifesta slealtà, e ci fanno ricorrere alla penna le gravi parole dei teologi relatori del Vaticano contro l'arte o la frode dei vecchi razionalisti del secolo passato. Poichè questi appunto si studiarono e riuscirono ad oppugnare più efficacemente la religione cristiana mediante la depravazione dei dommi e l'abuso dei nomi [2].
Con simile metodo – osservava già Edoardo Quinet, scrivendo al traduttore francese del Kant [3] – nel secolo XIX come nel XVIII, « mentre la Francia uscita dalla cerchia della tradizione, negava scopertamente il cristianesimo per bocca degli enciclopedisti, l'Allemagna giungeva al medesimo termine, mutando, modificando, trasformando il dogma per modo da sostituirvi un teorema morale. Nella Francia la filosofia procedeva con uno spirito di rivoluzione, lottava alla scoperta. Dall'altra sponda del Reno, invece, essa penetrava, s'insinuava fin dentro al santuario ; infine s'assideva senza tumulto nel luogo del sacerdote. Iddio medesimo già si dileguava, e nulla ancora sembrava mutato ». Fu questa l'opera esiziale degli idealisti tedeschi; e con essi, come abbiamo già dimostrato, particolarmente col Kant e con l'Hegel, hanno certo profonde, poniamo che inconsapevoli, attinenze i nostri modernisti del secolo vigesimo.
Ma, lasciando star ciò, l'evidenza della contraddizione risulta, ad ogni modo, dal fatto che nessuno può mettere in dubbio, non potere la dottrina del modernismo teologico, considerata nel suo sistema e nella serie complessa delle sue sequele, riuscire punto meno ripugnante ad ogni forma di cristianesimo positivo, di quel che riesca considerata nei suoi presupposti filosofici, e più nel fondamento stesso e nella radice, da cui pullula, che è la dottrina e il concetto di verità, di scienza e di fede. Il che ci legittima, ci costringe anzi a ripetere di tutte le teorie del modernista teologo – anche prima di metterne a prova i capisaldi del sistema dottrinale – nè solo a ripetere, ma ad aggravare ciò che abbiamo dimostrato dei suoi fondamenti, a proposito del modernista filosofo e del credente.
III.
Ma gioverà nondimeno a farne giudizio più diretto, osservare in questi capisaldi stessi l'edifizio brioso che egli vuole sostituire al castello uggioso della teologia medievale; osservare cioè l'attuazione pratica del sistema nuovo, tentativo di conciliazione presunto dal modernista teologo. Abbozzato nei suoi tratti precipui, dietro la traccia dell'enciclica e gli scritti a noi già noti dei capisetta modernisti, esso poggia anzitutto, come abbiamo già detto, sui postulati filosofici soggettivi e su la dottrina ora mentovata della fede « emozionale », della rivelazione individuale e immanente, del criterio unico della esperienza intima o così detta coscienza religiosa, e di simili aberrazioni che sono tutte ugualmente frutto e applicazione di una falsa filosofia. Semplificando poi con l'enciclica il sistema del modernista teologo, si può ridurlo ai tre punti capitali : simbolismo teologico, immanenza e permanenza divina.
Il simbolismo vuole che le rappresentazioni della divina realtà, le formole cioè, che sono i dogmi, essendo meri simboli e strumenti, siano affatto provvisorie, salvo l'onore che per rispetto sociale è dovuto alle formole del magistero pubblico, o come altri dicono, « alla teologia convenzionale, uffiziale, tradizionale », secondo che variamente essi chiamano la dottrina della Chiesa.
L'immanenza teologica poi del modernista fa Iddio immanente nell'uomo, ma non d'ordinario in senso ortodosso, bensì confondendo l'azione di Dio, causa prima, con quella dell'uomo, causa seconda; ovvero il concorso divino dell'ordine naturale con quello di ordine soprannaturale, come fa il naturalismo deista: anzi alcuni trascorrono, più logicamente, sino a confondere non pure l'azione ma l'essere, secondo il naturalismo panteista.
La permanenza divina finalmente è per rispetto all'immanenza ciò che l'esperienza privata rispetto all'esperienza trasmessa per tradizione, o, come altri dicono, la coscienza individuale rispetto alla coscienza collettiva; la quale ultima comprende in sè la somma delle esperienze private, ossia delle coscienze individuali. Così, proporzionalmente, l'immanenza divina, continuata in ciascuna di esse coscienze individuali, ci darebbe la permanenza divina nella coscienza collettiva.
Ma insistendo nell'esempio recato dall'enciclica, i modernisti conseguenti diranno che la istituzione della Chiesa e dei sacramenti, non è da Cristo; e pure potersi dire che è da lui (mediatamente) e perciò divina, perchè nella coscienza di Cristo stavano virtualmente inchiuse tutte le coscienze cristiane; onde la costoro vita – che è poi la vita della coscienza collettiva – secondo la fede, è vita divina, come la vita di Cristo. Così per questa permanenza sola si spiega l'origine divina della Scrittura, dei dommi, come dei sacramenti, della Chiesa e di ogni istituzione ecclesiastica, come di ogni definizione o elaborazione dommatica, e via dicendo; sebbene l'origine prima o immediata sia pure naturale e e psicologica, come quella che per sè va tutta attribuita a qualche « bisogno ».
E come si spiega l'origine, così anche l'evoluzione, unendo ai suddetti principii la teoria dei « bisogni »: il che bene illustra l'enciclica, passando tosto alla sintetica rassegna delle dottrine modernistiche intorno aigermi della fede; dove pure è da notare che si fa uso della parola « germe » non in senso di causa vitale, ma di effetto, come sarebbe dire « germoglio o rampollo », che già prorompe dal seme; e il seme qui sarebbe appunto il « bisogno ». Quindi si dichiarano vie meglio le dottrine, o piuttosto le eresie molteplici, da noi sopra menzionate, nel loro nesso con la così detta « metafisica dei bisogni »: e ne appare da sè la doppia contraddizione del sistema, in quanto si consideri come « teologia dei bisogni ».
IV.
Dal bisogno di elaborare il proprio pensiero religioso per chiarire la propria e l'altrui coscienza nasce il dogma: dal bisogno di dare alcunchè di sensibile alla religione e propagarla sorge il culto; nel quale si vogliono compresi anche i sacramenti, ridotti a meri simboli, o segni efficaci a colpire gli animi (secondo il vecchio errore protestantico, condannato dal Tridentino): dal bisogno più veemente di manifestare a voce o per iscritto la propria fede od esperienza religiosa – col quale bisogno si confonde pure l'ispirazione – è venuta la Scrittura sacra, che può perciò definirsi una raccolta di esperienze: dal bisogno parimente sia della coscienza individuale del credente, di communicare ad altri la propria fede, sia della collettività delle coscienze, di unirsi per il bene comune, è nata la Chiesa, la quale perciò è « parto della coscienza collettiva »: dal bisogno infine, per ogni corpo sociale, di un'autorità che lo regga, è sgorgata nella Chiesa la triplice autorità: disciplinare, dogmatica, cultuale; sicchè è da ritenersi come provenuta non immediatamente da Dio e perciò autocratica, ma bensì dalla coscienza religiosa del popolo, e perciò a questo soggetta, cioèdemocratica.
Ancora, dal bisogno della Chiesa di accordarsi con la società civile, che ha fine diverso, nasce la necessità che lo Stato sia separato dalla Chiesa, e logicamente ne verrà anche quella che la Chiesa, nell'autorità sua disciplinare, sia soggetta allo Stato nelle cose temporali; come dal bisogno di accordarsi con la coscienza collettiva segue il debito per l'autorità disciplinare e la dogmatica di dipendere dalle coscienze individuali, da cui nasce ed a cui bene è ordinata: onde la necessità di riforme democratiche.
In tutto ciò il modernismo aggrava enormemente l'errore del liberalismo vecchio e del vecchio razionalismo, come pur troppo si fa manifesto ad ognuno che ne intenda i termini.
Ma più ancora quando esso viene alla sua dottrina capitale che è quella dell'evoluzionismo – per cui tutto in una religione vivente si vuole mutabile – e vi applica ad un modo la teoria dei « bisogni ». Per quei bisogni stessi onde nacque, la fede che fu da prima rudimentaria e comune a tutti gli uomini, perchè sorta dalla stessa natura, si svolse con evoluzione vitale, ossia non per giunta di forme estrinseche, ma per maggiore penetrazione del senso religioso nella coscienza; e ciò in due modi: negativamente, con la rimozione di ogni elemento estraneo, e positivamente, col perfezionamento intellettuale e morale dell'uomo onde si ampliò l'idea divina e il sentimento religioso si affinò, concorrendovi anche il genio religioso dei profeti e del massimo fra essi, Cristo. Dal bisogno poi della fede di vincere le opposizioni, come dal bisogno del fedele di penetrarne gli arcani, si spiega l'evoluzione del domma: dal bisogno di adattarsi alle usanze dei popoli come di profittarsi della efficacia di esse, l'evoluzione del culto; dal bisogno di accomodarsi alle condizioni storiche e alle forme di governo stabilite, l'evoluzione della Chiesa.
Ma perchè l'evoluzione non trasmodi, sospinta dai bisogni e dalle forze progressiste che vi corrispondono, rappresentate specialmente dai laici, si oppone a queste una forza conservatrice, quella della tradizione, rappresentata dall'autorità religiosa. Quindi un conflitto; e da ciò il bisogno di un accordo o compromesso fra le due forze, dovuto questo a coscienze individuali che operano sopra la coscienza collettiva; giacchè quest'ultima, incalzata dal bisogno di quelle, è a sua volta necessariamente nel bisogno di far forza e premere sopra l'autorità, e quindi l'autorità viene essa pure a trovarsi nel bisogno, o necessità, di capitolare.
A siffatte teorie è naturale poi che si conformi la pratica dei modernisti nel loro atteggiamento verso la Chiesa; teorie e pratica assai peggiori in sè e più perniciose ad altrui che quelle del vecchio naturalismo dei liberali e, diremo anche, dei razionalisti e nemici aperti della nostra fede.
Gli uni infatti non si scostavano dalla verità cattolica con tanta universalità di errori; gli altri con tale arte di mentita conciliazione. Quanto alla prima, noi possiamo conchiudere con l'enciclica che « se quasi d'un solo sguardo abbracciamo l'intiero sistema, niuno si stupirà ove noi lo definiamo, affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si fosse proposto di concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori circa la fede furono sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a far meglio di quel che han fatto i modernisti. Questi anzi tanto più oltre si spinsero che, come già osservammo, non pure il cattolicismo, ma ogni qualsiasi religione hanno distrutta ».
Fin qui l'enciclica; e ciò che essa afferma, noi abbiamo dimostrato fin dalla prima, mettendo a riscontro il vecchio naturalismo col giovine modernismo. E ne è conferma pratica, a tutti manifesta senza bisogno di lungo discorso, il fatto pubblico e quotidiano, additato pure nell'enciclica: il plauso dei nemici della Chiesa. « Perciò coloro che fra i razionalisti parlano più franco ed aperto, si rallegrano di non avere alleati più efficaci dei modernisti ». Così è purtroppo: e « così si spiegano i plausi dei razionalisti », ci dice l'enciclica[4].
Ma non così si spiegano i plausi, o le simpatie, o la mite tolleranza, o almeno le timide e carezzevoli riserve da parte di tanti cattolici, laici ed ecclesiastici, fino all'apparire dei recenti atti pontificii. A spiegar tutto ciò occorre senza dubbio far ragione di quello che tanto può presso i più, massime giovani: il fascino delle novità e il potere delle idee oscure: l'uno e l'altro già ricordato dal compianto Brunetière, che ne fu vittima in parte, sebbene vittima generosa e scusabile come altri laici studiosi in Francia. Ma è necessario ripensare altresì all'altra proprietà del sistema modernista; cioè l'arte mentita, ora smascherata dall'enciclica, di avviluppare il pensiero incredulo in apparenze di scienza e di ortodossia, di atteggiarlo anzi ad apologia ed a conciliazione, mentre per i consapevoli non è altro che tradimento e aperta negazione: ciò è un accoppiare alla contraddizione teoretica la contraddizione pratica; all'incredulità l'ipocrisia.
V.
E ciò si può confermare ancora, esaminando così di volo, i primi frutti, cioè alcune delle conseguenze prime, della conciliazione vagheggiata dal modernismo teologico, nei tre principii spiegati sopra, di simbolismo, d'immanenza e di permanenza divina. Col simbolismo i modernisti pretendono trovar modo di salvare i dogmi contro qualsiasi oppugnazione o ritrovato della scienza moderna. Ma essi fanno un tentativo disperato, peggiore di quello ardito già dai sofisti e filosofi pagani, come da Celso, da Porfirio, da Giuliano Apostata, dalla scuola neopitagorica e neoplatonica, dei primi secoli della chiesa, per salvare il paganesimo crollante e la sua screditata mitologia. Il tentativo scientificamente è un assurdo, religiosamente è un'ipocrisia; poichè ridotti i dogmi a simboli e istrumenti provvisorii e mutabili, non hanno più verità; nè si possono più ammettere, molto meno imporli a credere con assenso ragionevole e irrevocabile; nè v'è più luogo a parlare di cristianesimo storico e positivo, nonchè di cattolicismo. E vi è di peggio: perchè, bene osserva l'enciclica, « se tutti gli elementi che dicono intellettuali, non sono che puri simboli di Dio, perchè non sarà un simbolo il nome stesso di Dio di personalità divina? E se è così, si potrà bene dubitare della stessa divina personalità, ed avremo aperta la via al panteismo ».
Vero è che i modernisti credono di « spuntare questa arma » protestando nel loro famigerato Programma[5], che « in quanto al simbolismo, il simbolo non implica più oggi l'idea di una creazione fittizia, forse anche fraudolenta.... Esso è una realtà, una realtà sui generis, a cui la fede conferisce un valore inestimabile, fino a farlo diventare veicolo reale e occasione benefica di una elevazione dello spirito e di una più profonda penetrazione religiosa ». Ma non dicono essi di quale « realtà » intendono, e a ragione; perchè al simbolo, stando massimamente ai loro principii di idealismo, essi non possono attribuire altro che una « realtà ideale », l'essere cioè intenzionale e soggettivo che ha nella mente, o come essi amano meglio dire, nella coscienza del credente; chè dalla fede appunto esso simbolo ha il « valore inestimabile », ovvero – ciò che torna al medesimo – l'ha dalla vita e dall'azione. Quindi alle parole citate i modernisti soggiungono immediatamente questa ragione: « E poichè la nostra vita è per ciascuno di noi qualcosa di assoluto, anzi l'unico assoluto, tutto ciò che da essa emana e ad essa ritorna, tutto ciò che ne alimenta e ne arricchisce l'esplicazione ha ugualmente il valore di un assoluto ». Ora questo valore – giova ripeterlo – non è una verità assoluta, non è un valore di conformità del simbolo con l'oggetto simboleggiato: è al più un valore pratico, cioè di una semplice conformità del simbolo col senso religioso: o per dirla con eleganza da modernista, è « il valore inestimabile » di « veicolo reale » ecc. [6], o con espressione più pittoresca, di « vibrazione del diaframma dello spirito » o della coscienza, di « vibrazione dell'essere morale all'unisono con la parola del divino che si è rivelato e si rivela »; intendendo questa parola del divino e la conseguente rivelazione non quale manifestazione di verità, ma quale eccitazione psicologica del sentimento, quale propagazione di vita. Con ciò s'intende meglio, cio che abbiamo notato più d'una volta, come, secondo il modernista, tutte le verità religiose sieno contenute implicitamente nella coscienza religiosa dell'uomo, il quale perciò « potrebbe far senza maestro se potesse leggere i bisogni del suo spirito e della sua coscienza », come parla il Tyrrell. E s'intende pure come egli non possa ammettere la rivelazione se non come una sorte di eccitamento del senso e della pietà che fa « leggere » o sentire i « bisogni » suddetti; onde nasce poi la sua fede come « prodotto di una interna esperienza », come « adesione a realtà sentite ». Il simbolismo pertanto si connette necessariamente nel sistema modernistico al principio di immanenza, come l'evoluzionismo al concetto della permanenza divina. Ora per l'una e per l'altra via il modernista teologo, nonchè giungere alla conciliazione che promette, si avvia a precipizio, verso al panteismo e all'ateismo.
V.
L'immanenza teologica infatti, nel senso che il modernista vanta, vorrebbe conciliare l'ordine soprannaturale col naturale, ma lo estenua e lo confonde: vorrebbe spiegare l'unione di Dio con l'uomo nell'essere e nell'operare, ma la stravolge e l'annienta; onde poi trascorre a contraddizioni molte ed aperte, nell'ordine speculativo e nel pratico. Ma noi qui, affrettando, ci contenteremo di dimandare, con l'implacabile logica dell'enciclica: « Siffatta immanenza distingue o no Iddio dall'uomo? – Se lo distingue, che differisce adunque cotal dottrina dalla cattolica? o perchè mai rigetta quella della esterna rivelazione? Se poi non si distingue, eccoci di bel nuovo al panteismo », che è appunto il confondere Dio con l'uomo, o in altre parole negare Iddio. – E alla vibrata dimanda dovrebbero dare una vibrata categorica risposta anche quei fautori dell'immanenza, che si appigliano al primo membro del fiero dilemma, e dopo avere contrapposto la loro dottrina all'antica da essi schernita, protestano ora di aver dato all'immanenza da essi difesa il significato accennato qui dall'enciclica. Il che, se fosse vero, mostrerebbe tuttavia che essi hanno peccato di ambiguità nei termini, stravolgendoli dalla loro primitiva significazione, e molto più di temerità nell'opporre, quasi nuova, la loro dottrina a quella antica e unanime dei Padri e dottori della Chiesa. « Ma di fatto – continua l'enciclica – l'immanenza dei modernisti vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza na.sca dall'uomo, in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza inferiamo che Dio e l'uomo sono la stessa cosa, e perciò il panteismo ».
Queste parole dell'enciclica hanno pure una triste conferma, oltrechè nel Programma dei modernisti già citato, nella recente affermazione del Loisy: « L'evoluzione della filosofia moderna tende sempre più all'idea di un Dio immanente, che non ha bisogno d'intermediario per operare nel mondo e nell'uomo ». Con questo l'apostata corre non solo a rovesciare tutta la dottrina della Chiesa cattolica e di Cristo redentore, mediator Dei et hominum; ma altresì a confondere, com'è nella logica del suo sistema, l'idea stessa di Dio quasi una forma soggettiva, ovvero sia evoluzione meramente psichica dell'uomo stesso, giusta il puro idealismo panteistico dell'Hegel.
Nè vi fa rimedio, anzi aggrava il male, la dottrina mistica del modernismo, particolarmente quella del Laberthonnière in Francia, del Tyrrell, del von Hügel, di altri in Inghilterra; la quale dà un colorito nuovo all'immanenza, e vuol passare da essa alla trascendenza, mediante il concetto proprio a cotali mistici, della fede « come atto emozionale », intuitivo o sperimentale, onde l'anima sente in sè Dio, o piuttosto, come essi dicono, il divino. Il Tyrrell stesso ne conviene; e mentre stiamo scrivendo, egli manda pubblicando a tutti i giornali dell'orbe, quella sua sdegnosa mentita, onde nega di avere mai opposto il suo modernismo mistico, che è di caldo visionario, a quello critico, di freddo razionalista, del Loisy. « Tengo a dichiarare, egli scrive, che le posizioni critiche, mistiche e filosofiche del modernismo differiscono non già quali tendenze opposte, bensì come tendenze parallele o meglio convergenti » [7].
Ma noi non abbiamo bisogno di tali testimonianze. È troppo chiaro per ragione e troppo confermato per l'esperienza nella storia di ogni falso misticismo, come dalla pretensione di voler sentire, apprendere e quasi afferrare il divino in sè, dalla confusione della vitale e intenzionale unione della mente con l'oggetto per via di similitudine, (che è propria dell'atto conoscitivo) con una unione propria e reale, quasi di identità – la quale pretensione è comune ad ogni falso misticismo – il mistico può passare troppo facilmente, e per breve tragitto, alla identificazione del divino con la natura, col tutto, o infine con la sua propria coscienza, o con « un'autocoscienza infinita che è l'anima del mondo e nella quale si ritrova la nostra molteplice coscienza personale ». Questo insinua pure William James, altro oracolo pei modernisti, il quale di ciò appunto dà merito alla scuola hegeliana « che sta oggi così profondamente influenzando il pensiero inglese ed americano » [8], com'egli dice, e noi dobbiamo aggiungere anche francese ed italiano. – Ora questo panteismo non è altro che ateismo larvato.
Non è dunque contradittoria l'accusa che l'enciclica fa al modernismo di favorire per l'una parte l'ateismo e per l'altra lo pseudo–misticismo; e quei modernisti i quali nel loro Programma trovano che la contraddizione appare da sè [9], si mostrano o ben poco intelligenti o ben poco sinceri. Nessuna cosa per contro appare così evidente nella moderna confusione di sistemi e di errori, quanto l'ibrido connubio del falso misticismo col panteismo e con l'ateismo più o meno aperto; connubio del resto che « appare da sé » non poche volte nella storia delle aberrazioni umane. E basterebbe che i modernisti avessero ricordate certe opere pseudomistiche, di cui si è iniziata da qualche tempo la pubblicazione col loro plauso e favore, anzi possiamo dire con la loro attiva partecipazione, in Italia e fuori: su le quali preferiamo ora tirare un velo.
VII.
Nè pure vogliamo insistere qui su le conseguenze pratiche e le dottrine morali, che scenderebbero logicamente, e si possono trovare più o meno timidamente insinuate negli scritti modernistici. Vi sarebbe troppo che dire: tanto più che l'ascetismo, e misticismo del modernista teologo sa molto bene trasfigurarsi in angelo di luce, sotto il nimbo non solo della immanenza divina nella coscienza individuale, ma ma anche della permanenza del divino nella « coscienza collettiva, solidale, immensa » della Chiesa.
E così protestano i modernisti nel loro Programma che dopo la « constatazione leale della evoluzione » furono indotti « per sostenere la loro fede, al concetto di una permanenza del divino nella Chiesa [10]. »
Ma se a questo principio della permanenza del divino si dà il senso modernista, con tutta l'estensione e la comprensione logica di cui è capace, nonchè sostenere la fede, non lascia intatta una parte sola della teologia; tanto ampia e sterminata è l'applicazione che ne fa il modernista. Egli presuppone infatti, mediante questa permanenza del divino, intesa in un senso affatto nuovo, di conciliare con l'origine divina che il cristianesimo si attribuisce, l'origine tutta umana e naturalistica, che gli appongono i razionalisti, nominatamente gli evoluzionisti o trasformisti, e quindi la sformata evoluzione della religione stessa e di tutto ciò che alla religione appartiene, derivata egualmente l'una e l'altra, e l'origine e l'evoluzione, dal « bisogno »; come dal « bisogno » è originata la fede. Di qui anche quelle sue teorie sulla genesi e laevoluzione dei così detti « germi » o rampolli della fede, su cui distesamente parla l'enciclica, facendone seguire appunto l'ampia trattazione alla sintesi dei tre principii accennati, secondo un certo nesso logico ben ragionevole, checchè abbia giudicato altri che non ne seppe scorgere le conseguenze dai principii.
Poichè, secondo questi principii e segnatamente in virtù dell'immanenza e della permanenza divina, il « bisogno » sia della coscienza individuale, sia della « coscienza solidale », della coscienza immensa o collettiva della società cristiana o dell'intera generazione umana, come parlano i modernisti, si vorrebbe dir cosa divina. Onde supposto essere Dio e anche Cristo immanente per la fede nelle coscienze che l'apprendono col senso religioso, cioè lo sentono in sè per l'esperienza interna, tutto ciò che è da un impulso o « bisogno » religioso della coscienza si può dire che è da Dio, e nella coscienza cristiana unita al Cristo della fede, si può dire che è da Cristo, come una nuova rivelazione.
Non occorre insistere a dimostrare l'enormità dell'equivoco o piuttosto dell'insidia che si cela in questa tentata conciliazione dell'origine e della vita del cristianesimo, in quanto storica, soprannaturale e divina, con la genesi e la evoluzione affatto naturale e psicologica delle religioni, ammessa unitamente da razionalisti, da teosofi e da modernisti. Essa distrugge il fondamento stesso della istituzione positiva della Chiesa e della sua prodigiosa propagazione e conservazione: distrugge il vero senso e l'efficacia tutta di quella divina promessa, che è la nostra consolazione e la forza della Chiesa: « Ecco io sono con voi, tutti i giorni fino alla consummazione dei secoli ». – La contraddizione dunque del modernismo teologico, anche qui, è così enorme e palpabile che la pretensione della conciliazione o dell'accordo ha tutta l'aria di una ipocrisia, di uno scherno.
Ai modernisti teologi non sarebbe quindi inopportuno di ricordare per ultimo la energica ammonizione della Scrittura, che con Dio non si finge nè si scherza: Deus non irridetur!
Prospetto degli articoli della Civiltà Cattolica sul modernismo: | Fascicolo | Data: | Anno | Volume |
Decreto Lamentabili, testo, traduzione e commento | 1371 | 24 luglio 1907 | 58° | III |
Enciclica Pascendi testo latino | 1374 | 18 sett. 1907 | 58° | III |
Enciclica Pascendi traduzione italiana | 1375 | 28 sett. 1907 | 58° | IV |
Il modernismo filosofico (I parte) | 1377 | 22 ottobre 1907 | 58° | IV |
Il modernismo filosofico (II parte) | 1379 | 28 novembre 1907 | 58° | IV |
Motu Proprio Prestantia Scripturae Sacrae lat./it | 1379 | 27 novembre 1907 | 58° | IV |
Il modernismo teologico (I parte) | 1381 | 26 dic. 1907 | 59° | I |
Il modernismo teologico (II parte) | 1382 | 8 genn. 1908 | 59° | I |
Il modernismo teologico (III parte) | 1384 | 5 febbr. 1908 | 59° | I |
Il modernismo teologico e il Concilio Vaticano | 1386 | 12 marzo 1908 | 59° | I |
Il modernismo teologico e il suo sistema di conciliazione | 1388 | 10 aprile 1908 | 59° | II |
Il modernismo ascetico | 1390 | 6 maggio 1908 | 59° | II |
Il modernismo apologetico | 1391 | 29 maggio 1908 | 59° | II |
Il modernismo riformista | 1401 | 29 ottobre 1908 | 59° | IV |
NOTE:
[1] Vedi quad. 1381–1386.
[2] Ecco le parole proprie dei teologi nella loro palpitante attualità: « In fide christiana, aiunt, non intelligitur veritas in se ipsa, sed suscipitur sub symbolicis velaminibus... Hac fraude... duo haec consequi student, ut se ipsos ab infamia atheismi ac impietatis tueantur, et christianam religionem per depravationem dogmatum ac abusum nominum efficacius oppugnent », Gaudeau, Libellus fidei, p. 221–222. –Cf. quad. 1386, p. 662 ss.
[3] La religion dans les limites de la raison, par E. Kant. Traduit par J. Trullard (Paris 1841), p. VI. Questa vecchia opera del Kant pare tutto un programma di modernismo; dove, scriveva lo stesso Quinet, « il dramma della fede e della scienza... si scioglie tranquillamente in un'eguale mischianza di scetticismo e d'idealismo: vi si vede apparire soprattutto quel sistema d'interpretazione figurata che, allargandosi sempre più, sembra oggimai insinuare uno spirito nuovo nella lettera della Rivelazione ». E il frutto di questo spirito nuovo, egli soggiunge appunto, va dalla trasformazione del domma alla irreligione e all'ateismo, copertamente: proprio come avviene nel modernismo, vecchio e decrepito anche in questo.
[4] E coi razionalisti si possono bene accomunare i così detti «protestanti liberali», che non se ne differenziano salvo nel nome. Tra essi uno dei più audaci, il Campbell, che nella sua New Theology (Londra 1907) trascorre fino al pretto panteismo, riconosce come «è il medesimo movimento per l'appunto quello che, sotto una forma leggermente differente, è rappresentato in Inghilterra dalla Nuova Teologia, e che sotto altro nome si è venuto svolgendo in Italia e altrove per opera di cattolici romani». Così nell'Hibbert Journal(aprile 1907, p. 489), tanto lodato dai modernisti italiani. Cf. J. Lebreton, L'encyclique et la theologie moderniste, p. 5 ss.; p. 22 ss. Questi afferma (a p. 7) di non avere finora incontrato la forma del panteismo puro in nessun cattolico; ma ora forse ne troverebbe più che degli indizi nelle ultime opere del Loisy, e peggio ancora in certi articoli dei suoi piccoli pappagalli romani di Nova et Vetera, come in quelli di un povero «Aschenbrödel», già da noi denunziati e da essi molto ambiguamente scusati. Di ciò conviene recentemente anche un L. Donati nell'ultimo numero della defunta Vita religiosa di Firenze (marzo–aprile 1908) art. «Qual è la nostra filosofia?» (Accenno di una filosofia della vita), p. 133 s.
[5] Pag. 112.
[6] Strana coincidenza! Anche la frase peregrina del «veicolo», come quella così gentile del diaframmadella coscienza e delle sue vibrazioni all'unissono (su cui vedi Civ. Catt., 1907, vol. IV, quad. 1378, p. 392) ci suonano molto vecchie. Non sarebbe difficile trovarle, col resto della suppellettile teologica del modernismo, in filosofi eterodossi. Ci basti qui citare, ad es., uno dei loro maestri in volontarismo. Così Demofele contro Filarete nel dialogo dello Schopenhauer (in Parerga und Paralipomena, vol. II. § 174) pretende difendere la religione come un teologo modernista: «Essa non deve, per adattarsi all'intelligenza ed al bisogno di un pubblico così grande e così vario, presentare la verità nuda, o per usare un paragone medico, darla allo stato puro, ma servirsi di un solvente, di un veicolo mitico.... la verità, che in generale non può venir altrimenti espressa che sotto forma di mito o di allegoria, rassomiglia all'acqua, che senza vaso non può venir trasportata... Il senso profondo e l'alto fine della vita possono venire aperti e presentati al popolo soltanto simbolicamente. La filosofia, al contrario, deve essere come i misteri eleusini per i pochi, per gli eletti... Forse in tutte le religioni la parte metafisica è falsa; ma la parte morale è vera in tutte. Non è un inganno: essa è cosa vera, ed è la più importante di tutte le verità... insegna ciò che non è precisamente vero per se stesso, ma per il senso che in sè racchiude: e così intesa essa è la verità ». Dello Schopenhauer è uscita or ora una parziale traduzione dal titolo appunto Morale e religione (Torino, 1908): noi la citiamo, comesegno dei tempi.
[7] Giornale d'Italia, 30 marzo 1908. Ammirabile esattezza di concetto e limpidezza di linguaggio questa del povero mistico d'oltre Manica, il quale ravvicina così bellamente le parallele alle convergenti!
[8] W. James, Le varie forme della coscienza religiosa. (Trad. ital.), p. 387. Una simile tendenza di «subbiettivismo agnostico e di panteismo idealistico» è riconosciuta perfino dal citato scrittore di Vita religiosa come «concetto fondamentale progressivamente affermato e svolto dalla rivista Nova et Vetera, i cui scrittori perciò si ricongiungono alla scuola hegeliana di Benedetto Croce e Giovanni Gentile». (Vita religiosa, p. 133).
[10] Pag. 23 s.