I ricordi di un nuovo teologo: "La mia vita" del card. Ratzinger


Sì sì no no anno XXIV n° 15 e 16 (15 e 30 settembre 1998) via Progetto Barruel


I ricordi di un nuovo teologo: "La mia vita" del card. Ratzinger

I° I RICORDI DI UN <<NUOVO TEÓLOGO>> UNA FORMAZIONE TORMENTATA
SINGOLARE CURRICULUM DI STUDI. L'INQUINAMENTO PROFANO DEI SE­MINARI
TEOLOGO «CRITICO» PIÙ CHE SACER­DOTE
UN CONCETTO SPURIO DI RIVELA­ZIONE
UNA CONCEZIONE STORICISTICA DEL­LA VERITÀ
LA RADICE PROTESTANTICA
UN CONCETTO IMBASTARDITO DI TRA­DIZIONE
UNA NOZIONE IRRAZIONALE DI TRA­DIZIONE
A «NUOVA TEOLOGIA» «NUOVA E­SEGESI»

IIº EXCUSATIONES PRO DOMO SUA
GLI SCHEMI PREPARATORI
LA LITURGIA
IL CONCILIO
CONCLUSIONE 


I° I ricordi di un «nuovo teologo» Una formazione tormentata

Nel 1997 il cardinale Ratzinger ha pubblicato un denso libro-intervista dal titolo Il sale della terra (ed. San Paolo, Torino, 1997, pp. 322) e un testo au­tobiografico intitolato La mia vita. Ri­cordi (1927-1977), pp. 121). Un im­pegno veramente straordinario, se si considera l'altissima carica che egli ri­copre in Vaticano. In questa sede vo­gliamo soffermarci sul libro di «ricor­di», per mettere in rilievo alcuni punti, che a noi sembrano utili per capire ancor meglio l'attuale crisi della Chiesa.
Cominciamo con l'entrata in semi­nario, a Traunstein in Baviera, del gio­vane Joseph Ratzinger, nato il 16 aprile 1927 a Marktl sull'Inn, sempre in Ba­viera, in una famiglia molto cattolica. Egli era il terzo di tre fratelli, due maschi e una femmina. Il padre faceva il poliziotto ed era un fervente antina­zista. Il parroco «insisteva perché io entrassi in seminario minore, per poter essere introdotto in maniera sistema­tica nella vita ecclesiastica» (La mia vita cit., p. 23). Dopo alcune esitazioni della famiglia, dovute principalmente a mo­tivi di carattere economico, «venne pre­sa la decisione e per la Pasqua del 1939 entrai in seminario, felice e pieno di grandi aspettative, dal momento che mio fratello me ne parlava molto bene e anche perché ero in ottimi rapporti con i seminaristi che frequentavano la mia classe. Ma io ero tra quelle persone che non sono fatte per la vita in internato. A casa avevo vissuto e studiato in grande libertà, così come volevo, costruendomi un mio mondo infantile. Ora, trovarmi costretto in una sala di studio con circa sessanta altri ragazzi, era per me una tortura ...» (ivi).
Quando entrò nel seminario mino­re, il giovane Ratzinger aveva dodici anni. Era ancora troppo presto per un'autentica vocazione religiosa? Re­sta il fatto che l'evento sembra essere dipeso soprattutto dall'interessamen­to del parroco e dall'opinione del fratel­lo e degli amici. Ma l'istituzione deluse il Nostro, il quale confessa candida­mente di essersi trovato a disagio già per il fatto della vita in e dichiara, con una punta di orgoglio, di ritenersi «una di quelle persone che non sono fatte per la vita in un internato».
Lo scoppio della seconda guerra mondiale (1.9.1939) provocò, però, la requisizione dell'edificio del semina­rio, trasformato in ospedale militare. «Di conseguenza io e mio fratello ri­prendemmo ad andare a scuola da casa nostra. Ma il direttore trovò una siste­mazione provvisoria... nel Collegio Femminile delle Dame Inglesi» vicino alla città (op. cit. p. 24). «Era una vita felice di ragazzi. Qui mi riconciliai con il seminario e vissi un bel periodo. Dovetti imparare ad adattarmi alla vita comune». Dopo l'attacco alla Russia (22.6.1941) anche la sede provvisoria fu, però, requisita per istituirvi un ospedale militare. «Mio fratello ed io questa volta tornammo definitivamen­te a casa. Ora era chiaro che la guerra sarebbe durata ancora a lungo... Mio fratello aveva 17 anni, io quattordici» (op. cit., p. 26). E difatti il fratello fu chiamato alle armi come telegrafista e sarebbe stato inviato nel 1944 sul fronte italiano. «Nonostante la gravosa oscurità del quadro storico, davanti a me c'era ancora un bell'anno a casa e nel ginnasio di Traunstein. I classici latini e greci mi entusiasmavano... Ma soprattutto ora scoprivo la letteratu­ra... leggevo Goethe con entusiasmo...» (ivi).
Giuridicamente, il giovane Ratzin­ger apparteneva all'internato o semi­nario minore, i cui locali erano stati requisiti; di fatto, poteva starsene tran­quillamente a casa, a studiare come voleva e quel che voleva. Ma nel 1943, all'età di sedici anni, egli fu mobilitato (come «studente») nelle unità della contraerea, unitamente ad altri semi­naristi, conservando la facoltà di se­guire un certo numero di lezioni nel rinomato Maximilian Gymnasium di Monaco (op. cit. p. 29).
Il 10 settembre 1944 il giovane Ratzinger fu congedato dalla contrae­rea. Dopo un intermezzo nel servizio lavorativo del Reich, durante il quale si salvò dall'arruolamento nelle SS (che veniva proposto a tutti i mobilitati in termini perentori) dichiarando pub­blicamente (e tra lo scherno generale) di voler diventare sacerdote, il Nostro fu finalmente chiamato alle armi alla fine del 1944 (op. cit. pp. 31-34). Sem­bra di capire che egli fosse inquadrato nel cosiddetto Landsturm, truppe dell' ultima ora comprendenti giovani, me­no giovani e padri di famiglia, le quali, dopo sommario addestramento e con armamento leggero, erano in genere impiegate nella difesa di posizioni fis­se (torrenti, ponti, terrapieni etc.). Jo­seph Ratzinger, però, non dovette mai partecipare ad alcun combattimento: «La morte di Hitler rafforzò la spe­ranza che la fine fosse vicina. Ma la lentezza con cui gli americani proce­devano nella loro avanzata continuava a differire il giorno della liberazione. Alla fine di aprile o ai primi di maggio – non ricordo più con precisione – mi decisi ad andarmene a casa» (op. cit. p. 34). In breve: rischiando la fucilazione, il Nostro disertò e se ne tornò a casa.
La guerra sarebbe terminata il 7 maggio 1945 e quello che restava dell'esercito tedesco era ormai in pieno sfaldamento. Nonostante fosse da al­cuni giorni a casa in borghese, J. Rat­zinger fu però identificato dagli A­mericani vittoriosi come militare e fat­to prigioniero. Fu liberato il 19 giugno 1945 e poté tornarsene definitivamen­te a casa (op. cit. p. 37).
Per colpa della guerra il Nostro ebbe, dunque, una formazione cultura­le accidentata e lacunosa, nella quale molto era stato inevitabilmente lascia­to alla sua iniziativa personale. Il gio­vane si era così largamente imbevuto di cultura profana, per nulla adatta a chi è chiamato al sacerdozio. Nel ren­diconto di questi fatti colpisce poi l'as­senza di un manifesto slancio verso il soprannaturale, verso Dio. Scrive, ad esempio, il Nostro che, subito dopo la guerra, tra i suoi amici sopravvissuti, «i reduci erano riconoscenti per il dono della vita e per la speranza che ri­nasceva» (op. cit., p. 39) e che nell'ambiente del (successivo) seminario di Frisinga «ci teneva insieme una grande riconoscenza, per il fatto di essere usciti dall'abisso di quegli anni dif­ficili» (op. cit. pp. 41-42). Riconoscen­za. Ma verso chi? verso Dio? Il car­dinale non lo dice. Allora, riconoscen­za in generale, di tipo per così dire ecumenico ante litteram, che potesse esser condivisa da credenti e non cre­denti?

Singolare curriculum di studi. L'inquinamento profano dei se­minari

Alla fine del 1945, all'età di di­ciotto anni, il Nostro entra finalmente nel vero seminario, a Frisinga, in un locale in parte ancora adibito ad o­spedale da campo, questa volta per prigionieri di guerra stranieri (op. cit., p. 41). «Era un gruppo variopinto di circa 120 seminaristi» (op. cit. ivi). La situazione era ancora difficile, ma ci si poteva arrangiare: «Riconoscenza e voglia di rinascere, di lavorare nella Chiesa e per il mondo: erano questi i sentimenti che dominavano l'atmosfe­ra in quella casa. Ad essi si aggiungeva una fame di conoscenze, che era an­data crescendo negli anni della desola­zione, in cui eravamo stati esposti al Moloch del potere, cui erano estranei la cultura e lo spirito... i libri erano una rarità nella Germania distrutta e se­parata dal resto del mondo. Tuttavia, malgrado i danni provocati dai bom­bardamenti, in seminario si era con­servata una biblioteca di buon livello, che era almeno in grado di saziare la nostra fame di quel momento. Gli interessi erano molteplici. Non ci si voleva limitare alla teologia in senso stretto, ma porsi all'ascolto dei con­temporanei. I romanzi di Gertrud von Le Fort, Elisabeth Langgässer, Ernst Wiechert venivano divorati; Dostoev­skij era tra gli autori che ognuno leg­geva, e inoltre i grandi francesi: Clau­del, Bernanos, Mauriac. Anche i nuovi sviluppi delle scienze della natura ve­nivano seguiti con interesse. Si rite­neva che con la svolta impressa da Planck, Heisenberg, Einstein, la scien­za fosse di nuovo sulla via di Dio... In campo teologico e filosofico Romano Guardini, Josef Pieper, Theodor Ha­cker e Peter Wust erano gli autori la cui voce ci toccava più da vicino» (op. cit.,
pp. 42–43).
Dunque: fame di conoscenze, del tutto normale in quei giovani, per di più passati attraverso la tragica espe­rienza della guerra e della disfatta, ma – ecco il punto – «non ci si voleva limitare alla teologia in senso stretto». Inoltre, questa «fame di conoscenze» sembrava indirizzata in senso abba­stanza profano. Dov'era lo stimolo della chiamata a servire Dio, a salvare le anime, tutto lasciando e dimenti­cando? Invece, ampio spazio concesso alla letteratura e al pensiero filosofi­co-scientifico contemporaneo, gratifi­cato in modo del tutto erroneo come ricerca posta «di nuovo sulla via di Dio». Quando mai la scienza moderna (con l'eccezione di Pascal) è stata sulla via di Dio? E poi, di quale Dio? Nel caso di Einstein si tratta al massimo, come è noto, di una rozza imitazione del panteismo di Spinoza: «È il senso del mistero – misto anche alla paura – che ha generato la religione... Io non posso concepire un Dio che ricompen­sa e punisce le sue creature e che esercita una volontà simile a quella che noi sperimentiamo su noi stessi. Né so immaginarmi e desiderare un indivi­duo che sopravviva alla propria morte fisica: lasciate che di tali idee si nu­trano, per paura o per egoismo, le anime fiacche. A me basta il mistero dell'eternità della vita, la coscienza e il presentimento della mirabile struttura del mondo in cui viviamo, insieme con lo sforzo incessante per comprendere una particella, per piccola che sia, della Ragione che si manifesta nella natura» (A. Einstein, Antologia, in S. Bergia Einstein e la relatività Bari, 1980, p. 164).
Su questi interessi poco religiosi coltivati nel seminario di Frisinga si innestava poi l'influsso della teologia impestata di esistenzialismo, a comin­ciare dal contorto Romano Guardini (di genitori e di nascita italiano, ma tedesco per formazione e cultura). E non basta. Tra gli autori preferiti dal Nostro c'era anche il filosofo ebreo Martin Buber. A Joseph Ratzinger piaceva Sant'Agostino, ma non ha mai amato San Tommaso: «Ebbi, invece, delle difficoltà nell'accesso al pensiero di Tommaso d'Aquino, la cui logica cri­stallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e precon­fezionata» (La mia vita, cit., p. 44).
Questa chiusura, questa ostilità sa­rebbero dipese in gran parte dal pro­fessore di filosofia del seminario, che «ci presentava un rigido tomismo neo­scolastico, che per me era semplice­mente troppo lontano dalle mie do­mande personali» (ivi). Secondo il car­dinale Ratzinger, che non sembra aver mutato opinione rispetto allo studente di seminario, il pensiero del grande aquinate, con la sua logica cristallina, sarebbe «troppo impersonale e pre­confezionato» e non risponderebbe alle «domande personali» del creden­te. Ed una cosa del genere ce la viene a dire un principe della Chiesa, il cui compito istituzionale è quello di ve­gliare sulla purezza della dottrina della Fede! Perché meravigliarsi, allora, del­la disastrosa crisi attuale del Cat­tolicesimo e darne la colpa al mondo secolarizzato, quando quelli che dovrebbero essere i difensori della fede, e quindi del pensiero veramente catto­lico, sono in realtà come dei porti di mare aperti a tutte le correnti e por­tano essi stessi la scure alla radice dell'albero che dovrebbero curare e far cre­scere? Che significa, infatti, accusare San Tommaso di una logica «troppo impersonale e preconfezionata»? For­se che la logica deve essere «perso­nale»? Queste affermazioni rivelano, in chi le fa, un atteggiamento di tipo protestante, pietista addirittura, come di chi ricerchi solo nel sentimento interiore individuale la regola della fede.
Nel seminario di Frisinga si stu­diava molto anche la musica (il cardi­nale Ratzinger suona il pianoforte an­cora oggi): «In casa si faceva inoltre molta musica e, in occasione di alcune feste, si recitavano anche dei pezzi teatrali» (op. cit. p. 45). L'espressione «in casa» sembra riferirsi ad attività svolte privatamente, a casa propria; ma potrebbe indicare benissimo il se­minario. A proposito della musica va ricordato che il fratello del cardinale, Georg Ratzinger, seminarista anche lui, dopo essere rientrato sano e salvo dall'Italia nel 1945, «si dedicava ap­passionatamente alla musica, che è il suo carisma particolare» (op. cih , p. 38). Ordinato prete anche lui, lo stesso giorno del futuro cardinale, i129.6.1951, si è di fatto sempre dedicato alla musica ed è stato per decenni Maestro di Cappella del Duomo di Ratisbona.
Nel biennio trascorso dal giovane Ratzinger al seminario diocesano di Frisinga egli studiò letteratura, mu­sica, filosofia moderna e si sentì at­tratto dalla teologia di tipo ortodosso, cioè esistenzial-modernista. Appren­diamo, inoltre, che egli non amava affatto San Tommaso. A noi sembra che una formazione siffatta non abbia corrisposto all'esigenza di una forma­zione esclusivamente cattolica, quale deve essere quella di un futuro sacer­dote, pur con le attenuanti del caso: prima il nazismo anticristiano, poi la guerra e la disfatta; infine l'inquina­mento profano dei seminari. A noi sembra che Sua Eminenza, con tutto il rispetto, abbia concesso molto spazio alla cultura laica, con le sue «aperture» a tutto (tranne che alla parola di Dio) ed il suo problematicismo, dietro i quali si nascondono quasi sempre l'orgoglio e la superbia. Ma a Joseph Ratzinger piacevano gli insegnanti che si ponevano degli interrogativi, non quelli che difendevano il dogma con la ferrea logica di San Tommaso (op. cit, p. 44). Questo atteggiamento fa da «pendant», secondo noi, al suo modo di intendere la liturgia cattolica. Egli ci dice di esserne sempre stato attratto, sin da bambino, e di aver simpatizzato per il cosiddetto movimento liturgico; si capisce, però, che la liturgia era per lui soprattutto un fatto del sentimento, un'esperienza vissuta, un Erlebnis e­steticamente appagante, ma al fondo irrazionale (op. cit., pp. 17, 45, 57, 63).
Che cosa intendiamo per «inquina­mento profano» dei Seminari? Inten­diamo un'atmosfera, un ambiente già impregnato di tendenze eterodosse, che si esprimevano chiaramente nella disponibilità di fonti letterarie e filo­sofiche nient'affatto consone alla pre­parazione religiosa di futuri sacerdoti. Come mai il seminarista Ratzinger ha potuto trovare nella Biblioteca del seminario un autore come Dostojev­skij e soprattutto ha potuto leggerlo senza problemi? Forse che i semina­risti entrano in seminario per istruirsi nella letteratura moderna e contem­poranea? In realtà spesso queste let­ture improprie e altre peggiori avve­nivano con la complicità e l'incorag­giamento dei superiori. Si legga la testimonianza del gesuita Peter Hen­rici, nipote del von Balthasar ed ora vescovo: «Nelle esercitazioni semina­riali –– egli scrive –– si leggevano Kant, Hegel, Heidegger e Blondel; Kant e Heidegger, in particolare, costituivano a lezione i punti di riferimento co­stanti, onnipresenti»; a Lovanio, «il prefetto degli Studi consigliava [ai se­minaristi, futuri gesuiti] come prima lettura i primi due capitoli del Sur­naturel di Henri de Lubac, il più proi­bito dei "Libri proibiti'!» (Communio n. 114, novembre–dicembre 1990).

Teologo «critico» più che sacer­dote

Dopo due anni passati nel semi­nario diocesano di Frisinga, il Nostro (che aveva evitato il seminario «tri­dentino nel senso stretto della parola» di Eichstätt), chiese ed ottenne dal vescovo l'approvazione per iscriversi alla Facoltà Teologica dell'Università di Monaco (op, cit., p. 47 ss.). Qui egli subì l'influenza di un corpo docente chiaramente orientato in senso libe­rale e modernista. Per i dettagli, ri­mandiamo il lettore al testo, ma vo­gliamo ricordare che uno dei suoi mae­stri indirizzò J. Ratzinger alla lettura del de Lubac, autore che esercitò una notevole influenza su di lui (op. cit, p. 49-60, p. 62). Noi vogliamo richiamare alcuni punti de La mia vita, che ci sembrano particolarmente significati­vi.
1. Ad un certo punto, il cardinale scrive che l'esegesi liberale (moderni­sta), con Loisy alla testa, che ha ten­tato di mettere in discussione la cre­dibilità dei Vangeli, ha posto «un pro­blema che anche oggi non è stato affatto risolto» (ivi, p. 52). Non è stato risolto? per chi? Con simili afferma­zioni il cardinale sembra conferire un certo credito alle eresie del Loisy e dei modernisti già ampiamente confuta­te, invece, dall'esegesi fedele al dogma. E il Magistero non ha forse già risolto i «problemi» posti dall'esegesi liberal­modernista (vedi decreto Lamentabi­li), quel Magistero del quale il Prefetto dell'ex Sant'Uffizio dovrebbe essere una colonna?
2. Ricordando il suo professore di esegesi, di tendenze liberali, il Nostro gli riconosce dei meriti: «Proprio l'equilibrio tra liberalismo e dogma ave­va una sua specifica fecondità» (op. cit p. 53). Le lezioni di quel professore avrebbero, dunque, mostrato una loro «specifica fecondità» proprio «nell'e­quilibrio tra liberalismo e dogma». Si noti: non nella difesa del dogma dal liberalismo, ma nel trovare l'equilibrio tra il liberalismo, che vuole sottoporre alla critica della ragione il dogma, e quest'ultimo. Come un simile innatu­rale equilibrio sia possibile, il cardi­nale non lo dice. Ci dice, invece, di essere stato ampiamente influenzato dall'idea della ricerca di quell'equi­librio (op. cit., p. 53). E gli crediamo sulla parola, perché appunto un tale impossibile «equilibrio» ha caratteriz­zato finora la sua azione di Prefetto per la Dottrina della Fede. A giustifica­zione dell'equilibrio tra liberalismo e dogma, il Nostro fa anche riferimento al concetto diTradizione come «pro­cesso vitale» ad opera dello Spirito Santo, concetto sul quale ci riserviamo di tornare in questo articolo.
3. Parlando del modo di intendere il nesso tra l'Antico ed il Nuovo Testa­mento, insegnato nella Facoltà Teolo­gica di Monaco, il Nostro afferma: «Solo dopo la seconda guerra mon­diale abbiamo comunque cominciato davvero a capire che anche l'interpre­tazione ebraica [dell'Antico Testamen­to – ndr.] possiede una sua specifica missione teologica nel tempo "dopo Cristo"» (op. cit., p. 54). Frase di per sé non del tutto chiara (che significa «mis­sione teologica»?) e che tuttavia lo è in maniera sufficiente per essere dichia­rata del tutto inaccettabile alla luce della Fede Cattolica. Infatti, se pos­siede una sua validità l'interpretazione delle Scritture data dai Giudei incre­duli, che hanno negato e negano la natura divina di Nostro Signore, allora l'interpretazione che ne ha sempre dato la Santa Chiesa è errata. Eppure, secondo il cardinale Ratzinger, a Mo­naco «si faceva teologia in maniera cri­tica, ma credente»! (op. cit., p. 59).
Superato l'esame conclusivo degli studi teologici all'università di Mona­co, nell'estate del 1950, il giovane Ratzinger rientrò nel seminario di Fri­singa (che oggi non esiste più – op. cit. p. 77). Alla fine di ottobre egli ricevette l'ordinazione suddiaconale e diaco­nale (op. cit., pp. 61-62) e avrebbe dovuto cominciare a prepararsi per l'ordinazione sacerdotale. «La serietà di questa preparazione – egli scrive – richiede tutto l'impegno della per­sona, ma io dovevo conciliarla con l'elaborazione del mio tema» (ivi, p. 63). Si trattava del tema di un'opera teologica a premio, che poteva essere considerata quale dissertazione Sum­ma cum laude, affidatagli da un pro­fessore della Facoltà Teologica di Mo­naco sull'argomento «popolo e casa di Dio nell'insegnamento di Sant'Ago­stino sulla Chiesa» (ivi, p. 61). Il No­stro si trovò perciò in difficoltà, perché dovette conciliare il lavoro per la dis­sertazione con la preparazione all'or­dinazione sacerdotale, cioèl'ambizio­ne di diventare teologo (che era chia­ramente la sua vera aspirazione) con la necessitàdell'ordinazione. Cercò un compromesso: «Mio fratello, che era incamminato con me sulla via del sa­cerdozio, si fece carico – per quanto possibile – di tutti gli aspetti pratici della preparazione all'ordinazione sa­cerdotale e alla prima messa; mia so­rella... si occupò di redigere in maniera esemplare nel suo tempo libero la bella copia del manoscritto... Mi sentii fe­lice, quando finalmente fui libero da questa bella, ma pur pesante fatica, e almeno per gli ultimi due mesi potei dedicarmi interamente e prepararmi al grande passo: l'ordinazione sacerdota­le, che ricevemmo nel duomo di Frisin­ga per mano del cardinale Faulhaber» (op. cit., p. 63). Dunque, il Nostro poté dedicarsi solo per gli ultimi due mesi, dell'anno circa che avrebbe avuto a disposizione, alla preparazione per l'ordinazione sacerdotale.
Comunque sia, il sacerdote Rat­zinger esercitò il ministero per un solo anno, a Monaco, come coadiutore nel­la parrocchia del Preziosissimo San­gue (ivi, p. 64). Il 1° ottobre del 1952 fu chiamato al seminario di Frisinga: «Da una parte era proprio la soluzione che mi aspettavo, per poter tornare al mio amato lavoro teologico [dall'altra, gli dispiaceva dover abbandonare la cura d'anime – ndr.]. Dovevo tenere un corso sulla pastorale dei sacramenti per gli studenti dell'ultimo anno, per cui po­tevo attingere solo ad un'esperienza piuttosto modesta, ma pur sempre molto vicina e ancora fresca. Soprat­tutto, però, dovevo portare a termine l'esame di dottorato, che allora era una prova veramente impegnativa» (ivi, p. 66). L'esame ebbe luogo nel luglio del 1953, con esito positivo.

Un concetto spurio di Rivela­zione

A ventisei anni il futuro cardinale era, dunque, dottore in teologia. Bi­sognava puntare ora alla libera do­cenza, che egli riuscì a conseguire il 21 febbraio 1957, a quasi trent'anni, ma in modo contrastato. La parte «cri­tica» del suo manoscritto, infatti, fu rifiutata, sicché l'autore dovette li­mitarsi a presentare, con gli opportuni adattamenti, solo la parte «storica», incentrata sull'analisi del rapporto tra San Bonaventura e Gioacchino da Fio­re (di molto dubbia ortodossia, ma che il Nostro si limita a definire «questo pio e colto monaco...» op. cit., p. 73).
A noi interessa in modo particolare il motivo dell'opposizione del profes­sore competente, il correlatore prof. Schmaus. Il lavoro presentato da J. Ratzinger riguardava la concezione della Rivelazione in San Bonaventura e l'interpretazione da lui proposta fu accusata di non essere aderente ai testi e di professare «un pericoloso moder­nismo, che doveva condurre verso la soggettivazione del concetto di rive­lazione» (op. cit., p. 72). L'accusa era grave: concezione soggettivistica della Rivelazione, tipica dei modernisti; in pratica si accusava Joseph Ratzinger di inclinare all'eresia in senso sostan­ziale. Il cardinale Ratzinger nega ancora oggi validità ai rilievi critici del prof. Schmaus, ma gli argomenti addotti a sua difesa non ci sembrano convin­centi. Egli sostiene che negli autori medievali, compreso San Bonaventu­ra, non ci sarebbe un concetto di rivelazione come il nostro, che com­prende «l'insieme dei contenuti rive­lati» (op. cit., p. 72). E perché non ci sarebbe? Perché, a suo avviso, nel linguaggio medievale «la rivelazione è sempre un concetto di azione: il ter­mine definisce l'atto con cui Dio si mostra, non il risultato oggettivizzato di questo atto. E dato che le cose stanno così, del concetto di "rivela­zione" fa sempre parte anche il sog­getto ricevente: dove nessuno perce­pisce la rivelazione, lì non è avvenuta nessuna rivelazione, dato che lì nulla è stato svelato. L'idea stessa di rive­lazione implica un qualcuno che ne entri in possesso. Questi concetti, acquisiti grazie ai miei studi su Bo­naventura, sono poi divenuti molto importanti per me, quando nel corso del dibattito conciliare vennero affron­tati i temi della rivelazione, della Scrit­tura e della tradizione. Perché se le cose stanno come le ho descritte, allora la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplice­mente identica a essa. Questo significa inoltre che la rivelazione è sempre più grande del solo scritto. Se ne deduce, in conseguenza, che non può esistere un mero "Sola Scriptura" ("solamente attraverso la Scrittura"), che alla Scrit­tura è legato il soggetto comprenden­te, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della tradizione» (op. cit., p. 72).
Lasciamo al cardinale Ratzinger la responsabilità dell'affermazione se­condo la quale «nel linguaggio medie­vale» si intendeva la rivelazione come «un concetto di azione», riferito cioè solo all'atto con cui Dio si mostra e non al suo «risultato oggettivizzato». È, però, evidente che, con simile distin­zione, J. Ratzinger vuol separare l'atto dal suo «risultato» obiettivo, e questo è palesemente assurdo: sarebbe come voler separare il dire da ciò che viene detto. Ciò che viene concretamente detto, infatti, altro non è che il dire nel suo «risultato oggettivizzato» (per u­sare il linguaggio del Nostro). Sepa­rando (arbitrariamente) l'atto della ri­velazione (che viene da Dio) dal suo «risultato», il nostro autore può poi affermare che «del concetto di "rivela­zione" fa sempre parte anche il sog­getto ricevente». Si noti bene: egli non dice che la Rivelazione è per il soggetto che la riceve (il che è vero: la ri­velazione non è certo per le piante o gli animali), perché Dio rivela ciò che possiamo comprendere di Lui e cosa vuole da noi, per la nostra salvezza, avendo di noi misericordia. No. Egli dice che il «soggetto percipiente» fa «sempre parte della rivelazione», per cui, se manca questo soggetto, «non è avvenuta nessuna rivelazione». Ciò è ben diverso. Infatti, un conto è dire che la Rivelazione, che nulla toglie o ag­giunge a Dio, il quale l'ha misericor­diosamente voluta per la nostra sal­vezza, esiste indubitabilmente come fatto oggettivo per opera di Dio, quale che sia la nostra percezione (o opi­nione) al riguardo; un altro conto è dire, invece, che senza la partecipazio­ne del soggetto «percipiente» o «ri­cevente» non c'è alcuna rivelazione e quindi che essa esiste come fatto o­biettivo solo grazie alla partecipazione del soggetto conoscente, dell'uomo. Concepita in tal modo, la Rivelazione diventa un fatto della coscienza del soggetto, si soggettivizza per l'appunto (come rilevato dal prof. Schmaus) e senza la partecipazione della coscien­za del soggetto essa non è ciò che è, non è rivelazione. Ma riflettiamo un momento: tutti i nemici di Cristo non credono che Egli sia il Figlio di Dio e quindi non credono alla Rivelazione. Dobbiamo allora dire, applicando la logica del nostro teologo, che a causa di ciò la Rivelazione non c'è stata? Qui abbiamo infatti degli increduli: manca del tutto il soggetto «ricevente». Molti uomini non conoscono o hanno rifiu­tato e rifiutano la Rivelazione: non possono o non vogliono «entrarne in possesso». Dobbiamo forse conclu­derne che la Rivelazione, a causa di questo fatto negativo, cessa di essere ciò che è o perde intrinsecamente valore? Sarebbe una conclusione pa­lesemente assurda. Sarebbe come dire che la sorgente non esiste se non c'è chi ne beva. Ognuno può misurare le as­surdità cui conduce la concezione sog­gettivistica del concetto di rivelazione.
La Rivelazione viene da Dio, Uno e Trino, ed è contenuta nella Sacra Scrit­tura e nella Tradizione, quali il Ma­gistero della Santa Chiesa le ha cu­stodite: è il «deposito della Fede», immutabile nei secoli. La Chiesa, sin dai Dodici ha semplicemente ricono­sciuto e custodito la Rivelazione, af­fermandone la natura di fonte sopran­naturale, cioè complesso di atti e si­gnificati che valgono per noi proprio in quanto risultati oggettividella Bontà Divina soprannaturalmente manifesta­tasi (D. 1785). E questi atti e significati sono stati già fissati e stabiliti una volta per tutte (v. Giuda 3) dalla predi­cazione di Cristo e degli Apostoli, predicazione che risulta a noi in modo diretto, dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione, od indiretto, dai docu­menti di una fede continua, attestata senza interruzione, come nel caso, ad esempio, del Purgatorio, la cui cre­denza risulta inequivocabilmente sin dai primi tempi del Cristianesimo (e ciò dimostra che il Purgatorio è stato predicato sin dall'inizio, dagli Apo­stoli).

Una concezione storicistica del­la verità

La Rivelazione è quindi per l'uomo, ma il suo valore intrinseco prescinde dalla «presa di possesso» che ne faccia l'uomo, perché l'intelletto umano non partecipa in alcun modo al suo venire in essere. In quanto verità, per di più assoluta perché soprannaturale, ha la sua esistenza ed il suo significato già in sé, in modo del tutto indipendente dai «soggetti percipienti», cioè dagli uo­mini per i quali Dio l'ha voluta. Ma il nostro teologo «critico», imbevuto di filosofia moderna, non crede eviden­temente all'esistenza di una verità in sé, ossia al principio del sano intelletto (difeso da San Tommaso), secondo il quale ciò che è vero lo è indipendente­mente dal soggetto che cerca di co­noscerlo: la verità ha un valore in­trinseco, oggettivo, del tutto indipen­dente da ogni circostanza esteriore o dal soggetto che la percepisce. Coglie­re la verità, nel senso proprio del termine, significa riconoscerla nella cosa, come è in sé, e non, invece, crearla nella cosa con il nostro stesso atto conoscitivo ad essa rivolto. E tanto più se la «cosa» è qui la Rivelazione, che viene da Dio! Scrivendo che la Ri­velazione non c'è se nessuno la per­cepisce, ragione per cui il soggetto percipiente deve far «sempre parte» del concetto di Rivelazione, il cardinale Ratzinger mostra di servirsi del con­cetto di verità del pensiero profano, della insana filosofia moderna, la quale non concepisce una verità indipen­dente dal pensiero del soggetto che la pensa. Per questo pensiero profano, per questa insana filosofia moderna, il nostro concetto costituisce la verità di ciò che viene in esso pensato, come se la creasse con l'atto stesso del pensare: il nostro pensiero non riconosce la verità che già c'è nella cosa, ma la crea, come dal nulla, con le sue categorie mentali. Allo stesso modo, per il car­dinale Ratzinger il «soggetto perci­piente» deve considerarsi elemento co­stitutivo del concetto di Rivelazione; il che equivale ad affermare che la verità racchiusa da quest'ultima non è tale in sé, ma solo se il «soggetto percipiente» ne «entra in possesso». Ed invece che il soggetto, l'uomo, si «impossessi» o meno della Rivelazione (che ci creda o meno) potrà incidere sulla efficacia della Rivelazione in un dato momento storico (oggi è molto bassa, come sap­piamo), ma non certo sul suo «con­cetto», che resta invece inalterato ed indipendente nel suo contenuto di Ve­rità Assoluta, di origine divina.
Una concezione soggettivistica del­la verità sostiene, quindi, in modo del tutto errato che il pensiero dell'uomo costituisce, per il solo fatto di pensare, la verità stessa di ciò che viene da esso pensato e creduto. E poiché il «sog­getto percipiente» è storicamente de­terminato (influenzato cioè dal mu­tevole divenire storico), ecco aperta la via per affermare che il contenuto della Rivelazione non può essere vincolato all'atto iniziale in cui è apparso, ma deve dipendere necessariamente dalla coscienza di sé, storicamente mute­vole, che il «soggetto percipiente» ( la Chiesa) possiede. E di questa mu­tevolezza non si vede, come è ovvio, la fine, dato che il suo punto di rife­rimento è solo la coscienza di sé del «soggetto percipiente», progrediente all'infinito. Ecco allora aperta la via all'erronea convinzione, oggi dominan­te, che la verità rivelata è ancora su­scettibile di ulteriori «prese di posses­so» e quindi di ulteriori (e nuovi) sviluppi da parte del «soggetto per­cipiente», che è la Chiesa. Ai supposti sviluppi del «soggetto percipiente», infatti, devono corrispondere sviluppi nella verità rivelata, visto che essa non è tale senza la partecipazione di questo soggetto.

La radice protestantica

Questa funesta convinzione riflette la concezione, di origine protestante, della «storia della salvezza»; conce­zione che si fonda sul soggettivismo del pensiero moderno sopra accen­nato, cioè sull'idea che la verità es­sendo costituita dal pensiero (mute­vole) del soggetto, si attua per gradi, in relazione all'evoluzione storica o della coscienza del soggetto stesso, e quindi in un processo all'infinito, in una di­mensione sempre aperta al nuovo, cioè a nuove determinazioni di ciò che si ritiene vero, secondo lo spirito dell'epoca. A siffatta concezione, che è alla radice dell'«aggiornamento» della Chie­sa al mondo moderno voluto da Gio­vanni XXIII e attuato dal Vaticano II, Joseph Ratzinger dichiara esplicita­mente di aver aderito nell'accingersi al lavoro per la libera docenza: «A quel tempo l'idea di storia della salvezza era al centro dei dibattiti interni alla teologia cattolica, che ora guardava in una nuova prospettiva all'idea di ri­velazione, che nella neoscolastica si era troppo cristallizzata sul livello in­tellettuale: la Rivelazione appariva ora non più semplicemente come la comu­nicazione di alcune verità alla ragione, ma come l'agire storico di Dio, in cui la verità si svela gradatamente. Dovevo quindi verificare se in qualche forma ci fosse in Bonaventura un corrispon­dente concetto di storia della salvez­za» (op. cit. p. 68). E in San Bona­ventura, come si è visto, il nostro teologo credette per l'appunto di aver trovato una conferma di questo con­cetto (eterodosso) di «storia della sal­vezza», applicandogli un'interpretazio­ne soggettivistica del concetto di Ri­velazione.
Si noti come la concezione evoluti­va della salvezza, nella quale «la verità si svela per gradi» (non vale più dun­que, il principio, ribadito contro il modernismo dal decreto «Lamenta­bili», che la Rivelazione si è conclusa con l'ultimo Apostolo) contraddice e­spressamente il tratto specifico del con­cetto ortodosso di Rivelazione, rias­sunto dal cardinale Ratzinger con la dizione «comunicazione di alcune ve­rità alla ragione», dizione per lui in­sufficiente perché «troppo cristalliz­zata sul livello intellettuale» per colpa della neo-scolastica. Che significa? che la concezione della Rivelazione sem­pre professata dal Magistero è troppo intellettuale? Di fatto, essa non lascia spazio alcuno, né lo potrebbe, al senti­mento del «soggetto percipiente», con i suoi problemi esistenziali, tanto cari al decadente pensiero moderno. Ma non si tratta di «intellettualismo». Pro­prio questa è la Rivelazione: il fatto che siano state comunicate, rivelate, delle veritàdi origine soprannaturale (il car­dinale dimentica di usare questo ag­gettivo), di fronte alle quali la ragione, con l'aiuto della Grazia, deve inchi­narsi, accettandole e mettendole in pratica così come sono, cioè secondo il significato dato loro non da noi, ma da Dio stesso e garantito dal Magistero della S. Chiesa assistito dallo Spirito Santo. È nella natura di queste verità il non potersi adattare al mondo, che, invece, deve essere convertito a loro. Ed in ciò consiste l'opera affidata da Nostro Signore alla Santa Chiesa.

Un concetto imbastardito di Tra­dizione

Quando, perciò, il cardinale Rat­zinger difende la posizione cattolica contro il «sola scriptura» degli eretici luterani, bisogna far bene attenzione al significato che egli dà al termine «ri­velazione» e al termine «tradizione». Nel passo in cui replica alle accuse mossegli a suo tempo dal professore Schmaus, il card. Ratzinger stabilisce infatti, come si è visto, un nesso tra rivelazione e tradizione, ma sempre alla luce del concetto soggettivistico di rivelazione da lui professato. Scrive in effetti che «alla Scrittura è legato il soggetto comprendente, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della tradizione» (op. cit, p. 72 cit.; vedi anche pp. 91-92). Che significa: «alla Scrittura è legato il soggetto comprendente, la Chiesa»? La frase va intesa secondo il concetto di rivelazione di cui sopra. Non si tratta della Chiesa che – con l'as­sistenza dello Spirito Santo – custo­disce nei secoli il deposito immutabile della Verità Rivelata, spiegandolo, sì, ma senza poterlo modificare di una virgola; si tratta, invece, della Chiesa intesa come «soggetto comprendente» o «percipiente», senza il quale la Ri­velazione non c'è. Si tratta, cioè, sem­pre di una Chiesa concepita come soggetto che costituisce la Rivelazione con l'entrarne in possesso, che svolge un ruolo attivo, creativo nei suoi con­fronti. Che la Chiesa sia legata alla Scrittura, in un'ottica del genere, si­gnifica solo che la Scrittura dipende dall'attività della Chiesa come «sog­getto conoscente» per essere Rivela­zione. Infatti, il cardinale scrive che la Rivelazione «non è semplicemente i­dentica» alla Scrittura ed è «sempre più grande del solo scritto» (op. cit., ivi, cit.). Ma ciò che è al di fuori dello Scritto Sacro, non è dato, per il car­dinale, dalla Tradizione orale («sine scripto traditiones»): vedi Concilio di Trento, ripreso dal Vaticano I: «le tra­dizioni, sia spettanti alla fede che alla morale, siccome dettate da Cristo a viva voce o dallo Spirito Santo sug­gerite [agli Apostoli] e conservate per continua successione nella Chiesa» (D. 783); «le tradizioni, che, ricevute dal­la bocca stessa di Cristo dagli Apostoli o dagli stessi Apostoli, a cui lo Spirito Santo le dettava, trasmesse quasi di mano in mano, pervennero fino a noi» (ibidem). No, ciò che è al di fuori dello Scritto Sacro, per il cardinale, non è dato dalla Tradizione in senso ogget­tivo, così come è stata sempre intesa nei secoli e definita dalla Chiesa; è dato invece dall'attività del soggetto-­comprendente (la Chiesa), il quale, fa­cendo parte della Rivelazione come elemento essenziale, costitutivo, di­pende solo da se stesso (e perciò dalla propria storia o evoluzione rispetto alla primitiva comunità dei credenti) nel determinare la verità della Rive­lazione stessa.
Il «senso essenziale della Tradi­zione», da cogliersi nel nesso tra Scrit­tura e Tradizione, secondo il punto di vista qui espresso dal cardinale, è perciò quello di una Tradizione che non risulta dalla verità immutabile rivelata da Dio, ma dalla verità che il «soggetto percipiente» costituisce nel­la Rivelazione in modo storicamente graduale e progressivo, perché gra­duale e progressivo è lo sviluppo del «soggetto percipiente» stesso, che o­pera all'insegna della «coscienza di sé». L'idea che la verità esista solo ad opera del soggetto pensante che la pone nella cosa, si accoppia neces­sariamente all'altra idea-guida del pen­siero «laico»: quella del progresso, in­teso come progresso della coscienza, che cresce su di sé, per così dire, avendo come punto di riferimento solo se stessa, cioè l'attività del «soggetto percipiente», e non potendo avere, su questa base, né alcun termine finale né alcuno scopo che la trascenda.
Questo voler introdurre nel con­cetto di Rivelazione, come suo elemen­to costitutivo, il soggettodestinatario della stessa, porta necessariamente ad imbastardire e il concetto di Rivela­zione e quello di Tradizione. La Ri­velazione non si riesce più a coglierla nella sua autonomia di fatti e significati di origineesclusivamente soprannatu­rale, che il soggetto destinatario – per la salvezza del quale sono stati rivelati – deve accettare e custodire senza alterazione alcuna, perché si trova di fronte a verità che non dipendono da lui, ma vengono da Dio. La Tradizione viene anch'essa concettualmente falsi­ficata, perché non esprime più l'idea di un «deposito della fede» di origine divina, mantenuto per diciannove se­coli e risultante dalla Scrittura e dalla Tradizione custodite e spiegate dal Magistero della Santa Chiesa, un «de­positum» che nessuna nuova interpre­tazione deve avere l'ardire di modi­ficare. Esprime, invece, l'idea niente affatto cattolica, ma di origine «laica» e protestante, che la Chiesa-soggetto percipiente, così come costituisce con­cettualmente e quindi per gradi la verità della Rivelazione, costituisce ugualmente per gradi la verità della Tradizione, nell'ambito di un processo del quale non si può vedere né il termine «ad quem», né un punto di riferimento diverso dalla supposta co­scienza di sé della Chiesa, che si in­terroga su se stessa, usando categorie del pensiero profano (Kant, Heidegger et similia invece di San Tommaso).
Il risultato di tutto ciò lo si è visto nel Vaticano II, quando si è data una definizione di Chiesa cattolica in con­traddizione con quanto insegnato dalla Chiesa stessa (e quindi dalla sua vera Tradizione) per diciannove secoli. Ci riferiamo al famigerato «subsistit in» del par. 8 della Lumen Gentium, se­condo il quale la Chiesa cattolica non è più l'unica e sola Chiesa di Cristo, ma sussiste in essa al pari di altre realtà capaci di salvezza (i cosiddetti «fratel­li separati» e fors'anche i non–cristia­ni). Del resto, lo stesso cardinale Rat­zinger ci conferma, nel passo sopra citato, di aver dato un contributo in questo senso nel corso del dibattito conciliare sui temi della Rivelazione, della Scrittura, della Tradizione (op. cit, p. 72, cit.). E un ulteriore risultato di tutto ciò lo si vede nel caos teologico e liturgico dominante nella Chiesa.

Una nozione irrazionale di Tra­dizione

La Tradizione così intesa viene presentata anche come «processo vi­tale» della Chiesa, che si fa «storia» aprendosi a nuovi contenuti, e viene contrapposta all'idea di Rivelazione del supposto intellettualismo neo-sco­lastico, che sarebbe il prodotto della logica «preconfezionata» (!) di San Tommaso. Il cardinale Ratzinger si serve di questo concetto di «sviluppo» allorché ricorda l'opposizione della Fa­coltà Teologica di Monaco alla pro­clamazione del dogma dell'Assunzio­ne. L'opposizione si basava sulle as­serzioni di un «esperto», il patrologo prof. Altaner, secondo il quale «la dottrina dell'assunzione corporea di Maria era sconosciuta prima del quin­to secolo: dunque non poteva far parte della «tradizione apostolica» (op. cit., p. 59). Le affermazioni dello studioso in questione sono controverse e si spiegano anche con il desiderio già allora vivissimo in certi ambienti cat­tolici di venire incontro ai protestanti, notoriamente ostili a causa della loro eresia alla figura e al culto della San­tissima Vergine. Il card. Ratzinger no­ta comunque che, in questo caso, il prof. Altaner si serviva di una con­cezione ristretta della Tradizione, per­ché di fatto la identificava «(solo – ndr.] con ciò che era documentabile nei testi» (op. cit., p. 58). Ma come giu­stifica il card. Ratzinger la definizione del domma data da Pio XII? La giu­stifica forse con gli argomenti con i quali l'ha giustificata Pio XII, e cioè che l'assunzione della Santissima Ma­dre di Dio è una verità da sempre creduta ed insegnata nella Chiesa, da­to che negli scritti, a noi pervenuti, dei santi Padri e scrittori ecclesiastici se ne parla, non come di cosa nuova, ma «come di cosa nota ed ammessa dai fedeli»? (Bolla dommatica Munificen­tissimus Deus). Nemmeno per sogno. L'argomento del cardinale è il seguen­te: «Ma se si intende la tradizione come il processo vitale, con cui lo Spirito Santo ci introduce alla verità tutta intera e ci insegna a comprendere quello che prima non riuscivamo a percepire (cfr. Gv. 16, 12 s.), allora il ricordarsi successivo (cfr. Gv., 16, 4) può scorgere quel che prima non si era visto e pure era già dato, già "tra­mandato", nella parola originaria» (op. cit., p. 59).
In questo passo, di non facile let­tura, la Tradizione viene definita come «processo vitale», di cui è artefice lo Spirito Santo, e quindi come «pro­cesso» non legato a documenti e nem­meno a fatti. Ma la Tradizione in senso cattolico non è mai stata intesa come un processo né come una realtà svin­colata dai fatti (e lo dimostra proprio la definizione dogmatica dell'Assunzio­ne). L'idea del processo contiene quel­la della verità che si sviluppa per gradi ad opera del pensiero dell'uomo e questo sviluppo viene qui attribuito allo Spirito Santo, che sarebbe il pe­dagogo del «soggetto comprendente» di cui sopra e quindi opererebbe per gradi, mantenendo aperta la Ri­velazione! Ma la Tradizione cattolica, invece, contiene l'idea della conser­vazione, della trasmissione del deposi­to della fede dato una volta per tutte (cfr. Giuda v. 3), contro ogni possibile «novità» ed ulteriore contraddittorio sviluppo. Nel caso dell'Assunta, si ave­va a che fare con un fatto: il culto che sin dai primordi del Cristianesimo pro­fessava l'assunzione corporea in cielo della Vergine e ne venerava il sepolcro vuoto (attualmente custodito dagli or­todossi). Tale fatto doveva essere san­zionato dogmaticamente? Il fatto era sempre lo stesso da diciannove secoli, un mistero della Fede costantemente ed universalmente professato dai cre­denti. Non si aveva dunque a che fare con nessun «processo» o «sviluppo» che dir si voglia. Né la definizione dogmatica dell'Assunta può essere vi­sta come espressione di un «processo vitale», che giunge per gradi a creare un nuovo contenuto di fede, che da così lungo tempo era testimoniato e sentito come appartenente al dogma. Non si introduceva novità alcuna. Perciò non ci sembra esatto quello che il cardinale scrive: che «il ricordarsi successivo può scorgere quel che prima non si era visto e pure era già dato, già "tra­mandato", nella parola originaria». Qui non si ha alcun «ricordarsi successi­vo», perché la fede nell'Assunzione c'è sempre stata, si è sempre mantenuta costantemente viva ed efficace; e per questo stesso motivo – la costanza di questa fede e di questo culto – nem­meno si può parlare di un ricordo che concerne «ciò che non si era visto». Il ­fatto è che il cardinale Ratzinger, pur criticando il prof. Altaner, sembra dar­gli ragione quando parla di un «ricordo successivo», cioè costruito «post fe­stum»; anche se poi gli dà torto e giustifica la definizione dell'Assunzio­ne, ma come espressione di quel «pro­cesso vitale» in cui, secondo lui, consi­ste la Tradizione, cioè come espres­sione della creatività della Chiesa, «soggetto percipiente» (e quindi costi­tutivo) della Rivelazione: la Chiesa-­teologo che costruisce la Rivelazione, così come l'ha costruita inizialmente la cosiddetta «comunità primitiva».

A «nuova teologia» «nuova e­segesi»

Si tratta, come ognuno può vedere, di una interpretazione alquanto sin­golare, che mostra i tratti tipici della Nouvelle Théologie: la teologia del car­dinale non è teologia cattolica, è nuova teologia perché fa dipendere il sovran­naturale dal pensiero dell'uomo, sì da mantenere aperta la Rivelazione. Non per nulla egli è stato profondamente influenzato, per sua esplicita ammis­sione, da de Lubac!
Va poi aggiunto che il cardinale Ratzinger tira in ballo lo Spirito Santo in un modo che non ci sembra nem­meno giustificato dai testi citati a so­stegno. Il primo testo è quello in cui Nostro Signore annuncia ai discepoli che lo «Spirito di Verità insegnerà loro ogni verità», compresa quella delle «cose future» (Ioan. 16, 22 ss.). Non crediamo che tale «insegnamento», che comprende anche la profezia, pos­sa applicarsi al nostro caso. Il secondo testo contiene un annuncio ancor più specifico. Preannunciando loro la per­secuzione ad opera dei Giudei, Nostro Signore dice ai discepoli: «Ma io vi ho detto ciò, affinché quando giungerà quell'ora, vi rammentiate che io ve ne ho parlato» (Ioan. 16, 4; tr. it., in La Sacra Bibbia a cura di G. Ricciotti, Firenze, 1940). Il ricordarsi qui te­stimoniato da San Giovanni non ri­guarda «ciò che non si era visto e pure era già dato», ma è legato ad avveni­menti futuri: è connesso all'annuncio profetico della persecuzione per la fede: vi ricorderete domani – dice Gesù – di questo che io vi sto dicendo oggi! Vi ricorderete di un fatto preciso avvenuto di fronte a testimoni. Niente a che vedere con il «processo vitale» e il «ricordo» nebuloso, menzionati dal cardinale; le quali nozioni, provenendo dalle laicistiche «filosofie della vita», e dalla letteratura, sfumano nell'inde­terminato e fanno comunque vedere una concezione irrazionale della Tra­dizione, oltre che completamente e­stranea alla vera teologia cattolica, che non è certo quella dei maestri liberali e modernisti ai quali si è costantemente ispirato il Nostro.

II

Excusationes pro domo sua

Un altro aspetto essenziale dell'autobiografia del cardinale Ratzinger è il tentativo di scindere le sue re­sponsabilità dalla svolta neo-moderni­sta avutasi con il Vaticano Il. Il Nostro vi operò quale consulente teologico del cardinale Frings, arcivescovo di Colo­nia, uno degli esponenti di punta dell'ala progressista, il quale lo aveva scel­to a quel delicato ed importante com­pito proprio per l'orientamento «mo­derno» della sua teologia (cfr. op. cit, p. 72 cit., pp. 85-86).
Il giovane prof. Ratzinger – aveva allora trentacinque anni – partecipò al Concilio dall'interno, schierato con i teologi progressisti più radicali (i vari Rahner, de Lubac, Congar etc.), quelli della cosiddetta «Alleanza Renana». Nell'autobiografia egli cerca di sfu­mare la sua partecipazione a quel sodalizio. Scrive che «il dramma teo­logico, ecclesiale di quegli anni non rientra nell'intento di questi ricordi» (op. cit., p. 86), ma fa eccezione per alcuni argomenti, sui quali eviden­temente vuole fare delle precisazioni.

Gli schemi preparatori

Apprendiamo così che Joseph Rat­zinger non era favorevole al rigetto in blocco degli Schemata (schemi pre­paratori), rigetto che costituì il primo colpo di mano progressista in Concilio: «su diversi punti avevo qualcosa da osservare, ma non trovavo nessuna ra­gione per rifiutarli del tutto... essi davano un'impressione di rigidità e di scarsa apertura... ma si deve ricono­scere che erano stati elaborati con cura e solidità di argomentazione» (ivi, pp. 85–86).

La liturgia

Sulla questione della liturgia, il cardinale cerea di difendere il con­cilio, sostenendo che l'orientamento in esso prevalente non era particolar­mente rivoluzionario (ivi, p. 88). La sua difesa del Concilio su questo punto si basa sul seguente argomento: nessuno allora poteva prevedere i successivi sviluppi eversivi e rivoluzionari della riforma liturgica, sviluppi non giusti­ficati (secondo il Nostro) dai testi ap­provati in Concilio: da vecchio soste­nitore del «movimento liturgico – egli scrive –– all'inizio del Concilio considerai lo schema preparatorio del­la costituzione sulla liturgia, che acco­glieva tutte le conquiste essenziali del movimento liturgico, come un gran­dioso punto di partenza per quella adunanza ecclesiale, consigliando in tal senso il cardinale Frings. Non po­tevo prevedere che in seguito gli a­spetti negativi del movimento liturgico si sarebbero ripresentati con maggior forza, con il serio rischio di portare addirittura all'autodistruzione della li­turgia» (op. cit., p. 57).
Il concilio dunque avrebbe ap­provato, senza valutarne bene i pe­ricoli, un testo che avrebbe poi per­messo i ben noti, negativi sviluppi, ancora in corso. Il cardinale dice che né lui né altri potevano prevederlo. Ma un testo conciliare, secondo i concetti del cardinale, non deve forse intendersi quale espressione di quel «processo vitale» guidato dallo Spirito Santo, nel quale consiste per lui la Tradizione? Come mai allora questo «processo vitale» è stato afflitto da subitanea quanto perdurante necrosi? Se il testo conciliare sulla liturgia ha contribuito indirettamente ai successivi effetti ne­gativi vuol dire che conteneva delle ambiguità o dei lassismi pericolosi. In ogni caso, dobbiamo pensare che la redazione di questo testo, in maniera diretta od indiretta non buono (perché comunque è servito da paravento all' «autodistruzione» della liturgia), sia stata ispirata dalla Terza Persona del­la Santissima Trinità? Qui abbiamo nei fatti un'ulteriore dimostrazione di quanto sia errato, non cattolico, il concetto di Tradizione propugnato dal cardinale: la creatività della Chiesa-­soggetto costitutivo della Rivelazione, che si attua per gradi nella «storia della salvezza», le avrebbe consentito delle iniziative, che poi si sono rivelate co­munque disastrose, perché hanno per­messo lo scempio della liturgia. In real­tà lo schema preparatorio sulla liturgia è l'unico che non fu rigettato dai pro­gressisti dominanti in Concilio, ma questo solo perché era già inquinato dalle «conquiste essenziali del movi­mento liturgico», cioè da un modo di intendere la liturgia che solo inizial­mente si inserì nella tradizione catto­lica.
La questione della liturgia preoc­cupa giustamente, in modo partico­lare, il Prefetto della Sacra Congrega­zione per la Dottrina della Fede. Di fronte al caos liturgico tuttora impe­rante, quale il rimedio? Certo, egli si guarda bene dal sottolineare il carat­tere teologicamente ambiguo della Messa di Paolo VI, che è una delle cause principali del caos attuale. Co­munque sia, in questo libro, c'è una pagina significativa a questo propo­sito, relativa alla promulgazione del Novus Ordo Missae di Paolo VI. Il cardinale si dichiara «sbigottito per il divieto del messale antico, dal mo­mento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia» (op. cit., p. 111). Si trattava di «un divieto quasi completo» (ivi, p. 110). (In realtà il «Missale Romanum» codificato da S. Pio V non è stato mai vietato [ufficialmente, n.d.R] da Paolo VI: v. Enquête sur la Messe traditionelle, ed. La Nef e fonte ivi citata).
Ad ogni modo, il card. Ratzinger ribadisce la verità in ordine al Messale di San Pio V, che non è stato creato da quel Papa, che non fu un messale nuovo: di fronte alle infiltrazioni pro­testanti presenti nella liturgia, San Pio V, nel 1570, «decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto sicuramente cat­tolico, doveva essere introdotto do­vunque non ci si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima» (ivi, p. 111). L'azione di Paolo VI «ha comportato invece una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano essere solo tragiche... si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro... ciò ha comportato per noi dei danni estremamente gravi» (ivi, p. 112). Parole giustissime. Che cosa bisogne­rebbe fare allora? «Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgi­ca, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci trovia­mo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addi­rittura concepita "etsi Deus non da­retur"... Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena... Per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano II» (op. cit., pp. 112-­113).
Ad un'analisi sostanzialmente cor­retta, il cardinale Ratzinger fa seguire una conclusione sconcertante: occorre un nuovo «movimento liturgico» che «richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano II»! Egli non sa di­staccarsi dal Vaticano II, che rap­presenterebbe l'àncora di salvezza! Non bisogna ritornare alla vera Tradi­zione della Chiesa.No. Bisogna ritor­nare al vero Vaticano II, il cui autentico significato non è stato ancora capito!
Il cardinale non sa pensare in ter­mini che non esprimano l'evoluzione verso il nuovo: il Vaticano II deve esser visto non come rottura della tradizione (quale in realtà è stato), ma «come momento evolutivo». Verso che cosa? Verso il nuovo: nella fattispecie verso un «nuovo movimento liturgico». La «riconciliazione liturgica», di cui egli parla qui, non esprime affatto il ricono­scimento dei diritti della vera tradizio­ne cattolica. Significa, invece, ricon­ciliazione con il Vaticano II, facendo­ne emergere la vera spinta innovatrice (che non sarebbe quella dei distrutto­ri della liturgia) grazie ad un nuovo mo­vimento liturgico! Bisogna dunque «ri­tornare» al Concilio (meramente pa­storale), il quale ha negato – nero su bianco – che la Chiesa Cattolica è l'unica Chiesa di Cristo, l'unica arca della salvezza! Bisogna ritornare al Concilio, che ha cercato di fondare la verità della religione sulla libertà della coscienza individuale, e non sulla Ve­rità Rivelata! Bisogna «ritornare» al Concilio, che ha cercato di negare le responsabilità dei Giudei, testimonia­te in modo inequivocabile dai Sacri Testi, nella crocifissione di Nostro Signore! Un nuovo movimento litur­gico! Come se non fossero bastati – dopo un buon inizio – gli errori, divenuti poi orrori, del precedente. Ed è possibile che l'incoraggiamento dato notoriamente dal cardinale ai movi­menti carismatici, che stanno inva­dendo oggi la Chiesa (l'orrore più re­cente prima delle messe–spettacolo) impestandola con una spiritualità cor­rotta proveniente dalle peggiori sette protestanti (quaccheri, ranters, pen­tecostali etc.), vada letto alla luce del tentativo di dar vita in qualsiasi modo ad un «nuovo movimento liturgico». Il Concilio come «momento evolutivo» e un «nuovo movimento» che ne attui l'evoluzione: siamo in pieno «processo vitale», in pieno revival di vitalismo progressista.

Il Concilio

Il nostro autore, infine, ripete più volte – vero e proprio «refrain» – che il Vaticano II non è stato ancora ben capito. Circa la Dei Verbum, «uno dei testi di spicco del Concílio», dice che questo testo «non è stato ancora rece­pito appieno» (op. cit., p. 93). In ge­nerale «il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla co­scienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime, è ancora da realizzare» (ivi). Dunque: a trentadue anni dalla fine del Vaticano II, ci si viene a dire che il Concilio non è stato ancora ben capito e che bisogna risco­prirne l'autentico significato? E come mai il Concilio non sarebbe stato ben capito? e per colpa di chi?
Il cardinale colloca se stesso in parallelo al Concilio: come quest'ul­timo non è stato ancora ben capito,così anch'egli non lo è stato. Abbiamo visto che egli dichiara di non aver condiviso il rigetto integrale degli Schemi pre­paratori da parte dei progressisti. Ap­prendiamo, inoltre, che la sua oppo­sizione allo schema ufficiale sulle fonti della Rivelazione non è stata corretta­mente valutata, perché voleva in realtà esprimere quel concetto di Rivela­zione di cui sopra, che, egli afferma, è in armonia con quello della Tradizione (cfr.op. cit., pp. 91–92). Come, al tempo del conseguimento della libera docenza, il suo pensiero non fu ben capito dal prof. Schmaus, allo stesso modo – sostiene il cardinale – non fu capito al Concilio (ivi).
Lo sviluppo sempre più rivoluzio­nario del Concilio lo gettò nell'inquie­tudine: «Sempre più cresceva, l'im­pressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva assomigliare a un gros­so parlamento ecclesiastico, che po­teva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio. Evidentissi­ma era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso. Le discussioni con­ciliari venivano sempre più presentate secondo lo schema partitico tipico del parlamentarismo moderno... per i cre­denti si trattava di un fenomeno stra­no: a Roma i loro vescovi parevano mostrare un volto diverso da quello di casa loro. Dei pastori che fino a quel momento erano ritenuti rigidamente conservatori apparvero improvvisa­mente come i portavoce del progres­sismo – ma era farina del loro sacco? La parte che i teologi avevano assunto al Concilio creò tra gli studiosi una nuova consapevolezza: essi comincia­rono a sentirsi come i veri rappresen­tanti della scienza, e, proprio per que­sto, non potevano più apparire sot­toposti ai vescovi... Ma ora nella Chie­sa Cattolica, quanto meno a livello della sua opinione pubblica, tutto ap­pariva oggetto di revisione, e persino la professione di fede non pareva più in­tangibile, ma soggetta alle verifiche degli studiosi... si percepiva già qual­cosa d'altro, l'idea di una sovranità ecclesiale popolare, in cui il popolo stesso stabilisce quel che vuole in­tendere col termine Chiesa...» (op. cit., pp. 97–99).
Il cardinale Ratzinger esprime qui con molta efficacia e precisione il ter­ribile spirito di agitazione rivoluzio­naria, che ad un certo punto s'im­padronì della maggioranza del Con­cilio, e, senza volerlo, rende ragione dell'affermazione fatta a suo tempo da mons. Lefebvre, secondo la quale ad un certo punto, satana si era impa­dronito del Concilio. Questa volontà di tutto mutare, questa smania di novità ad ogni costo, in odio al principio di autorità, a Roma e al Papa come i­stituzione, poteva venire dallo Spirito Santo? Non poteva venire che dal maligno. (L'agitazione impressasi da allora alla Chiesa non si è più placata e non si vede del resto quale istanza vaticana sia oggi in grado di rimettere in riga vescovi e teologi e con quale autoritàeffettiva).
Preoccupato per la piega presa dagli eventi, il Nostro, in una con­ferenza tenuta all'Università di Mün­ster, «cercò di lanciare un primo se­gnale di allarme, che però non fu quasi per nulla notato» (ivi, p. 99). Maggiore attenzione, ma non troppa, ottenne un suo intervento alla Giornata cattolica di Bamberga del 1966, tanto che il car­dinale Döpfner «si stupì dei "tratti conservatorì" che gli era parso di co­gliere» (ivi). Sulla base di queste (pe­raltro poco incisive) dichiarazioni, il cardinale situa se stesso accanto a coloro che, nel terribile periodo del post-concilio, «avevano ridefinito le loro posizioni», preoccupati per il fu­turo della Fede (ivi, p. 107). Ma – osserviamo – per lui non si trattava di ridefinire: dal momento che afferma di non essere stato ben capito, dal 1956 in poi, cioè dal tempo del suo lavoro su San Bonaventura, è evidente che il card. Ratzinger considera le sue po­sizioni del post-concilio e di oggi so­stanzialmente uguali a quelle dei suoi inizi di studioso, quando era (giusta­mente) accusato di voler elaborare una concezione soggettivistica della Rive­lazione. In questa autobiografia del cardinale Ratzinger non c'è alcuna au­tocritica: chi l'ha accusato di essere un liberale, un modernista non ha capito il suo pensiero. Allo stesso modo, chi accusa il Vaticano II per la situazione disastrosa in cui si trova oggi la Chiesa, non ha capito il Vaticano II. Anzi, la vera recezione di quel Concilio deve ancora cominciare.

Conclusione

Tutto ciò non è altro che stuc­chevole apologia. Il cardinale Ratzin­ger sembra non aver appreso nulla da tutto ciò che è successo. Si preoccupa solo di mostrare la continuità della sua teologia, credendo di difendere in tal modo e se stesso e il Vaticano II. Da questa difesa dovrebbe uscire raffor­zata l'immagine di un Ratzinger re­stauratore della fede, difensore della tradizione, nella quale molti mostrano ancora di credere. Si tratta di una palese mistificazione. L'opera teolo­gica più nota del cardinale è il libro Introduzione al Cristianesimo, del 1968, tradotto in diciassette lingue. Nella sua biografia egli ne parla con sod­disfazione (op. cit., p. 103). Ebbene, la cristologia ivi esposta è assai poco ortodossa. Non si discosta gran che dai parametri della teologia degli eretici, ormai assorbita supinamente dalla maggioranza dei teologi cattolici. An­ch'egli afferma che Gesù il Messia è un prodotto della fede della comunità pri­mitiva: «è colui che è morto in croce e agli occhi della fede è risuscitato» (ed. it., Brescia, 1971, 4a ediz., p. 172): la Risurrezione non è un fatto storico, ma una semplice credenza dei discepoli! E si potrebbe continuare. (Per un'analisi dettagliata, rinviamo a sì sì no no n. 6 1993, pp. 1-6).
Come è nata allora questa fama di un Ratzinger restauratore della Chie­sa? Probabilmente dal fatto che egli ha mosso più volte critiche precise e cir­costanziate a certe degenerazioni e si è sempre dissociato dagli elementi più estremisti (vedi sì sì no no n. 17 1994, pp. 1-4), ma ciò nulla toglie all'im­pianto modernisticodella sua visione teologica: «Ratzinger è sempre così: agli eccessi, dai quali prende (spesso con battute felicemente caustiche) le distanze, non oppone mai la verità cattolica, ma un errore apparentemen­te più moderato e che tuttavia nella logica dell'errore porta alle stesse ro­vinose conclusioni» (sì sì no no n. 6 1993, cit., p. 6).
Ci fu chi paragonò felicemente il Vaticano II agli Stati Generali della Rivoluzione francese. Per restare nel paragone, ci piace definire il cardinale Ratzinger un girondino. I Girondini erano certo più moderati politicamen­te dei Giacobini e della loro ala sinistra (i cosiddetti «Enragés», gli «Arrab­biati», paragonabili oggi ai vari Küng, Drewermann etc.), ma non erano meno rivoluzionari: volevano realizzare gli stessi obiettivi, in modo più graduale, più pragmatico. Identica era la visione del mondo: l'esaltazione della ragione umana posta al centro dell'universo, della democrazia, dell'individualismo borghese; identico l'odio per il Cristia­nesimo, il desiderio di impadronirsi dei beni della Chiesa, etc. Né l'auto­biografia né il libro-intervista ci fanno vedere un Ratzinger diverso da quello che conoscevamo. Non rimane che sperare in un miracolo affinché egli si decida un giorno (però presto) a fare effettivamente il Prefetto per la Dot­trina della Fede, intervenendo con la massima autorità e secondo la teologia della Chiesa di sempre (non quella sua personale) contro l'Errore che da trop­po tempo ormai la fa da padrone nel mondo cattolico.
Aegidius

Post più popolari