LA VIRTÙ DELLA FORTEZZA CONTRO LA VIOLENZA RIVOLUZIONARIA

Fonte: Totus Tuus
di Marcel de Corte


Tratto da FORZA E VIOLENZA, pp. 11-52, Volpe editore, Roma, 1973




"Signori, — proclamava Valéry in un famoso discorso, — la parola virtù è morta, o per lo meno va morendo". Non sono soltanto le virtù teologali a spegnersi nell'anima degli uomini, ma anche le quattro virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza, che la morale antica aveva innalzato a cardini su cui gira tutta la vita umana e che il cristianesimo aveva incorporato alla sua visione delle relazioni dell'uomo col suo Fine Supremo in un modo che sembrava definitivo: la fortezza, in specie, non era per lui soltanto una delle virtù di cui l'uomo ha bisogno per completarsi nell'ordine della natura, ma un dono sovrannaturale, che lo Spirito Santo accorda all'anima per supplire alla sua infermità e per muoverla a quegli atti che le virtù teologali stenterebbero a fargli compiere.
Queste virtù sono scomparse dai nostri costumi. La mirabile quadriga che trasporta l'uomo verso il suo destino e che l'ammirevole catechismo di San Pio X e l'umile catechismo della mia infanzia, ancora in uso dieci anni fa, additavano ai nostri giovanili ardori, ha ceduto il posto alle divagazioni sul Sesso adorabile e maiuscolo.

L'insegnamento cattolico l'ha relegata nel museo dei vecchiumi. La recente Enciclopedia della Fede edita dai Domenicani di La Tour-Maubourg non accorda la benché minima menzione al dono della fortezza; ciò che, del resto, si capisce. In compenso la Giustizia si è immensamente gonfiata: è l'otre d'Eolo, gonfia di tutte le rivolte dell'uomo contro la sua condizione umana; invece di eclissarsi nel silenzio e nell'oblio come le sue sorelle, essa rimbomba come il tuono ai quattro canti del mondo e, da virtù che consiste nel rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto, si trasforma, in quest'epoca di "mutazioni" più galoppanti dell'antica tisi, in violenza rivoluzionaria e in procedimento efficace per prendere a ciascuno non solo ciò ch'egli ha, ma anche ciò che egli è.
Ma prima di interrogarci sullo svanire della fortezza a vantaggio di una violenza malefica, adorna del prestigio usurpato dalla giustizia nel mondo moderno, conviene chiederci quale sia la natura di questa virtù e degli atti che da essa emanano.
Una lettura affrettata di San Tommaso d'Aquino rischia assai di indurci in errore su questo punto. Il Doctor Angelicus della Chiesa analizza infatti la virtù della fortezza supponendola nel contesto di una società normale: la sua, nell'età sua, che non conosceva la tremenda malattia di cui soffre la società moderna, la sovversione. Le città antiche e le società medievali conobbero numerose guerre, rivolte, jacqueries ma ignoravano totalmente il fenomeno rivoluzionario. Nel corso della storia del cristianesimo i fedeli conobbero spesso la persecuzione. Più d'una volta furono posti di fronte a una scelta drammatica: o abiurare la loro fede, o morire. Ma non ebbero mai ad affrontare all'interno della Chiesa — in sinu ac gremio Ecclesiae, secondo l'indimenticabile formula di San Pio X — alcuna violenza fatta alla loro fede e, diciamolo senza ambagi, una specie di martirio spirituale al cui paragone i tormenti inflitti al loro corpo sarebbero loro sembrati irrisori. Non furono mai costretti a rinnegare i principi su cui si fonda ogni sana società e a mettere in opera, in nome di dottrine che, come vedremo poi, sono la parodia del cristianesimo, certi princìpi che portano direttamente alla degradazione di quanto v'è di più umano nell'uomo.
Perciò, se San Tommaso scrivesse al giorno d'oggi, egli dovrebbe allargare la definizione che ci da della virtù della fortezza, quale la si intende dalla semplice enunciazione dei suoi termini: la fortezza ha per funzione di mantenere la volontà umana sulla linea del bene morale, mettendola in grado di resistere ai grandi pericoli corporali che possono assalirla, e in specie ai pericoli mortali causati dalla guerra. Dal pari i due atti principali della fortezza, che sono resistere al timore della morte fisica nei combattimenti e attaccare con audacia ogni aggressore che mira a far perdere i beni necessari o utili alla vita temporale di chi gli resiste, subirebbero per parte loro una forte trasposizione. Altro è infatti affrontare la morte fisica in un combattimento corpo a corpo con un avversario che vuole soltanto togliervi la vita e non pensa minimamente di intaccare la vostra intelligenza o la natura stessa della Città alla quale appartenete, ma vuole soltanto sottoporla al dominio della sua, com'era il caso nel medioevo; altra cosa è trovarsi di fronte ad un sistema di pressioni esterne che impediscono la vostra funzione conoscitiva, di attingere la realtà per cui essa è fatta, e che mirano, simultaneamente, ad impossessarsi del vostro essere sociale, a distruggere le comunità naturali o semi-naturali di cui fate parte, con una serie di mezzi che vanno dalla propaganda insinuante e intimidatoria al terrore brutale, passando per tutta la gamma delle violenze intermedie, e a riplasmare la vostra essenza secondo il modello di un'ideologia che si pretende creatrice di un "uomo nuovo" e di una "nuova società", come avviene da due secoli in qua.
Se a tali forme di violenze larvate o crudeli si aggiunge la manipolazione delle anime da parte di confessioni religiose che disprezzano il culto di Dio e che fanno convergere le energie religiose, private del loro sbocco normale, sul culto dell'Uomo, allora non è più in causa soltanto la vita fisica dell'essere umano, ma la sua duplice e indivisibile natura di animale ragionevole e di animale politico e la sua possibilità di sopraelevarsi al livello del soprannaturale. Tutto ciò che presuppone il vecchio adagio "gratia naturam supponit" (la grazia presuppone la natura e non può sbocciare in un essere sprovvisto d'intelligenza e mutilato delle sue radici sociali spazio-temporali) subisce ormai l'assalto delle potenze di morte che violentano la natura stessa dell'uomo e il soprannaturale che la consolida e la esalta sino a farla partecipe della vita intima di Dio.
Dinanzi a tale scatenarsi del nichilismo, la virtù della fortezza ed i suoi atti in tutti i campi — intellettuale, morale, sociale, temporale e spirituale — rivestono un'importanza e un'ampiezza inestimabili. Nella gerarchia delle virtù cardinali, la fortezza non si colloca più subito dopo la prudenza e la giustizia e prima della temperanza, come stimava ancora San Tommaso, ma, nelle circostanze odierne, al primo posto, in compagnia della prudenza, senza la quale non vi è virtù morale possibile, e singolarmente della prudenza politica, sola capace di assegnare all'uomo i mezzi per conseguire il bene comune, fine necessario della sua vita ed anche tappa necessaria per ottenere la perfetta beatitudine che Dio, nella sua bontà, gli dispensa gratuitamente.
Conviene rammentare qui che le virtù dell'uomo, sebbene distinte secondo i rispettivi oggetti, non si possono coltivare l'una indipendentemente dalle altre in una vita morale degna di tal nome. Le virtù sono strettamente connesse tra di loro, come attesta la più semplice osservazione: l'imprudenza che non sa adattare i mezzi al fine che persegue, e che si slancia a capofitto, senza riflettere, verso l'oggetto — per esempio — della giustizia, ha molte probabilità di non investirlo. D'altra parte, come potrebbe esser prudente l'uomo che trasgredisce la giustizia ? Come potrebbe il giudice esser giusto, se non ha la fortezza che lo renda capace di resistere alle pressioni del potere? Come potrebbe agire e reagire il forte, se si abbandona a tutte le concupiscenze? E si potrebbero moltiplicare gli esempi di tali vincoli reciproci che uniscono le virtù cardinali e consolidano ciascuna di esse con l'afflusso dell'energia delle altre.
Ma è indubbiamente la fortezza quella con cui la prudenza ha le maggiori affinità. Come dice l'ammirevole Bossuet, "la vera prudenza non è soltanto riflessiva, ma perentoria e decisiva". Se infatti la prudenza ha per oggetto, secondo il medesimo Bossuet, "di mettere ordine dappertutto", quest'ordine non consiste soltanto in una successione e "nell'accordo tra fine e mezzi", ma anche in un comando (imperium) che prescrive alla volontà di realizzarla e che presuppone, inerente alla prudenza, quella fortezza che, come abbiamo visto, non consiste soltanto nel restare saldi di fronte ai pericoli corporali, ma nel mantenere l'essenza dell'uomo contro pericoli che la minacciano e nel contrattaccare i nemici che tentano di asservirla, trasformarla e annientarla. È infatti carattere proprio delle virtù morali di assicurare la retta estimazione del fine, al cui servizio la prudenza dispone le sue scelte e i suoi imperativi concreti; e tale fine è sempre, in ultima analisi, il compimento, nell'uomo, della sua natura e l'espandersi del germe soprannaturale che Dio liberamente vi depone: "Divieni ciò che tu sei, per natura e per grazia, è il fine stesso della tua vita d'uomo".
In questo senso può dunque dirsi che la prudenza procede, come dalla stessa sua fonte, dalla fortezza che resiste alle pressioni esterne e che scarta gli ostacoli opposti alla realizzazione della natura dell'uomo e al suo rafforzamento mediante la grazia. La fortezza è conservatrice dell'essenza umana, il cui effettuarsi nell'esistenza costituisce il fine stesso di tutte le azioni morali che la prudenza regola ispirandosi ai suoi imperativi. Così Sant'Ambrogio non esita a proclamarla la più eccellente delle virtù: est fortitudo velut ceteris excelsior. Basta, del resto, osservare le conseguenze che implica per la natura umana, e per i beni più preziosi ai quali essa è indirizzata, il contrario della forza: la debolezza. Uno dei più perspicaci osservatori dell'uomo, il cardinale de Retz, già lo notava con incomparabile acume: "Gli effetti della debolezza sono inimmaginabili ed io affermo che sono più straordinari di quelli delle più violente passioni". Non occorre insistere su ciò, in un'epoca in cui la porosità degli spiriti di fronte alle utopie, ai miti, alle propagande ideologiche, alle più insane assurdità, è universale; in cui l'autorità, custode del bene comune tanto nella Città quanto nella Chiesa, viene meno, si sfibra, abdica ogni momento; in cui le volontà di potenza scatenate dappertutto non cessano di inoculare, a tutti coloro che esercitano ancora la virtù della fortezza e arginano o respingono la sovversione di tutti i valori, una coscienza turbata di fronte alla loro fermezza e agli atti che ne derivano. Non si esagera affatto affermando che l'ecumenismo del male — il solo che si riscontri nei fatti — è la diretta conseguenza di tale devirilizzazione morale, di cui più avanti dovremo individuare le cause. In virtù di una legge che governa sia la natura fisica in genere, sia quella dell'uomo in particolare, come pure la sua natura morale, sociale, intellettuale, ogni debolezza ingenera la violenza.
Poiché la fortezza è oggigiorno relativa ai fautori di sovversione, che si sforzano di sostituire all'essenza dell'uomo, nata da Dio, una costruzione del loro spirito, che qualificano — secondo il genere di aberrazione — "prometeica" ovvero "ispirata dai carismi dello Spirito che agisce nella Storia per mezzo di nuovi profeti", è dunque la natura sociale dell'essere umano, senza la quale non esistono valori intellettuali, morali o religiosi (nemmeno rivelati), ciò che essa dovrà difendere attaccando i suoi nemici.
A questo titolo, la fortezza allaccia le relazioni più strette con la giustizia; non già quella il cui nome ci rintrona di continuo le orecchie, ma quella forma di giustizia che è tanto più generalmente abbandonata in quanto concerne il bene comune, e che si chiama giustizia generale o giustizia sociale. È forse la menzogna più sfacciata e misconosciuta del mondo moderno, aver chiamato giustizia sociale ciò che, sotto questo nome usurpato, non ne è più che il cadavere. Ciò che i nostri contemporanei intendono per giustizia sociale è di rendere il dovuto a ciascuno, preso individualmente, su un piede d'eguaglianza con tutti gli altri membri del gruppo di cui fa parte. Una società siffatta è la negazione e la distruzione della società. È propriamente una dissocietà, perché composta per definizione di granelli di sabbia rigorosamente eguali e ognuno dei quali, nulla potendo avere in più o in meno degli altri, non può quindi rendere agli altri quanto è loro dovuto. Per mantenere l'ordine e la coesione in una simile società, non resta che la costrizione. Ecco perché le "società" contemporanee, che sono tutte dissocietà, non si reggono se non per mezzo di un apparato di leggi e regolamenti sempre più complicato, ed evolvono, con una sicurezza implacabile già predetta da Balzac, verso il comunismo totalitario. I granelli di sabbia non si mantengono uniti se non sotto la pressione costante di una mano di ferro, che li stringe. È ciò che il vecchio poeta greco Esiodo, il quale viveva in un'epoca paragonabile alla nostra, chiamava il diritto nel pugno (dike en chersin). L'oscillazione ininterrotta del pianeta, che da due secoli in qua va dall'anarchia o violenza non organizzata allo statalismo o violenza concertata, è abbastanza tipica in proposito.
Bisogna poi rammentare col massimo vigore, con Aristotele, che non v'è ingiustizia maggiore del trattare egualmente cose ineguali, e che il mito egualitario, il quale sfibra i forti e debilita ancor più i deboli, stabilendo così l'impostura di ineluttabili "gerarchie" arbitrarie, come mostra la brillante esperienza del mondo contemporaneo, è propriamente la menzogna per eccellenza. Sotto il manto della giustizia è l'implacabile ingiustizia, che trionfa. Come scrive George Orwell nel suo romanzo 1984, data fatidica che si avvicina, i membri di questa pseudo-società sono tutti eguali, "ve ne sono soltanto alcuni che sono più eguali degli altri". All'ordine naturale, intessuto di infallibili ineguaglianze sgorgate dalla nascita, dalla vocazione e dai mille e uno doni più svariati, che l'inesauribile Provvidenza accorda agli umani, i quali alla loro volta si fanno più dissimili fra loro secondo che li fanno crescere o deperire, si sostituisce un ordine artificiale, il quale non può mantenersi se non grazie alla malleabile potenza del Numero, costituito d'unità identiche, che l'astuzia e la violenza congiunte di alcuni manipolano a loro piacimento. Alla diversificazione organica della vita, che sola permette gli scambi reali, subentra un apparato meccanico di costrizioni, che aggrega gli uni agli altri gli atomi umani.
La virtù dei forti è di far regnare la giustizia trascinandoseli dietro, per il contagio del suo esempio e con i suoi atti, gli sforzi di tutti verso il bene comune, in modo da difenderlo e respingerne i nemici. Siamo giunti oggi ad un tal punto di anoressia morale, che non sappiamo più che cosa sia il bene comune, oggetto della giustizia sociale e senza del quale non v'è società degna di tal nome. Noi non sappiamo più che il bene comune, o bene dell'insieme, è superiore al bene particolare delle parti, e che consiste precisamente nell'unione, nella concordia, nell'accordo e nell'armonia dei suoi membri, vertice della vera giustizia. "La forza — scrive San Tommaso — ha quell'utilità generale che consiste nel mantenere l'ordine della giustizia tutto intero (ad conservandum totum justitiae ordinem)", alla cui realizzazione la virtù della prudenza politica dispone i mezzi che essa scopre. Il bene comune è, anzitutto, l'ordine, che è a tutti i livelli l'unità del diverso e, come dicevano i Pitagorici, "l'accordo del discorde", come una sinfonia. Indubbiamente l'unione fa la forza, ma ancor più la forza fa l'unione, dico la forza associata alla prudenza e finalizzata dal bene comune e dall'ordine. Senza di essa, senza il suo esercizio, l'unione, l'associazione, la partecipazione all'opera comune, fondamento e focolare di ogni vera società, sono votate all'insuccesso, alla morte. Senza di essa l'uomo, abbandonato a tutti i vagabondaggi del suo Io ed errabondo in cerca del proprio bene particolare sempre mutevole, si trasforma in un insetto che rode l'albero della vita sociale e finisce con l'abitare un termitaio di cemento armato. Questo nesso tra la forza e l'ordine del bene comune si manifesta nelle comunità naturali e semi-naturali: famiglia, mestiere, professione, impresa, piccola e grande patria, civiltà, ecc., che l'uomo non ha create né scelte, che lo accolgono alla sua nascita e lo avvolgono nel loro tutelare tessuto sociale da un capo all'altro della sua esistenza, ma di cui la continuità, le virtù, i benefici non possono venire mantenuti se non dai suoi sforzi. Nulla di più fragile dell'ordine umano, nulla di più continuamente minacciato: la morte, la morte che porta via tutti i beni perché toglie il primo di tutti, l'esistenza; la morte, che è il peggiore dei mali, sta continuamente in agguato, se la fortezza non è pronta a premunirli contro la sua minaccia. L'ordine del bene comune, invero, è fatto di relazioni reali tra gli uomini e nulla è più facile che spezzare relazioni, legami, siano pure organici, arterie, siano pure nutritive. Basta dire: Io. È tutto qui. Basta sostituire la volontà degli uomini alla natura delle cose. Basta erigere la persona a principio e fine dell'ordine sociale. Basta proclamare che l'interesse particolare e l'interesse generale sono incompatibili. Basta, insomma, lasciarsi andare sulla propria china. Ognuno la porta dentro di se; ci si può sdrucciolare ogni momento.
Separarsi dal proprio essere più profondo, quello che non dipende da noi stessi, che ci è stato dato, che non deriva dalla propria volontà come sua sorgente; che è relativo agli altri, che è la più antica conseguenza del più antico peccato del mondo: il peccato originale. Un antico Padre della Chiesa lo ha detto con una formula prodigiosa: col peccato originale, l'uomo diventa separato da sé stesso e dagli altri. Il vecchio Aristotele lo aveva detto in altri termini: l'uomo solo è una bestia o un dio. L'eritis sicut dei del Genesi ha promesso tale metamorfosi ai nostri progenitori. Il male primario sta lì: nella separazione, nel rinnegamento dell'ordine iscritto nella natura dell'uomo, che non dipende da lui per esistere in lui, ma che ha bisogno della sua collaborazione per persistere e compiersi.
Non fa quindi meraviglia che, a dispetto della nativa inserzione dell'uomo nel bene comune delle diverse società in cui vive, la rottura del legame sociale sia frequente in tutte le epoche della storia, massime nei periodi di crisi. Per riprendere il detto di Augusto Comte, "l'insurrezione dell'individuo contro la specie" è endemica. Se essa non viene frenata, può diffondersi in ogni momento. Finora è stata arginata grazie alle riserve sociali accumulate dai secoli passati. Nonostante le profonde perturbazioni, i cambiamenti di regime, le rovine morali, l'abbattersi delle strutture d'intere società, che la disorganizzazione sociale poté provocare nei periodi più foschi della storia, si può dire che la natura umana riprenda vigore dopo che sembrava scomparsa, e che la natura umana riprendeva vigore dopo che sembrava scomparsa, e che la vita sociale, come la fenice, risorgeva, dalle sue ceneri. La storia d'Europa, dall'età neolitica sino al secolo XVIII, ne reca testimonianza: per quanto numerosi fossero gli individui che assalirono l'ordine sociale nei periodi di crisi della civiltà, essi lo fecero alla cieca, senza mettere in causa la natura dell'uomo e le leggi che la governano, senza manifestare l'esorbitante pretesa di mutarla. La SOVVERSIONE è un fenomeno recente, che consiste nel distruggere la natura degli esseri e delle cose sostituendola col suo opposto, con ciò che Maurras chiamava giustamente l'Antiphysis; con una costruzione artificiale in continua evoluzione e sempre perfettibile, opera dell'uomo che crea sé Stesso e detronizza Iddio. La SOVVERSIONE risale appena a due o tre secoli addietro. La famosa formula del sofista greco Protagora — "l'uomo è la misura di tutte le cose" — è diventata oggidì un ritornello che i chierici ripetono instancabili alle masse che essi adulano e illudono, di fronte al perpetuo specchio in cui si contemplano. Essa ha impiegato quasi due millenni per eseguire la sua opera di scalzamento e per apparire in piena luce. Frenata dalla mirabile filosofia greca, che per bocca di Platone e d'Aristotele proclama che Dio solo è la misura di tutte le cose, denunciata dal cristianesimo come l'espressione più impudente dell'orgoglio luciferesco,essa è sbucata fuori nel Rinascimento, che Chesterton chiamava esattamente la Ricaduta. Essa mette capo, alla fine del XX secolo, non alla morte di Dio ma alla morte dell'uomo, mutilato della sua capacità di sviluppo naturale e ipso facto del suo luogo di sviluppo soprannaturale, e in cambio infarcito di una dinamite omicida, presentata sotto il nome allettante e sospetto di umanesimo, per trasformarsi in ordigno micidiale.
Il carattere proprio della SOVVERSIONE è infatti, come dice il suo stesso nome, di porre in basso ciò che nell'uomo sta in alto, e viceversa. L'intelligenza non è più, per lei, quella facoltà la cui funzione prima è di conoscere la verità sottomettendosi umilmente alla realtà; la funzione seconda di agire subordinando docilmente tutte le azioni umane al loro Fine Supremo, che è Dio; la terza di fare o produrre oggetti esteriori che sono utili all'uomo; ma la facoltà la cui funzione è di disfare continuamente la creazione e disfarsi o liberarsi del suo status di creatura per rifare il mondo e rifare l'uomo. Che l'uomo sia rifatto, deriso, ingannato, mistificato dalla SOVVERSIONE al termine dell'avventura, siamo forse ormai ben pochi a scorgerlo.
Dal secolo XVIII in poi, l'intelligenza umana è entrata in una crisi di cui possiamo osservare l'ultima fase e di cui il Rinascimento recava già in sé tutti i germi. L'antropocentrismo, l'esaltazione della soggettività, il primato esclusivo dell'immanenza, il culto dell'Io si espandono sempre più. Essi presuppongono che l'uomo non fa più della metafisica così come respira, e che l'attività contemplativa, che si innalza dalla sua rispondenza col reale sino all'affermazione dell'esistenza di Dio, si sta estinguendo in lui. L'uomo ormai non si sente legato costitutivamente alla realtà e al Principio di ogni realtà. La sua relazione fondamentale con l'essere e con la Sorgente dell'essere è troncata. Egli non la vive più; non la innalza più al livello della conoscenza; non ha più una concezione di sé stesso, del mondo e di Dio che sia conforme al reale e che sia vera. Quindi non sa più dove vada. La sua volontà non è più orientata dalla sua ragione verso un vero Fine Supremo, che non dipende in alcun modo da essa. Come non v'è più una morale, non v'è più metafisica. Ma poiché l'uomo non può fare a meno né di metafisica, né di morale, gli occorre assolutamente costruire una metafisica e una morale da cima a fondo, non più muovendo dal reale, in funzione della natura delle cose e della sua stessa natura, ma muovendo dalla sua soggettività, in funzione dell'idea o dell'immagine ch'egli si formerà del mondo e di sé stesso. Ciò ch'egli ormai contempla non è più la realtà ne il Principio della realtà, ma l'idea o l'immagine che ne elabora in seno alla sola facoltà che in lui è capace d'invenzione: la sua immaginazione creatrice, la sua capacità di costruire un mondo artificiale che gli apparterrà interamente, giacché egli ne è la causa. Il fine che sarà oggetto del suo desiderio ormai non sarà più Dio, ma lui medesimo, trasformato da creatura in creatore ed al quale il mondo fittizio ch'egli ha generato servirà, come mezzo sempre più fittizio e sempre più subordinato a lui medesimo, per affermare la sua assoluta trascendenza.
In termini più semplici e concisi, l'attività contemplativa e l'attività morale dello spirito sono ormai sublimate nella sola attività che sia "veramente" umana: l'attività poetica (dal greco poiein: fare) o l'attività costruttrice di un mondo nuovo, di un uomo nuovo, di un dio nuovo. Una tecnica priva d'ogni riferimento alla metafisica e alla morale, che in lui la finalizzerebbe dandole un senso e sottoponendola a certe regole, invade tutto lo spazio spazzato nello spirito dell'uomo dall'umanesimo e dall'antropocentismo del Rinascimento. L'avventura dell'uomo occidentale si riassume in poche parole: in mancanza di tordi, mangia i merli, ma sono i merli posticci ch'egli fabbrica instancabilmente. La SOVVERSIONE è ridotta alla contraffazione e non ha altro mezzo, tutto sommato, di far passare per verità la sua menzogna essenziale, se non quello di soffocare nell'uomo con la violenza il senso del vero, del bene, del bello e di battezzare creazione il suo assassinio, con la complicità della vittima stessa.
Si possono ricapitolare in. due fasi principali le tappe sinuose di tale prodigiosa mistificazione: anzitutto la trasformazione delle mentalità; quindi la constatazione che la società non è più adatta a tale cambiamento degli spiriti e che bisogna trasformarla da capo a fondo e sostituirla con nuove strutture, conformi alle esigenze dell'uomo giunto alla piena coscienza della sua autonomia,
Non è il caso di esporre qui tutta codesta storia, movimentata nei suoi giri e rigiri e ritorni successivi ed intricati.
Accontentiamoci semplicemente di alcuni punti di riferimento. Il Rinascimento — scrive Eugenio Garin, uno degli storici più sagaci — "è un passaggio dalla visione dell'essere... alla realtà dell'uomo-poeta, cioè creatore. All'uomo cui non spetta se non contemplare un ordine dato, incarnare un'essenza prestabilita fin dall'eternità, si sostituisce l'uomo che ha davanti a sé possibilità infinite, che possiede virtualità illimitate. Il mondo, lungi dall'essere irrigidito in forme fisse, è malleabile all'infinito". È lo stesso pensiero di Cartesio, il quale nel Discorso sul Metodo afferma che "invece di quella filosofia speculativa che s'insegnava nelle scuole, non si può trovare una prassi con la quale, conoscendo la forza e le azioni del fuoco, dell'aria, degli alberi, dei cieli e di tutti gli altri corpi che ci circondano, così distintamente come conosciamo i diversi mestieri dei nostri artigiani, noi potremmo impiegarli in tutti gli usi ai quali sono adatti, rendendoci così quasi padroni e possessori della natura?". Non è esagerato asserire che la teoria kantiana della conoscenza, la cui influenza fu e resta enorme nelle Università, ritiene che lo spirito umano è una facoltà produttrice e riconduce la conoscenza a un lavoro produttivo. Conoscere non è più, secondo la formula famosa, "diventare l'altro in quanto altro"; è agire su gli esseri e le cose per renderli intelligibili. Senza dubbio l'uomo non fa le sue sensazioni: le riceve dall'esterno, ma quel mondo esterno non è, parlando con proprietà, conosciuto; non è reale nel senso proprio del termine; non è altro che una materia in cui l'intelligenza umana imprime le sue forme. Grazie al suo lavoro intellettuale, che opera sui dati sensibili di cui è tributario, l'uomo può dunque trasformare il mondo esterno in modo da renderlo obbediente ai suoi desideri, ai suoi disegni; non si conosce più se non ciò che si fa. Il mondo è mondo quando è costruito. È trasformabile a piacere. Non ha più nulla di misterioso ne di sacro. Non è più. Diventa ciò che l'uomo vuol farlo diventare. Al mondo che il senso comune considera reale si sostituisce un mondo artificiale, costruito nel cervello dei filosofi, degli scienziati, dei giuristi, degli statisti, nei Parlamenti, nelle amministrazioni, nei thinking departments, nei laboratori, nei centri di programmazione, di perpetue riforme di struttura. Il punto d'arrivo di siffatta esaltazione della tecnica è la famosa undicesima tesi sul Feuerbach, che Marx formula lapidariamente: "Non basta più conoscere il mondo, si tratta di cambiarlo". Marx si offre così all'umanità come il pensatore per eccellenza della Tecnica.
Dal Rinascimento a Marx, e alla sua pullulante progenitura contemporanea, si constata che l'uomo moderno fa della tecnica l'unica sorta di pensiero che sia "valida" e che risponda così al voto dell'Enciclopedia, creata — come afferma D'Alembert nella prefazione a quell'opera — "per cambiare il modo di pensare comune". Questo è naturalmente teocentrico; risale spontaneamente dal reale a Dio. Il cristianesimo non ha fatto altro che confermare tale orientamento e gli ha aperto la via che sbocca nel soprannaturale. Al contrario, la Tecnica, emancipata dalla sua subordinazione alla morale ed alla metafisica, parte dall'uomo e ritorna all'uomo; l'utensile è una creazione dell'uomo, utile all'uomo. Indirizzare lo spirito umano sull'unica linea della Produzione significa dunque erigerlo a centro di tutte le cose, sostituire la religione naturale e il cristianesimo, imperniati sulla verticale della Trascendenza divina, con una nuova religione, prima sconosciuta: la religione dell'Uomo, stabilita sull'orizzontale delle sole relazioni sociologiche tra individui e individui, amputati dei loro fini, sottratti ad ogni realtà che non sia essi medesimi e costretti, dall'indirizzo che hanno preso, a divinizzare la nuova Umanità nata dalla loro attività collettiva.
Così la canalizzazione delle mentalità nel senso del padroneggiamento e della trasformazione tecnica della materia si è sempre accompagnata, in gradi vari, oggi estremi, a una crescente ostilità verso il cristianesimo nella sua forma tradizionale, cattolica e romana, custode vigilante del primato della contemplazione sull'azione. Là dove la tecnica trionfa, la religione cristiana deperisce e scompare, a vantaggio non dell'incredulità, ma di una fede millenaristica nel Progresso indefinito, nell'Evoluzione ineluttabile, nel Moto della Storia che trasforma l'uomo in dio e fa della "coscienza umana", secondo la profezia di Marx, "la più alta divinità".
Come potrebbe essere diversamente? L'uomo privato del suo fine, sradicato dalle sue basi ontologiche, non ha altra via d'uscita che procedere senza tregua verso la Terra Promessa il cui miraggio arretra a mano a mano ch'egli avanza. Non è stato abbastanza notato, infatti, che la sfera della Tecnica è la sola che sia suscettibile di progresso. Il fine supremo e reale dell'uomo non muta. Ne mutano la natura delle cose, la loro causa trascendente, le leggi che le governano. Ma la Tecnica può sempre modificarsi, migliorarsi, farsi più precisa, superare e surrogare le sue precedenti realizzazioni. Può aumentare il suo dominio sulla materia; può anche rimediare alle sue manchevolezze mediante meccanismi correttori. Il perfezionamento è il carattere proprio della Tecnica. L'immaginazione non si stanca di concepire i possibili suoi sviluppi.
Ma l'uomo, se è la causa del progresso tecnico, ne è anche il fine: riducendo tutte le sue attività alla sola Tecnica, egli non può non figurarsi di progredire alla sua volta nella lotta perpetua che conduce contro la materia per trasformarla. L'uomo, così supera sempre l'uomo. Si spoglia continuamente di ciò che fu, per diventare ciò che sarà. Secondo la formula di Marx, l'uomo è l'avvenire dell'uomo, o, in altri termini, l'uomo solo è il fine dell'uomo. Non v'è più una natura delle cose,. non leggi o causa suprema che ne garantiscono l'essere e la stabilità. Tutto è trascinato in una dialettica continua e riferito, nel suo ininterrotto cambiamento, all'uomo solo, creatore e ordinatore dell'universo.
Il sovvertimento radicale della gerarchia delle attività umane, che implica la religione dell'Uomo, doveva avere immense ripercussioni nell'ordinamento sociale. Se l'uomo è il fine dell'uomo, tutto ciò che oltrepassa l'uomo deve sparire, e anzitutto il bene comune, che abbiamo visto consistere nell'unione, nell'ordine, nella gerarchia.
Ma se non v'è più bene comune, non vi è più società, non vi sono che degli individui sparsi, liberi da ogni cosa, eguali in ogni cosa, giustapposti in una sordida fraternità che inalbera spudoratamente questo nome, poiché è fondata sulla dissociazione dei suoi membri.
La religione dell'Uomo si è insinuata capillarmente in molte teste pensanti ed ha conquistato la maggior parte delle élite dirigenti dell'Europa nel corso del secolo XVIII, sotto il nome di razionalismo. Ormai la ragione umana non tollera più nulla che la trascenda. Non detiene più la potenza della sua conformità al reale, ma impone le sue norme all'universo intero. Tutto ciò che essa concepisce si trasforma in una forza operante, che compenetra dei suoi imperativi il mondo degli esseri e delle cose. Non riceve più l'ordine dalla natura né da Dio, ma lo genera. È la potenza creatrice unica, omogenea, che si dispiega attraverso tutti gli aspetti della realtà, tanto che si ritrova presente dappertutto, a mano a mano che progredisce. L'uomo, dunque, non ha più davanti a sé nulla che sia da lui indipendente. Ognuna delle sue cognizioni è un prodotto del suo spirito conquistatore. La sua immagine si moltiplica e l'universo non è più che il suo riflesso. L'uomo ha dunque per unico oggetto l'uomo. Non c'è più nient'altro che l'uomo. Il detto del Pope: the proper study of mankind is man è la carta di tale ragione militante e trionfante, di cui la Rivoluzione francese farà una dea-madre e che collocherà sull'altare di Notre-Dame a Parigi. Il romanticismo e il laicismo, suo derivato scientista, ne moltiplicheranno la espansione nel corso del secolo XX. "Chi di noi, chi di noi — si chiederà Musset, ironico e angosciato,  sta per diventare un dio?". E nel 1889, nei festeggiamenti del centenario della Rivoluzione, un'attrice della Comédie Francaise canterà un inno di vittoria in gloria della Ragione umana: "Uomo, che, per il mio tramite, diventi dio". Il marxismo, dopo più d'un secolo che lava i cervelli, rappresenta l'espressione più coerente di tale religione dell'Uomo. Con lui si compie il mutamento radicale che essa opera negli spiriti: "la critica della religione mette capo alla dottrina che l'uomo è per l'uomo l'essere supremo". "La religione non è che il sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fintantoché non si muove intorno a sé stesso". Sono formule lapidarie di Marx.
Lo sbocco verso la religione dell'Uomo, aperto dalla Rivoluzione francese, non ha cessato di allargarsi dal 1789 in poi. "La Rivoluzione ricomincia — diceva già Tocqueville nel 1848 — ed è sempre la stessa". Infatti ciò che la Rivoluzione distrugge non è un dato tipo di società, ma la società stessa. Come l'ha veduto Maurras con la perspicacia del genio, non c'è più un Antico Regime, ma non c'è nemmeno un Nuovo Regime. Non c'è più società: la religione dell'Uomo, che la Rivoluzione ha diffuso e che oggi fa il giro del mondo, vieta che ve ne sia una. Se l'uomo è un assoluto, ciascun essere umano esiste indipendentemente da ogni condizione e da ogni rapporto con ciascun essere umano. L'assoluto non si spartisce. Ciascun essere umano non può dunque se non entrare in lotta con ciascun altro essere umano per il possesso di tale indivisibile onnipotenza. L'uomo si trasforma così in lupo verso l'uomo. Ciò che finora ci ha dissimulato l'ampiezza e la profondità di tale dissociazione, sono le riserve sociali accumulate dai secoli passati e che si vanno esaurendo. Il solo modo di raccogliere gli individui e di sottrarli all'intollerabile anarchia è quindi di impadronirsi della forma esteriore della società, che sussiste quando la sua sostanza è stata atomizzata, e il cui nome è lo Stato, dico lo Stato moderno, lo Stato senza società che lo sostenga e gli dia il suo significato umano, lo Stato che la sua vacuità totale trasforma in una corteccia totalitaria, che racchiude i cittadini e li obbliga, con costrizioni amministrative e con la sua potenza poliziesca, a vivere insieme, COLLETTIVAMENTE.
Ci troviamo allora in presenza di una dissocietà di tipo pluralistico, in cui diversi gruppi d'individui si costituiscono per conquistare il potere e si fanno reciproca concorrenza in nome dei diversi idoli che i loro membri adorano: il Diritto, la Libertà, il Linguaggio, il Progresso, la Dignità della Persona Umana, ecc.; oppure in presenza di una dissocietà di tipo monistico, di cui un Partito unico detiene le leve di comando in nome dei gran Feticci che si chiamano il Popolo, la Nazione, la Classe, la Razza. Nell'un caso come nell'altro gli individui non possono più venire raccolti se non in modo FITTIZIO, istigando in gradi più o meno intensi la loro IMMAGINAZIONE e, poiché i reali rapporti sociali sono stati rotti e il bene comune trascendente che li sosteneva è svanito, col tessere fra di loro relazioni ideologiche, che come tali non hanno altra sede che il loro pensiero, che non sono presenze reali, ma rappresentazioni mentali, e che non li fanno mai uscire dal proprio io in modo effettivo. Il collettivismo ideologico non è se non la somma dei narcisismi in cui ciascun Io adora sé stesso in una copia ingrandita del suo essere, in cui confonde con sé stesso tutti gli altri.
Il tratto di genio di Marx fu di ricavare da ciascun Io umano un gigantesco ingrandimento, nel quale tutti possano incontrarsi. Gli è bastato radicalizzare la sovversione delle attività umane intraprese dall'uomo moderno e di ricapitolare sotto l'unico nome di LAVORO tutte le tecniche della trasformazione della materia, nelle quali l'umanità manifesta la sua trascendenza e la sua divinità. "Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!". A cominciare da Marx, il lavoro diventa non solo la caratteristica specifica dell'uomo, sostituendo l'antica definizione di animale ragionevole; non solo l'unico mezzo di restaurare l'unità umana dileguata, ma lo strumento della conquista del potere politico che estendendosi all'intero pianeta innalzerà il Lavoratore a dominatore dell'universo, consapevole della sua potenza infinita: la totalità di ciò che è ha la sua causa prima, assoluta, unica, non più in Dio, ma nell'Uomo, che modifica il mondo mediante la Tecnica. Tutto ciò che era naturale e soprannaturale per lo sguardo dell'antico uomo è totalmente tecnicizzato dall'"uomo nuovo". Il lavoro elimina Dio e rende mitica ogni relazione tra l'uomo e Dio come causa e fine dell'esser suo. Il Lavoratore è il solo Dio che l'uomo possa riconoscere.
Ad un patto, tuttavia, il quale mostra sino a qual punto Marx resti tributario del soggettivismo proprio del pensiero moderno; ed è che il lavoratore non alieni altrui la sua potenza lavorativa e non dipenda da alcuno. La SOVVERSIONE che riduce tutte le attività umane al solo LAVORO e fa dell'uomo un Dio implica necessariamente la soppressione della proprietà privata e l'appropriazione dei mezzi di produzione da parte della collettività. In altri termini, la distruzione radicale della società reale implica il comunismo radicale. Bisogna dunque che la nazione e, al limite, l'umanità si trasformi in un'immensa officina di cui lo Stato comunista, in una ineluttabile espansione universale, non solo detiene le leve di comando, ma attraverso essa imbeve fino in fondo le coscienze individuali dei lavoratori per coordinarli nel suo apparato direttivo centrale. Per conseguire tale fine non vi è che un mezzo: far sì che gli individui, sempre tentati di disperdersi, si spoglino di sé medesimi e si perdano misticamente nella massa informe e malleabile costituita dalle loro rinunce.
La divinità si trasferisce così dall'Io alla Collettività e, come scrive Simone Weil, "il grosso animale diventa unico oggetto di idolatria, unico surrogato di Dio, unica imitazione di un oggetto che è infinitamente lontano da me e che è me". Bisogna che l'individuo rinunci a tutto ciò che ha ed a tutto ciò che è, per immergersi nell'apparente e nell'immaginario. Poiché il Collettivo non esiste che nel pensiero che ne assomma gli elementi: uno più uno, più uno, ecc., non esistono insieme se non nello spirito che li riunisce. Il Collettivo è l'oppio del popolo, la droga che priva l'essere umano della sua intelligenza e della sua volontà, che rovina in lui la sua natura e che gli è propinata, a dosi più o meno massicce secondo le circostanze e i bisogni, dai preti della religione dell'Uomo, quelli che Milo van Djilas chiama "la nuova classe dirigente", la classe di coloro che tirano i fili della marionetta umana, svuotata della sua sostanza vivente, imbottita di meccanismi e di riflessi.
Tale è "l'ordine nuovo" che si insedia progressivamente nel mondo a mano a mano che la Rivoluzione permanente lo martella. Esso è la peggiore violenza che venga fatta alla natura umana e agli uomini in carne ed ossa, col loro consenso entusiastico. Non solo essa oblitera o uccide nell'uomo la sua ragione, la sua volontà, il libero arbitrio che ne deriva, ma costringe coloro che la subiscono a farla subire agli altri. Una religione che violenta la natura dell'uomo non può infatti tollerare intorno a sé il minimo residuo della socievolezza che caratterizza l'essere umano, né le comunità naturali che questa genera, né la società più vasta che le articola e le corona, né la civiltà in cui i suoi membri sono immersi e che si trasmette, come la vita, di generazione in generazione: "Del passato, facciamo tabula rasa" — canta l'inno rivoluzionario.
Codesta religione, che non ammette alcuna trascendenza, alcun bene comune che possa unificare gli uomini indipendentemente dalla loro volontà, alcuna legge che si imponga al loro essere e alle loro attività, rendendoli così solidali tra di loro e riconciliandoli al livello di una realtà e di un medesimo fine, non può che dividere e diffondere intorno a sé lo spirito di divisione. Essa polverizza tutto ciò che si oppone alla sua espansione. La sua arma è la perfida promessa di liberare l'uomo da ogni "alienazione", da ogni relazione con altri, la quale è necessariamente gerarchica, poiché non può esservi alcun legame tra esseri che fossero perfettamente eguali.
Dal peccato originale in poi, l'uomo è fin troppo disposto ad aspettare quella ingannevole esperienza di giungere un giorno ad una radicale autonomia: "Eritis sicut dei", sarete come dei. Quale più grave violenza fatta alla natura umana, della costrizione a diventare ciò che essa non è e non può essere? L'essere dell'uomo si dissolve allora in un divenire senza fine, poiché la promessa di liberazione non verrà mai mantenuta. Divenire è trasformarsi, passare da una forma a un'altra, indefinitamente; è dunque non avere alcuna forma propria, non esser altro che una sorta di materia amorfa, plastica, malleabile, e, in tale stato di estrema debolezza, offrirsi m preda alle volontà di potenza di coloro che propongono di liberare l'uomo per meglio asservirlo. La società scomparsa cede il posto all'ergastolo, e le arterie che nutrono a catene che paralizzano.
La SOVVERSIONE della natura umana, alla quale assistiamo, mette capo così a dividere gli uomini in due gruppi: i deboli e i violenti; i primi votati a fiacchezza e pusillanimità ancora più gravi, i secondi costretti a una frenesia senza limiti. La dissocietà che essa partorisce non si compone — se così può dirsi — che di molli e duri, di manipolati e manipolatori.
La SOVVERSIONE e la violenza che l'accompagna non si sono affatto limitate a capovolgere la gerarchia delle attività propriamente umane e ad operare nell'uomo un vero rifacimento della sua mentalità e della sua natura sociale. L'immensa MUTAZIONE in corso (come si dice oggi senza conoscere il senso del termine e senza sapere che implica quasi sempre una degenerazione) ha investito l'istituto più solido che il mondo abbia mai conosciuto: la Chiesa cattolica. Il tema che qui tocchiamo è immenso e noi non possiamo enuclearne se non la grande linea, visibile del resto a occhio nudo: il nuovo cristianesimo che spunta nella Chiesa, in sinu ac gremio Ecclesiae, come dice San Pio X, consiste precisamente nel sacrificare la contemplazione delle verità rivelate, e le virtù teologali che indirizzano il fedele verso il suo fine soprannaturale, alla sola prassi, alla sola efficacia, ai soli mezzi umani di salvare gli uomini. È ciò che si chiama il processo di secolarizzazione della Chiesa, il suo aggiornamento, il suo adattamento alle esigenze "imprescrittibili" del mondo moderno, altrimenti detto "la Pastorale". L'uomo non è più misurato, e i suoi desideri, le sue aspirazioni, le sue rivendicazioni, le sue pretese diventano la misura di tutte le cose e di Dio medesimo, costretto ad adattarsi nel culto alla comprensione dell'uomo moderno ed alla sua soggettività, ritenuta inviolabile e sacra. Onde il rovesciamento totale dell'ordine: la teologia diventa antropocentrismo; la trascendenza di Dio obbedisce agli imperativi dell'immanenza; la catechesi non si sottomette più al dogma, ma alle prescrizioni della coscienza autonoma, se non agli impulsi dell'inconscio e del sesso; la liturgia obbedisce a tutti i capricci della moda; l'autorità si muta in opportunismo e si inchina davanti all'opinione manovrata dai gruppi di pressione; il soprannaturale si naturalizza e, non potendo farlo senza distruggersi ne distruggere la natura stessa, l'ordine soprannaturale e l'ordine naturale, di cui la Chiesa ha ricevuto l'onere e di cui essa è la custode, vengono eliminati a vantaggio di una tecnica della redenzione dell'umanità che ambisce di costruire il Regno di Dio in terra in virtù della sola parola umana; la fede diventa ideologia politica; il prossimo cede il posto al lontano; l'uomo di Dio abdica al suo potere "magico" e si trasforma in un uomo come gli altri, in uomo moderno, che come tale non riconosce nulla che lo superi, e lascia libero corso alla sua volontà di potenza. La SOVVERSIONE si insedia nella Chiesa e ne utilizza l'ascendente per distruggerla, per far violenza alle anime e per instaurare, con un tartufismo consapevole o inconsapevole, un cesarismo clericale che, penetrando fino alla sorgente stessa dell'essere umano, si sostituisce alla volontà di Dio; haec est voluntas mea sanctificatio vestra.
La collusione del nuovo cristianesimo e di tutte le forme della violenza rivoluzionaria, dalla contestazione del poppante fino alle diverse varietà del comunismo, era fatale. Non poteva non effettuarsi. Affrontiamo qui il mistero stesso della nostra epoca e cominceremo a comprendere perché la virtù cardinale della fortezza esaltata dal cristianesimo, e gli atti politici che ne derivano, vadano scomparendo, e perché la mistica della violenza la sostituisca. Gli è che in verità non v'è collusione fra due correnti disparate: il nuovo cristianesimo e la Rivoluzione sono identici. La loro unica differenza sta in ciò, che la Rivoluzione, con tutti i suoi antecedenti e le sue conseguenze, si è sviluppata all'infuori della Chiesa cattolica ed ha conquistato oggigiorno i centri intellettuali e motori della religione cristiana col pretesto di un ritorno al Vangelo. In altri termini, la Rivoluzione e il nuovo cristianesimo sono una sola e medesima eresia cristiana, e siamo entrati nella più spietata delle guerre di religione: quella che contrappone la fede in Dio e la fede nell'Uomo, la seconda esercitando sulla prima la più inumana di tutte le violenze e tentando di annientare nell'uomo stesso, se fosse possibile, la natura e la grazia.
Se noi ci atteniamo fermamente, con la virtù della fortezza ( e col dono della forza che la sorregge ) a questa EVIDENZA, che il Vangelo, SENZA la Chiesa, custode della fede e del costume, SENZA la Tradizione che le conserva intatte in lei, SENZA "la metafisica naturale dello spirito umano" fondata sul senso comune universale, che i Greci hanno trasmessa a tutti gli uomini d'ogni luogo e d'ogni tempo e di cui il pensiero cristiano si è servito per insegnare all'umanità il messaggio della salvazione per mezzo di Cristo, universale anch'esso ma ad un livello infinitamente superiore, non può più avere per interprete se non la ragione dell'uomo, e si trova quindi condizionato da questa, ALLORA, ma ALLORA soltanto, comprenderemo che esso deve fatalmente degenerare in religione dell'Uomo con tutta la SOVVERSIONE che questa implica. Senza la Chiesa, senza la Tradizione, senza la filosofia del senso comune, il Vangelo si trasforma in agente rivoluzionario negatore di tutte le realtà sovrannaturali e naturali: l'uomo si trova superiore a Dio e se ne appropria gli attributi; Gesù diventa esclusivamente il modello della coscienza umana, misura di tutte le cose; il prete che lo imita si colloca al disopra del diritto ecclesiastico, del diritto civile, della morale stessa, "di là dal bene e dal male", e si ritiene investito del potere di distruggere un mondo che resiste alle esigenze dell'Uomo divinizzato e di ricostruirne da cima a fondo un altro che vi si adegui. Nulla di tutto ciò può compiersi se non mediante la guerra e una tecnica della violenza sovversiva che nessuna legge divina e umana reprime e di cui la "teologia della Rivoluzione" fa l'apologia. Non v'è più un bene comune che a sé subordini la persona umana scatenata. Non c'è più società: essa esplode.
Lungi dal seguire la SOVVERSIONE nelle sue fasi più acute, il Vangelo rivoluzionano la precede. Non può, del resto, non esserne l'unica sorgente. Fra tutte le religioni del mondo, il cristianesimo è la sola ad insegnare che Dio si è fatto Uomo affinché l'uomo sia fatto Dio, sotto la precisa condizione che l'uomo abdichi il suo Io, senza perciò rinunciare alla sua essenza d'uomo: "Sia fatta la Vostra Volontà e non la mia". Ma la grazia, ben lungi dall'abolire la natura, la innalza. Il Santo non è mai più uomo che nel momento in cui la sua intelligenza e la sua volontà si svuotano di ogni cosa creata per non aver più altro oggetto che Dio stesso. Certo, l'Io non è totalmente eliminato se non negli stati mistici superiori. Basta tuttavia, per la salvezza dell'uomo, che il suo Io si sottometta ai comandamenti di Dio e della Chiesa in maniera costante, nonostante le sue cadute e i suoi traviamenti, e che osservi i suoi doveri là dove realmente si trova.
Ora l'Io dell'uomo, piuttosto che spegnersi od obbedire, non ha più, dal Vangelo in poi, che un solo travestimento possibile: la maschera di Dio, la parodia della Conoscenza divina e dell'Amore divino. L'Io, in faccia a Dio, non può ormai se non diventare Dio, sia espropriandosi ( "voi non appartenete a voi stessi" — ci dice l'Apostolo), sia appropriandosi Dio. Vi sono migliaia di modi, consapevoli o, a lungo andare, inconsapevoli, di attribuirsi Dio e di utilizzarlo così, apertamente o segretamente, a proprio vantaggio; ma tali metamorfosi infinite dell'Io si riducono tuttavia a contraffarlo. Non resta all'uomo, dal cristianesimo in qua, che l'ARTIFICIO, la TECNICA mediante la quale egli ricrea il mondo, ricostruisce la società, plasma "l'uomo nuovo", opera una nuova "redenzione", "libera" di nuovo l'uomo e lo salva. Tutte le deviazioni, gli errori, i tentativi di SOVVERSIONE intellettuale, morale e sociale che sono apparsi da Cristo fino ai giorni nostri sono eresie cristiane. È inscrutabile la profondità del detto di Chesterton: "II mondo è in balia d'idee cristiane impazzite". Oggi è la loro pazzia furiosa ciò di cui esso è vittima, perché i cristiani, privati della virtù della fortezza, incapaci di compiere gli atti di forza che l'accompagnano, non impongono più agli illuminati del cristianesimo quella camicia di forza che meriterebbero: resistono sempre meno alla pazzia universale, si rifiutano di vincerla.
La violenza marxista rivoluzionaria e la violenta "evangelica" rivoluzionaria hanno la stessa origine: il rifiuto di Dio e della divinizzazione dell'Uomo, o, che fa lo stesso, l'utilizzazione di Dio — o piuttosto dell'idea di Dio svuotata del suo contenuto — allo scopo di esaltare l'Uomo. Esse consacrano per così dire la Tecnica e la portano al suo più alto esponente, Runa erigendo la Tecnica a potenza di trasformazione sovversiva che regge l'universo, l'altra servendosi delle energie religiose accumulate negli animi e private del loro fine soprannaturale per mettere a soqquadro la società. La prima riposa sul principio mirabilmente additato da Dostoievski ne "Gli Ossessi": "Senza Dio, tutto è permesso"; la seconda su un principio rigorosamente e paradossalmente simile e che bisogna denunciare con estrema energia: "Con Dio, tutto è permesso". È quello che i teologi del neo-cristianesimo chiamano "i carismi dello Spirito Santo".
Nell'aprirsi il varco nella dissocietà contemporanea senza incontrare alcun ostacolo, tale duplice ed unica violenza mira ad un solo e medesimo scopo: impadronirsi dello Stato, Potere dei poteri e Tecnica delle tecniche, in modo da instaurare il suo impero sui poveri esseri umani che essa affascina. Il prete intellettualmente e moralmente depravato fa ormai tutt'uno col commissario del popolo, che reciprocamente in lui si ritrova. Per l'uno come per l'altro, che hanno rinnegato le realtà trascendenti, tutti i mezzi sono buoni e il più colossale di tutti i mezzi, lo Stato moderno socialista o socializzante, per definizione il migliore di tutti. La Tecnica, vittoriosa sulla contemplazione e sull'azione morale, esegue ormai sotto il loro comando il suo ultimo compito: costruire nuove strutture che includeranno l'uomo nell'assoluta sicurezza sociale del "formicaio perfetto e definitivo".

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Tale è il fine verso il quale ci trascina la violenza rivoluzionaria della Storia moderna abbandonata all'onnipotenza della Tecnica in tutti i campi della vita dell'uomo, compresa la sua vita religiosa, SE non le opponiamo la fortezza con tutto ciò che essa presuppone e tutti gli atti che da essa procedono.
Dobbiamo convenire che l'ampiezza del compito è immensa e che la fortezza è oggi la virtù per eccellenza, senza la quale il ritorno alla salute intellettuale, estetica, morale, sociale e religiosa dell'uomo è impossibile.
L'uomo moderno è alla rovescia. Si tratta di rimetterlo diritto. L'uomo moderno si abbandona all'eccesso della violenza: come rintuzzarla, vincerla, ricondurla alla misura senza ricorrere alla forza, che si definisce precisamente per il suo potere di resistere al timore della morte e del peggiore timore che esista, quello della morte dell'umano nell'uomo, e per il suo potere di attaccare con audacia ciò che non può venire abbattuto se non dall'audacia. San Tommaso pensava che la resistenza caratterizza la fortezza più dell'attacco. Ma quando la SOVVERSIONE radicale di tutti i valori mette in pericolo l'essenza stessa dell'uomo, non basta più resisterle e sopportarla; bisogna anche prevalere su di essa, vincerla, abbatterla. È dunque una virtù di fortezza, per così dire raddoppiata, quella a cui dobbiamo appellarci. E non è tutto.
La fortezza non si separa, come abbiamo detto, dalle altre virtù cardinali che con essa sono connesse. Non può crescere senza che le sue sorelle crescano alla loro volta, e tale quartetto, incaricato di instaurare l'ordine nella natura dell'uomo, non può assolvere il suo compito se la natura umana, come afferma tutta la filosofia moderna da Cartesio e da Kant in poi, è disgiunta dall'ordine universale. Noi abbiamo acquistato, per una specie di riflesso mentale condizionato, la nefasta abitudine di opporre il determinismo della natura alla libertà dell'uomo. In realtà, se l'uomo è libero nelle sue scelte, non è libero rispetto al fine ultimo della sua vita: la sua intelligenza gliene rivela il carattere obbligatorio e l'impone alla sua volontà. Non c'è morale senza una concezione della natura umana e non c'è concezione della natura umana senza riferimento all'essere e al Principio dell'essere. Non c'è morale senza metafisica. Un'attività morale che non si appoggi all'attività contemplativa dello spirito è votata a tutti i traviamenti. In altri termini, il vero bene implica la conoscenza preliminare del vero e pertanto la rispondenza del pensiero alla realtà e alla sua Sorgente trascendente. Per quanto la parola faccia orrore ai nostri contemporanei, ipnotizzati dal suo surrogato, l'ideologia, non v'è morale senza dottrina morale, e non v'è dottrina morale senza una dottrina filosofica REALISTICA che la regga.
La ragione di ciò è semplice, abbagliante, solare, e si può vedere a qual punto di depressione l'attività tecnica abbia ridotto le nostre facoltà superiori privandole dei loro oggetti reali: nessun fine, e quindi nessun mezzo che gli sia adeguato, può essere perseguito dalla volontà dell'uomo, se non le è prima presentato dal suo intelletto. Nihil volitum nisi praecognitum: nulla è voluto, se non è prima conosciuto. La restaurazione dei costumi e la rimessa in pratica della morale, capace di finalizzare l'attività tecnica traviata, non possono operare senza la sanatio in radice, senza la guarigione integrale dell'intelletto scardinato dal soggettivismo e dalla Tecnica.
Imparare a ben pensare, a non ammettere come vero se non ciò che è, rinunciare alle apparenze che c'incantano perché generate dalla nostra immaginazione e perché in esse ritroviamo la nostra immagine; tendere così verso il vero bene che finalizzerà le nostre attività, comprese quelle della tecnica in tutti i campi, e che le regolerà, ecco una cosa che non sarà fatta in un giorno, ne in un decennio e certo nemmeno in un secolo; ecco una cosa che esige una continuità nella fortezza di generazione in generazione.
Ci sarebbe da disperare, se la natura non avesse posto accanto al male il rimedio: natura malorum remedia demonstrat. Vi sono pure luoghi, non dico protetti, essendo la rivoluzione universale, ma che sono punti di partenza per un rinnovamento, perché la Tecnica che tutto distrugge, una volta abbandonata a sé stessa, non può distruggerli senza distruggere anche sé stessa: sono le comunità naturali e semi-naturali basilari, dove le realtà della vita quotidiana resistono nonostante tutto alla violenza rivoluzionaria che vuole abbatterle per sostituirvi le costruzioni dello spirito umano autonomo.
Senza dubbio "le condizioni di una vita familiare e professionale normale scompaiono sempre più, tendendo, al limite, a fare di questa vita un inferno", come scrive Louis Salleron; ma il giorno in cui non vi sarà più famiglia né azienda, l'umanità avrà terminato il suo corso: sarà "la fine della Storia". Per quanto dure siano oggi le loro condizioni di esistenza, i loro membri si trovano posti di fronte a realtà che non possono non imporsi ad essi e diventare per essi un bene comune superiore alla loro follia distruttrice e ricostruttrice. Le negano essi in pratica a tal punto che il loro rifiuto elimini ogni accettazione da parte loro, e che la disunione annienti l'unione? Essi si trovano in balia della rivoluzione permanente, che demolisce la realtà senza mai poterla ricostruire se non in sogno.
Se la violenza non ha ancora trionfato totalmente nel mondo, lo dobbiamo appunto a tali realtà invincibili della vita familiare e professionale. Ecco perché dobbiamo difenderle con forza e vincere con la forza morale e fisica la sovversione che tenta instancabilmente di disgregarle. Chiunque le mina deve essere denunciato, le sue iniziative bloccate. Bisogna essere pazzo, dico pazzo e pazzo da legare, per credere un momento solo, per esempio, che la descrizione del frutto proibito possa incitare i fanciulli e gli adolescenti a non coglierlo. Del pari il padrone, l'ingegnere, l'impiegato, l'operaio che seminano la lotta di classe nell'azienda devono essere ritenuti criminali, ossia, secondo il vocabolario, "rei di una grave infrazione contro la morale".
Si potrebbero citare altri esempi innumerevoli di violenze rivoluzionarie e di tecniche terroristiche, sottili o grossolane, accuratamente disposte dagli specialisti del disordine, insegnate in scuole o aspirate a grandi boccate dai nostri contemporanei nella sterminata "letteratura" e nei mass-media che battono in breccia la natura umana e indeboliscono di continuo la sua resistenza. È inutile allungarne l'elenco. In mille modi, l'Office International si applica del resto a farlo, ad avvertircene ed a proporci i rimedi adeguati.
Nelle comunità della vita familiare e professionale noi ci troviamo su un terreno dove non possiamo esser vinti se non quando l'abbandoniamo al nemico: quello del DOVERE, che fa quotidianamente tutt'uno con l'esser nostro, con la nostra natura d'uomo, espandendola se osservato, inaridendola invece se infranto. Il dovere non soffre alcuna delega di potere ne, come dice il suo stesso nome alcuna diminuzione, alcuna scappatoia da parte nostra. È fisso, immobile, impassibile. Nessuno può sostituirsi a nessuno in quelle piccole società ove il posto di ciascuno è determinato dalla sua vocazione, dalla risposta che egli fa a un appello che lo trascende e tuttavia lo costituisce, da inclinazioni il cui slancio proviene dalla natura e del quale il letto indirizzo nasce dalla retta volontà. Il dovere non tollera neppure mancamenti reiterati da parte di colui che lo assume. Accade perfino, secondo il Favolista, che "una maglia rotta porti via tutto il tessuto". In tali comunità, l’interesse di ognuno coincide del resto col suo dovere; l'egoismo si trova corretto dall'irrecusabile presenza e dal controllo diretto degli altri membri, e le obbligazioni, in apparenza severe, del bene comune da salvaguardare non implicano per nessuno alcuna rigidità stoica, alcun eroismo, anzi piuttosto la gioia: non v'è maggior soddisfazione per un uomo che aver riempito la sua giornata o veder crescere nei suoi figli dei veri uomini, delle vere donne. L'esercizio della fortezza nel compimento del dovere si accompagna sempre alla contentezza.
Non ci stanchiamo di ripeterlo. La spontaneità, la naturalezza inseparabili dal semplice dovere non sono più, oggi, cosa ovvia. La SOVVERSIONE si è insinuata nelle molle più recondite della natura umana per allentarle e impiantarvi l'aggiunta dei suoi artifizi. Il "planning familiare"! Questa locuzione sinistra è abbastanza eloquente in proposito, senza parlare dei libri, opuscoli, conferenze e colloqui, dovuti talvolta a preti che non avremmo creduti tanto competenti in materia, sui mille modi di stabilire e conservare "l'armonia sessuale" fra congiunti. La co-gestione! Quest'ultimo sforzo per introdurre la lotta di classe al vertice delle aziende e per dividere autorità indivisibili, è anch'essa abbastanza eloquente. La Tecnica della SOVVERSIONE e della manipolazione dell'uomo, munita di tutti i processi della tecnica trasferiti dalla materia in seno all'anima — che si chiama oggi "lo psichismo" — non può più esser respinta né vinta sperando che la natura degli esseri e delle cose, oltraggiata, reagirà e farà tutto il lavoro necessario.
Bisogna ricominciare dall'A.B.C. e insegnare ai padri, alle madri e ai familiari i principi elementari della morale familiare. Bisogna insegnare ai produttori, in tutti i gradi dell'azienda, i rudimenti della morale economica: non si produce per produrre; i salari, gli stipendi, i profitti sono il compenso e la ricompensa dei servigi resi ai consumatori; i consumatori sono esseri umani; sono i soli esseri capaci di equilibrare materialmente E moralmente la produzione e il consumo; l'economia di mercato regolata da un codice è la sola che possa finalizzare l'afflusso delle tecniche di produzione e neutralizzarne i parassiti; il socialismo "con volto umano" è un inganno e una impostura; la proprietà collettiva dei mezzi di produzione è il travestimento di una "nuova classe dirigente" al cui paragone il più oppressivo dei capitalismi appare come un liberatore; il comunismo, checché ne dicano certi vescovi scervellati e avidi di dominio, è intrinsecamente perverso, eccetera...
Uno si vergogna di enumerare queste verità evidenti, di sfondare queste porte aperte. In fatto di salute fisica, il buon medico non sforza mai il corso delle cose: aspetta, come scriveva l'illustre Trousseau nel suo Trattato di Terapeutica, "i primi sussulti della natura medicatrice" per aiutarli e trasformare i loro vaghi tentativi in una netta finalità. Lo stesso quando si tratta dell'uomo intero, corpo ed anima. Secondo la sentenza insigne del Bonald, "l'uomo è un essere ammaestrato". Se i costumi tradizionali, che sono veicolo di tale ammaestramento a sua insaputa, falliscono e se i primi indizi della guarigione tardano troppo, bisogna ravvivarli facendo appello ai primi principi della ragione speculativa e della ragione pratica, come pure ai loro corollari immediati, alle "leggi non scritte" ma impresse nella mente dell'uomo, le quali dirigono tutte le sue attività fintantoché egli è un essere intelligente.
In breve, agli umili gesti della vita quotidiana in cui brilla ancora qualche scintilla della natura umana bisogna aggiungere il soffio della verità colta alla sua sorgente: nel diritto naturale e cristiano. Al cammino su questa terra occorre accompagnare lo sguardo fisso sulla stella.
Così, tenendo saldamente i due capi della catena, potremo percorrere gli anelli intermedi e ricollocare l'attività tecnica dell'uomo nei suoi limiti giusti e fecondi. All'emancipazione illimitata dell'uomo mediante una Tecnica trasformatrice del mondo, che la sua privazione delle luci sovrane del Vero e del Bene deforma in violenza rivoluzionaria, alla SOVVERSIONE della natura umana che ne consegue, non v'è altra risposta se non questo paziente e attivo rifacimento dell'animale ragionevole e dell'animale sociale in noi mediante la fortezza e gli atti esteriori che le fanno da scorta.
La mentalità moderna è dominata e ottenebrata dalla tirannica nozione dell'efficacia tecnica, apparsa nel Rinascimento e la cui ultima incarnazione è la violenza rivoluzionaria. "Farsi intendere non vuoi dire attirare la simpatia" — scrive un tale Pierre Trotignon, filosofo e riflesso di un mezzo millennio di storia del pensiero; — "è spargere il terrore. La filosofia di domani sarà terrorista: non filosofia del terrorismo, ma filosofia terrorista, legata a una prassi politica terrorista... L'arma della nostra salvezza si tempra altrove, nel Sin-Kiang".
I teologi della Rivoluzione e della non-violenza violenta o della violenza non-violenta — sul genere dell'abate Comblin, loro corifeo nell'America del Sud — si mettono al passo con lui, imbellettati per giunta d'ipocrisia clericale: "La violenza del sangue di San Camillo Torres?" Come Lady Macbeth, essi contemplano le proprie mani, armate della penna che uccide: "Un po' di teologia ci laverà di questo sangue; niente di più facile".
A tale violenza rivoluzionaria, che zampilla dall'uomo trasformato in bestia e in dio ad un tempo, noi opponiamo la virtù della fortezza, la forza di carattere, la forza della Verità, la forza del Bene, tutte le forme della Forza protettrice della natura umana e del vero Ordine, che la civiltà non ha più da scoprire, dopo il cristianesimo, e, se Dio ci fa questa grazia, il dono soprannaturale della forza che ci lega incrollabilmente alla fede in Gesù Cristo, a dispetto degli assalti dei persecutori di fuori e di dentro.

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