L'indispensabile ruolo del cattolicesimo verso lo Stato e la società
Fonte: Totus Tuus
Venerabile prof. GIUSEPPE TONIOLO
Problemi ed ammaestramenti sociali dell'età costantiniana
Venerabile prof. GIUSEPPE TONIOLO
Docente di Economia Politica all’Università di Pisa
Edizione del «Comitato Opera Omnia di G. Toniolo»; Città del Vaticano
1947; Serie I: Scritti storici; Volume I (intonso); pp. 1-102, con piccoli
aggiornamenti lessicali e semantici a cura della redazione di totustuus.net.
Problemi ed ammaestramenti sociali dell'età costantiniana
L'enunciazione del tema «Problemi ed
ammaestramenti sociali dell'età costantiniana» definisce già di per sé stessa,
giusta i canoni più elementari del metodo scientifico e a schermo di ogni
presunzione, l'oggetto ed i limiti di questa trattazione. (1)
Essa pertanto non si propone di penetrare i
misteriosi e sublimi domini della teologia, per additare nel periodo
costantiniano il trionfo del sovrannaturale cristiano sul paganesimo, né tenta
le altezze della filosofia della storia per dimostrare le ragioni prime ed
ultime degli stessi umani avvenimenti (ciò che è lasciato ad altri), bensì si
prefigge un quesito assai più modesto.
Ed è quello di delineare in qual modo e misura
i fatti storici, indubbiamente eccezionali e solenni, che si aggirano intorno
al nome e alla età di Costantino, abbiano dispiegato la propria azione sul
progresso umano sociale. Siamo dunque in tema di «sociologia» che io non esito
di definire: «la scienza positiva (non positivistica) della società nella sua costituzione
e nella sua vita, o dottrina generale che sul piedistallo dei fatti sociali
ricerca le cause e le leggi normali dell'incivilimento».
Assunto in tal senso, questo tema, comunque subordinato ad altre
ricerche superiori, pure si rialza e complica alla sua volta, per la natura
complessa di questa scienza che è analitica nei suoi elementi compositivi ed
eminentemente sintetica nelle sue induzioni, sì da imporre a chi si propone
toccarne qualche problema in questa breve monografia, il compito di tracciare
appena alcune linee prospettiche, bastevoli a suggerire taluni ammaestramenti
di attuale applicazione.
Dal
Gibbon al Gregorovius e al Grisar, per oltre un secolo fino ai dì nostri, ben
pochi argomenti esercitarono gli ingegni e preoccuparono gli animi degli
studiosi quanto quello della «decadenza dell'impero romano» atte stando con
ciò, quali che fossero gli intendimenti dei singoli autori e i risultati di
tali indagini (raramente invero spregiudicate e obbiettive), la grandezza
eccezionale di quell'avvenimento nella storia. (2) Si sfasciarono altri
imperi e regni nella loro possanza resistita per secoli e millenni, come quelli
di Egitto, o dei babilonesi, assiri, e persiani succedutisi nella Mesopotamia,
caddero e si esaurirono, nei loro splendori antichissimi, culture come quelle
dell'India e della Cina pur cotanto oggi illustrate dagli orientalisti, senza
che quelli e queste lasciassero traccia alcuna di memoria e ammirazione nella
coscienza dei posteri fuor che in pochi filosofi ed eruditi, mentre le sorti di
Roma antica rimasero per quasi duemila anni fino ad oggi ad alimentare il
pensiero, le sollecitudini, le speranze, le delusioni e i dolori delle
generazioni, così nelle vaghe ma indelebili reminiscenze popolari, come nel
fervore degli studiosi. Quale mai la ragione misteriosa dell'importanza
straordinaria e quasi esclusiva, tradizionalmente annessa al disparire
dell'impero romano? Senza dubbio essa deriva dalla compenetrazione del fatto
col tramonto del paganesimo e coll'albeggiare simultaneo del cristianesimo,
vale a dire di due religioni le cui vicende segnarono la linea divisoria e
posero il segnacolo centrale fra due cammini dell'incivilimento, di cui l'uno
era preparazione e l'altro compimento nella storia dell'umanità.
Bensì è riconosciuto che questo dramma meraviglioso delle ascensioni
cristiane sul declino pagano, il quale poi si risolse in quella lotta
irreconciliabile e definitiva che S. Agostino intitolò fra «la città di Dio e
quella del mondo», si dispiegò entro i confini dello stesso dominio romano con
due cicli storici speciali, ciascuno contrassegnato da procedimenti lor
propri; due cicli i quali, sebbene riusciti pur tardi nelle ricerche
storiche e socio logiche a fondersi insieme, richiedevano tuttavia di essere
approfonditi con eguale intensità di studi, affine di meglio estimare il valore
dei rispettivi servizi nella comune cospirazione al risultato finale, quale si
rivelò nei disegni divini: di ridare cioè in Roma una novella e più sublime
unità di quella delle aquile e delle leggi dell'antico impero alla civiltà
futura, per sua norma, saldezza e guida. Invece risulta che, se la innovazione
religiosa e civile avveratasi nell'occidente romano attrasse l'operosità sagace
e ininterrotta di molti storici e scienziati, non altrettanto seguì per le
regioni orientali; sicché fin dall'Istituto degli orientalisti di Francia s'era
sentita la convenienza di promuovere una serie d'indagini sulla decadenza
dell'impero bizantino, le quali pare non avessero successo completo. Ora la ricorrenza
odierna del centenario costantiniano promette di colmare questa lacuna, con
grande profitto della storia e degli studi sociali insieme.
Sarà
questa una nuova ragione di tesoreggiare fruttuosamente tale commemorazione di
Costantino, ad una condizione, a nostro avviso, la quale potrà aversi come uno
dei criteri metodici raccomandabili in argomento; che si consideri cioè non
tanto soggettivamente la persona e l'opera immediata di Costantino quanto l’età
costantiniana nei suoi coefficienti e nei suoi effetti sociali; la quale
età potrebbe forse utilmente farsi partire da Diocleziano, iniziatore di quel
riordinamento dell'impero che Costantino in parte compì e in parte trasformò, e
protrarsi attraverso Teodosio I, Teodosio II e Giustiniano fino agli ultimi
legislatori bizantini, Basilio e Leone il Saggio, abbracciando così un corso di
tempo, dalla fine del secolo III a quella del secolo IX dell'era cristiana. Più
in là scompare l'ultimo e inonorato riflesso della società costantiniana. (3)
Manifestamente Costantino, anche fra disparati giudizi intorno a talune
sue doti personali o a singole azioni non sempre coerenti o lodevoli della sua
vita, apparisce, dinanzi alla critica obiettiva, uno strumento in mano della
Provvidenza. Egli, invero, ispirato dalla divinità (è l’espressione che volle
scolpita sull'arco trionfale di Roma: instinctu divinitatis) ad
accettare la Croce redentrice del genere umano, inaugurò in virtù di essa e per
mezzo dell'impero di Roma, il rinnovamento sociale dell'antica civiltà. E ciò
con tre fatti ben noti che basta qui ricordare, salvo poi di estimarne il
valore e le conseguenze: - riconobbe la esistenza giuridica e la libertà della
Chiesa cristiana-cattolica; - trasferì la sede dell'impero a Bisanzio come
campo di sperimento più adatto alle prime e più essenziali innovazioni e
correzioni dell'ordine politico, sociale, economico; - dischiuse le intime
latebre della società e le alte sfere del pubblico reggimento all'alito
vivificante di una scienza cristiana risanatrice del costume e del giure. Nulla
più ma bastevoli provvedimenti, i quali, comunque procedessero per via mediata
di autorità dal vertice dello Stato, tuttavia, congiungendosi con altre energie
vergini risalenti dalle viscere delle popolazioni sotto l'azione
immediata della fede e della Chiesa, avrebbero trasfuso e perpetuato sub
specie aeternitatis i germi di quella vita immortale che ancora sostenta e
feconda l'incivilimento, che ben è detto dai moderni sociologi, fra tanti
contrasti e negazioni, pur sempre «cristiano». (4)
Veggasi partitamente con poche e rapide proposizioni, con cui mi
sembrano consuonare gli argomenti di una sociologia, che tesoreggia le
inestimabili indagini della storia politica non solo, ma di quella sociale-morale
dei popoli e così del diritto privato e pubblico, della economia e della
psicologia sociale, in rapporto alla storia comparata delle religioni, giusta
più recenti e sani indirizzi.
I.
1.
Dissi che per Costantino s'inaugurava un rinnovamento sociale-civile che
procedeva mediatamente per opera e concorso dello Stato.
Il fatto caratteristico che ogni altro adombra
e comprende nella vita delle stirpi e delle nazioni stesse più civili
dell'antichità pagana è il panteismo di Stato, che è figlio alla sua
volta di un altro panteismo che lo precede e accompagna: quello religioso. (5)
Come il panteismo religioso immedesima Dio
creatore coll'universo creato, e più particolarmente il sovrannaturale divino
con la natura umana, sia nelle grandi religioni storiche pseudo-monoteistiche
dell'oriente asiatico sia nei culti politeistici di Grecia e Roma, così, con
inscindibile correlazione logica e positiva, si incontra in tutto il paganesimo
lo Stato tendere, per vie diverse ma inesorabilmente, a stringere e confondere
nei suoi poteri giuridicocoattivi anche l'autorità religiosa e poi ad
assorbire, nell'unità del suo organismo politico e nella sua azione
onnipotente, tutto intero l'uomo ed ogni derivazione e manifestazione
della vita sociale.
2. Le
forme sotto cui si presenta la fisonomia bifronte dell'antico panteismo
politico, possono variare negli accidenti e nel grado d'intensità, non già
cancellarsi. Dal «figlio del cielo», come si nomava da parecchi millenni fino a
pochi mesi or sono l'imperatore della Cina, che la pienezza di sua autorità
derivava dal fatto di essere «l'unico sacrificatore» in nome dell'antichissimo
e immenso suo popolo, alle caste religiose braminiche che attraggono oggi
ancora, come in passato nel proprio circolo chiuso, i principi o raja
dell'India, e alle possenti classi sacerdotali che circondavano e perpetuarono
nella propria immobilità le ventidue dinastie dei faraoni, sempre si riproduce
questo spettacolo nelle sedi di que' grandi culti dell'oriente, che la
religione a vario grado si immedesima con la politica; o perché ambedue si
identificano nella persona del reggitore dello Stato, o perché lo Stato
totalmente si sommette alla suprema autorità delle classi ieratiche, o più
spesso perché lo Stato assoggetta e fa servire ai propri fini politici
sacerdozio e vita religiosa.
Né
diversamente nei culti e negli organismi minuti e frazionati dell'occidente.
Sia presso i regoli guerrieri del poema omerico sbarcati nella Troade contro
Ilio, o sia nelle incipienti repubbliche civiche poi confederate nella grande
Grecia, sempre i lari e penati dei culti domestici e i custodi del Pritaneo e
gli dei tutelari delle leghe anfizioniche e Apollo negli oracoli del tempio di
Delfo, intervengono nei fasti degli Stati ellenici, attestando tutti questa
medesimezza della vita politica con quella della religione, anche nelle
popolazioni spigliate, mobili ed espansive dell'età classica. (6)
In
nessun altro Stato dell'antichità classica questa identificazione o
assimilazione dell'elemento religioso con quello politico assume un atteggiamento
così scolpito e segue vicende così continuate quanto in Roma, sino a porger
l'esempio più grandioso che la storia ricordi della formazione di una religione
nazionale a servizio della missione storica del popolo romano. E ciò nel
triplice periodo - del patriziato originario immedesimato col culto domestico
sotto i re, alla lor volta investiti di autorità religiosa, - poi delle prime
espansioni della repubblica in Italia mercé le federazioni di città,
accompagnate da alleanze dei rispettivi numi in forma di religioni
intermunicipali, - infine delle grandi conquiste fuor d'Italia le quali
inaugurano un regime di tolleranza di ogni culto, innestando tutte le divinità
dei popoli assoggettati al tronco delle deità romane per farne una religione
politeistica universale, immedesimata coi destini dell’Urbs. Tutto
ciò l'impero, in mezzo allo scetticismo trionfante, non rigettò ma anzi
tesoreggiò a servizio della nuova e più accentrata costituzione politica;
sicché Cesare iniziò e strinse nelle proprie mani il nuovo ordinamento
imperiale, facendosi primamente eleggere pontifex maximus; Augusto
comprese nel suo vasto ordinamento politico amministrativo di Roma imperiale
quello pure del culto tradizionale atteggiato ad universalità per cui il jus
publicum rimase anche allora «jus sacrum»; ed anzi, a raffermarne la
maestà, ognuno degl'imperatori successivi assunse il titolo di «divus»,
sino a che Diocleziano aggiunge al culto personale dell'imperatore così
divinizzato le pompose cerimonie dell'antico panteismo religioso orientale.
3. In
tale concetto religioso della compenetrazione di Dio col mondo e quindi dei
poteri divini con quelli umani, sta il segreto che spiega l'assorbimento di
tutto l'uomo e con esso di tutta la vita morale e giuridica della società nello
Stato, che è la nota scolpita ed obbrobriosa dell'antichità pagana.
Per
chiunque, infatti, si trovi alla testa di una società per reggerne le sorti,
sia esso il capo di una primitiva famiglia patriarcale ove il padre è ad un
tempo sacerdote, re e padrone, sia il collegio che presiede ad una repubblica
civica, sia il monarca di un regno o di un impero, - fra il duplice concetto di
considerarsi semplicemente l'interprete e il ministro della legge morale
divina, ovvero la fonte stessa immediata e l'arbitro dell'autorità propria
imperante e coattiva, è breve il passo. Ma immensa e fatale ne è la
conseguenza: essa si traduce nella onnipotenza illimitata di chi comanda e
nell'asservimento completo di chi è soggetto e deve obbedire.
Si
inganna chi per poco si arresti dinanzi alla parola libertà che sovente
e solennemente s'incontra negli Stati dell'antichità classica: essa allora
significa la facoltà o la richiesta di partecipare al governo dello Stato
o della pubblica cosa da parte di singoli cittadini e ceti sociali nei comizi o
magistrati, non mai s'intende come facoltà dei cittadini di porre un limite
all'azione dello Stato, la quale, viceversa, era invadente in tutti i penetrali
della vita privata e sopprimeva ogni autonomia personale e sociale, ossia ogni
libero svolgimento di energie convergenti al progressivo asseguimento di fini
propri inerenti alla natura dell'uomo e della società, ben
distinti da quelli dello Stato.
Così
lo Stato antico si insinua nelle coscienze ed impone il culto unico nazionale e
sopprime la libera adesione dello spirito interiore a Dio; esso coi suoi
censori è l'unico custode e moderatore del costume; esso potenzialmente si afferma
dispositore dei beni economici privati e pubblici; esso soprattutto è l'autore
e dispositore a suo libito del diritto. Come tale impartisce il diritto,
cioè le facoltà giuridiche anche private, ai pochi che partecipano al governo
pubblico e ne godono i benefici col titolo di cittadini; lo disconosce o revoca
a sua discrezione alle moltitudini; lo sottrae in radice a quanti sono
dichiarati schiavi; lo nega allo straniero, perché esso è a beneficio esclusivo
dei cittadini e si arresta ai confini dello Stato, e al disopra di questo diritto
positivo, uscente dalla onnipotenza dello Stato, scompare ogni diritto di
natura inerente all'uomo ed al consorzio sociale.
4.
Tuttavia tale triplice servitù - della vita morale spirituale, degl'interessi
economici e delle facoltà giuridiche - nelle ferree braccia dello Stato antico,
la quale si risolve nella negazione della natura umana e della società
universale e di ogni sua libera esplicazione di conformità alle
leggi eterne del Creatore, se era il risultato inesorabile dei concetti intorno
all'ordine politico del paganesimo, non ne era certamente l'unica
manifestazione.
Viene
un momento critico nella storia delle stesse società classiche, in cui il
decadere dei culti che dall'origine informavano quel panteismo politico, apre
il varco al grido della libertà nelle moltitudini nel tempo stesso che la
filosofia disvela nel fondo dell'anima i diritti dell'uomo e dell'umanità.
Accenno all'anticipata elevazione della individualità in Grecia sotto l'impulso
dell'attività commerciale, ed alle ascensioni democratiche in quei governi
repubblicani, accompagnate dalle dottrine delle scuole filosofiche che vanno da
Socrate ad Aristotele e Zenone. Esse trovano riscontro nelle lotte della
plebe in Roma per l'acquisto dei diritti di cittadinanza, sorrette dalle
conquiste politiche in Italia e fuor di essa in tre continenti, le quali
ponevano a contatto i popoli più diversi per culti, razze, civiltà, disvelando
il fondo comune di un jus gentium che avrebbe ampliato indefinitamente
il jus civile di Roma antica.
Ma se
questo prorompere e contendersi di energie poteva avvantaggiare il diritto
consuetudinario fra i cittadini di Grecia, o quello privato scritto di Roma, -
non mai le democrazie trionfanti nelle repubbliche elleniche o la conquista
finale da parte della plebe del diritto di suffragio e di magistrato, riuscì
definitivamente a sminuire la onnipotenza dello Stato panteistico, anzi
concorse per altre vie ad accrescerla e peggiorarla. Perocchè quel
pareggiamento di tutti i cittadini dinanzi alla funzione di Stato, introducendo
una eguaglianza individualistica nei diritti pubblici della cittadinanza, in
mezzo ad essa non rimase altra distinzione gerarchica che quella della
ricchezza accentrata e del pauperismo proletario! E allora di mezzo alle lotte
di classe, alle guerre civili e rivoluzioni sociali fino all'anarchia, sono le
moltitudini medesime in Grecia che invocano i tiranni, come sono gli imperatori
in Roma che si impongono a tutto il popolo romano, di cui presumono di
compendiare nella propria persona tutti i diritti in nome dell'utile pubblico
rappresentato dalle maggioranze dei cittadini. Così attraverso l'individualismo
egualitario, si ritorna fatalmente al panteismo di Stato; pel quale
viene prestamente l'ora tragica e ineluttabile in cui scompare di nuovo ogni
libertà, ossia ogni facoltà morale, giuridica ed economica inerente all'uomo ed
alla società, ingoiata nella onnipotenza personale dell'imperatore. Trapassato
invero il secolo aureo degli Antonini, che fu pur quello della sapienza
giuridica del senato imperiale alla fine del secolo terzo, Diocleziano
impersona la sentenza quidquid placuit principi legis habet vigorem.
La
vita e la morte, i beni e i diritti privati dei cittadini sono nelle mani del
despota, i magistrati tradizionali vengono sostituiti da una burocrazia di
corte, le autonomie municipali cadono sotto i servizi pubblici obbligatori
delle curie, la cultura dei campi s'immobilizza colla servitù della gleba, il
commercio rimane irrigidito sotto la celebre tariffa dei prezzi, ogni attività
economica si arresta sotto la rete ferrea di un esauriente sistema finanziario
e gl'incensi di adorazione alla persona dell'imperatore, insieme alla
persecuzione rinnovata ai cristiani «nemici dell'impero», si aggiungono a
dimostrare che tale riproduzione in Roma delle autarchie divinizzate
dell'oriente era pur sempre il prodotto dell'antico panteismo religioso pagano.
II.
1.
Occorreva pertanto risalire ad una religione divinamente vera e perfetta, e per
ciò stesso totalmente scevra dagli errori delle teogonie pagane, per rinvenire
il rimedio di un vizio congenito, il quale, attraverso lo Stato panteistico,
prodotto del panteismo filosofico-religioso, avea ammorbato tutto l'ordine
umano dell'antica civiltà, fosse pur quella dell'Asia anteriore, di Grecia e
Roma, ormai assimilate nei comuni destini. Tale fu il cristianesimo, -
il quale trasse la verità, liberatrice da tante aberrazioni dottrinali così
infeste all'uomo ed alla società, dalle sublimità del sovrannaturale
rivelato, - iniziò l'opera risanatrice mediante una istituzione affatto
originale, la Chiesa e sprigionò dal seno dell'umana convivenza energie
affatto nuove per la loro efficacia morale-religiosa e per la loro fonte e
direzione, perché esse non scendevano più dall'autorità esterna dello Stato, ma
salivano su dall'uomo interiore e dai primi filamenti della vita sociale. (7)
2.
Principi e popoli nell'ampio giro dell'impero pagano, che per lungo tempo
ancora ignorarono «la luce redentrice» che si era accesa in Palestina, - non
avrebbero mai sospettato che nel tesoro inesausto delle «verità antiche e
nuove» (vetera et nova) del cristianesimo, questo racchiudesse anche esplicite
dottrine dirette contro quella esiziale compenetrazione organica della
politica con la religione. Eppure fin nei primi documenti sacri, nel Vangelo e
negli Atti degli Apostoli, compaiono sentenze ricche di una divina virtù
medicatrice di quel malore cronico.
Certo,
nemmeno i credenti nella Buona Novella compresero, se non dietro la tardiva
lezione della esperienza, e forse (sia lecito aggiungere) nemmeno oggi la
critica scientifica apprezza bastevolmente
la rivoluzione delle idee, che stava per apportare ed effettivamente
arrecò la parola di Cristo Gesù: «Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò
che è di Dio». Vi ha un regno terreno, che deve tenersi distinto da quello
celeste, e d'ora innanzi la Chiesa non si confonderà con lo Stato;
ecco la nuova dottrina per la quale era per sempre ferito nel cuore il
panteismo politico religioso dello Stato pagano. Verità nuova negatrice di informi e mortiferi
connubi che va integrata dall'altra dottrina positiva e ricostruttrice
contenuta nelle proposizioni di S. Paolo: «Non vi è più né giudeo, né greco, né
libero, né schiavo, né maschio, né femmina, né distinzione di doni e ministeri,
ma siamo molti in un sol corpo, in Cristo, e membra gli uni degli altri. Egli,
dei diversi popoli, fece un solo, togliendo ogni separazione che li divideva,
facendoci tutti della famiglia di Dio, rinnovando l'umanità». Espressioni
mirabili non mai da filosofo alcuno finora pronunciate in modo sì palese,
ardito e solenne; le quali non solo proclamavano la fraternità umana
nella comune eguaglianza morale sotto la paternità divina, ma che ancora
venivano a significare un altro vero fondamentale collegato col primo e del
pari sorprendente. Per esse si proclama che esistono sulla faccia della terra
degli enti e circoli naturali di primigenia autonomia, da un canto
l'individuo nella famiglia, e dall'altro le spontanee e storiche derivazioni di
questa, le classi, le convivenze locali, le nazioni, donde la società
universale; istituzioni storiche che lo Stato non crea e non può quindi
distruggere o sconvolgere; e che per ragione di fini sono, anzi, anteriori
e superiori a lui; e che pertanto esso ha il dovere di riconoscere, tutelare e
avvalorare nel loro normale svolgimento; e davanti a cui necessariamente si
arresta l'arbitrio del legislatore e dello statista. In altre parole: rimase
così distinto non solo lo Stato dalla Chiesa, ma lo Stato dalla
società, in questa insinuando e consacrando un principio di libertà che
limita la stessa autorità dei principi e pone così un freno intrinseco
ad ogni panteistico assorbimento politico.
Che se queste libere facoltà umane e sociali che si immedesimano con un diritto
di natura, di cui la prima è la libertà dell'anima in ordine ai fini
sovrannaturali ed a quelli stessi essenzialmente spirituali dell'incivilimento,
si trovassero violate dalla prepotenza del legislatore umano, allora sovviene,
ispiratrice della fortezza cristiana, la sentenza che ogni altra sanziona,
quella contenuta nella intimazione di s. Pietro: «E’ necessario obbedire
prima a Dio e poi agli uomini»; la quale pone una terza distinzione fra il
diritto naturale, riflesso della legge eterna di Dio, è il diritto positivo,
norma subordinata e transeunte del legislatore umano, che a quella non può
contrastare; prevenendo, così, anche gli abusi di fatto del dispotismo
panteistico di trono o di piazza. (8)
Potevasi delineare meglio, che non facesse questa novella fonte di
autorità trascendente, il futuro ordine di civiltà, destinato a poggiare ormai
sulla distinzione dei fini, degli organi e delle funzioni sociali? (9)
3.
Tuttavia tale inattesa idea archetipa, rivelata dalla parola divina,
dovea pure trapassare e scolpirsi nella coscienza degli uomini per tradursi in
un fatto reale, vivo e duraturo della futura società. Tale fatto si adempiè durante
il periodo delle persecuzioni in odio ai novelli credenti, a questi
«nemici del genere umano e dell'impero» con cui la espressione, allora,
compenetravasi. Avvenimento inatteso esso medesimo, perché la tradizione di
tolleranza di Roma antica verso tutti i culti forestieri, che essa si
accontentava di aggiungere a quello delle divinità civiche e nazionali e che
anzi si era tradotta in indifferentismo sistematico di Stato al tempo
dell'impero, si trovò di un tratto, converso nel proposito di distruzione
inesorata e cruenta di un unico culto, quello di Cristo. Avvenimento tuttavia rinnovatore per la genesi della
società dell'indomani; perocchè, per la prima volta, attraverso otto
persecuzioni che insanguinarono quasi tre secoli per suggellare nel supremo sacrifizio
della vita la professione della fede soprannaturale, si fusero insieme
l'oriente e l'occidente, i romani e i barbari, la canizie e la gioventù, il
levita e le semplici moltitudini, il guerriero, il magistrato, il dotto, le
matrone e le donzelle, il patriziato e il popolo, i rappresentanti di ogni età,
di ogni classe e stirpe; con quel battesimo di sangue, segnando per sempre
la suprema distinzione fra la società pagana e la cristiana e in questa
fecondando i germi di una civiltà universale.
Né
basta: definitivo deve chiamarsi questo avvenimento delle persecuzioni
anche di fronte alla idea panteistica informatrice di tutta l'antichità. Dopo
il lungo corso di esse il mondo stupefatto aveva scorto tre risultati
opposti ad ogni esempio del passato ed alla comune aspettazione: il numero dei
fedeli cristiani si era moltiplicato dovunque come fioritura primaverile,
sicché alla fine del secolo IV i cristiani s'incontravano diffusi ben oltre i
confini dell'impero latino; ciascuno di essi aveva affermato la inviolabilità
della propria coscienza individuale mediante il primo e massimo diritto di
credere in Dio, sotto lo sperimento del dolore, fino al martirio; e
simultaneamente si era veduta la gerarchia ecclesiastica, approfondendo
silenziosa le proprie radici nelle popolazioni, precedere e guidare con calma
imperturbata questa mirabile espansione di energie spirituali nei popoli, senza
soccorso di governi ed anche di contro ad essi. Quale maggior testimonianza
della sorgente sovrannaturale della religione cristiana, della naturale libertà
dell'anima e della esistenza effettiva, dotata di vita propria indipendente,
della Chiesa cattolica, al di fuori e al di sopra degli ordinamenti di Stato?
Quale
dei sociologi veramente positivi non riconoscerebbe che propriamente in mezzo a
quella immane opera distruttiva delle persecuzioni doveano porsi anco le
fondamenta e costruirsi le mura maestre della novella società e civiltà
cristiana?
4. La
parola di Dio non dice solamente ma crea; né soltanto all'origine
dell'universo, ma lungo la vita del genere umano nei secoli, e più
manifestamente nella genesi del fatto massimo e centrale della storia, il
cristianesimo, anzi in ogni ciclo storico successivo di esso. (10)
Così
propriamente al chiudersi del periodo delle persecuzioni ai primi del secolo
IV, né senza concorso di Costantino, salito in quegli anni allo scettro dei
Cesari, e dell'azione sua pacificatrice della società e riordinatrice dello
Stato, non escluso il fatto della traslazione della capitale dell'impero sul
Bosforo, vengono a delinearsi nel circuito stesso dell'impero (per poco nelle
mani di lui e dei suoi successori unificato) que' due cicli storici che
additammo dapprincipio, ma che ora si distinguono anche per la duplice opposta
vicenda con cui si svolgono, alla distanza di poco più di un secolo dai grandi
avvenimenti costantiniani. L'uno di essi, col suo centro di gravità in Roma,
precipita all'occaso, in cui si spegne il vecchio mondo pagano nell'occidente;
l'altro, aggirandosi intorno a Bisanzio, affretta l'aurora, che disveli
l'ascensione già reale, progredita ed alacre del giovane mondo cristiano
nell'oriente.
Avvertasi bene: a questo momento che ben potrebbe dirsi critico
della storia («tournant de l'histoire» , «Zeitwende»), non sono più
semplicemente due ordini di idee religiose che si trovino in conflitto
in cui versavano già da trecento anni; ma si tratta ormai di due immensi e
complessi fatti di vita politica, sociale e di cultura, fra loro in pieno e
decisivo contrasto; dei quali, nel longevo e persistente attrito delle tendenze
contrarie, l'uno, con la caduta dell'impero di occidente, trascinerà
nella inanizione una civiltà che compendiò in sé tutto il passato, l'altro, entro
la parabola della età costantiniana, affermerà la esistenza effettiva e
vitale di una civiltà, che già promette di avere con sé tutto l'avvenire.
L'idea pagana potrà rinascere più tardi nell'occidente, tramutata sotto la
veste letteraria, artistica e di cultura; l'idea cristiana; nella sua interezza
vivente nel cattolicesimo, troppo presto nell'oriente potrà tralignare e
menomarsi, ma i destini del paganesimo, come religione e civiltà insieme, di
fronte al cristianesimo, furono fra il principio del IV e la fine del VI
secolo, cioè fra Costantino e Gregorio Magno, definitivamente risoluti e le
popolazioni non mancano di avere del grande dilemma storico, alternamente,
angosciosi presentimenti o radiose intuizioni. (11)
5. La
parte occidentale dell'impero che gravitava verso Roma ove il paganesimo fin
dalle origini confuso con lo Stato, con la società, con le conquiste e glorie
delle aquile e delle leggi latine avea profondato le millenarie sue radici,
«questa parte, ripetesi, scissa da gran tempo per costumi, indole, cultura,
tendenze dal resto del mondo romano - più lontana dal movimento commerciale e
dalle sempre vive fonti della ricchezza d'oriente e che avea di fronte la forte
Germania, madre inesausta di falangi barbariche non mai completamente vinte...
appare subito destinata a più rapida decadenza della parte orientale». E i
sintomi che, paurosi, incombono fin dal tempo di Diocleziano, si addensano e
premono negli ultimi due secoli, annunziatori della fatale ruina.
«Dai
monumenti, dai poeti, dagli storici, dagli scrittori asceti, dai legislatori,
dalle iscrizioni pare sorga un coro confuso di voci, di lamenti, di pianti, che
dica: Roma muore! La vecchia Roma si vedeva contesa dalla nuova in
Costantinopoli l'importanza di capitale del mondo non solo; ma Milano e Ravenna
ospitavano gl'imperatori che avevano lasciato le infide e deboli mura romulee.
«L'ultimo grande principe era stato Teodosio I che aveva affidato
l'occidente, più che all'ignavia del figlio Onorio, al valore del barbaro
Stilicone... Fantocci coronati si succedevano sul trono insanguinato fino
all'ultimo Romolo e il vecchio ideale della maestà romana, cosi nobilmente
serena e sfolgorante nelle figure di Traiano, di Nerva, di Antonino Pio e nei
concetti austeri di Marco Aurelio, si spegneva nella abiezione degli ultimi
Cesari». Sotto il regime di un regolamentarismo amministrativo ogni reliquia di
libertà personale e locale scompare inesorabilmente; «l'uomo è avvinto alla
terra, il proprietario alla curia, l'operaio al collegio corporatizio, il
soldato all'esercito di padre in figlio eternamente».
Immensi i bisogni dello Stato pericolante per le guerre interne e le
invasioni dal di fuori, per lo sperpero della corte e dei cortigiani, per l'alimentazione
delle ignave plebi urbane, per il continuo riscatto che Roma doveva pagare ai
barbari minacciosi. La fiscalità domina tutto e, sotto la rapacità degli
esattori, si esauriscono le fonti private e pubbliche della ricchezza.
Le
terre, abbandonate e deserte, si accentrano in giganteschi latifondi che
ingoiano il campicello del minuto proprietario, ceduto al ricco, per averne
protezione a prezzo della propria libertà; e le classi doviziose, aliene e
rifuggenti ormai dagli uffici pubblici, si estinguono nell'ozio ignominioso,
corruttore. Tutto in esse scomparve: la virtù antica, la fortezza, la gloria,
la potenza; il solo vizio rimase, mentre il popolo romano,
furente per il gioco, per il circo, pei teatri, «vuol morire ridendo». Ma le
istituzioni, un tempo meravigliose del mondo, sono larve di ciò che furono un
dì e tutto al di dentro vacilla sotto la impotenza degl'imbelli reggitori e dal
di fuori gl'incessanti assalti degli invasori che penetrano i confini, che
assorgono ai magistrati, afferrano le supreme dignità di Cesare e di Augusto,
tramutano gli ultimi due secoli dell'impero in una lotta tremenda fra civiltà e
barbarie; una immensa desolazione occupa il grande animo romano che nello
scetticismo di un culto ormai vuoto di contenuto e di valore politico «non
trova nemmeno la virtù di spegnersi con decorosa dignità» pago di ripeter con
Claudiano: «Hei mihi, quo Latiae vires urbisque potestas decidit! In qualem paulatim fluximus umbram» (Bell. Gild. 44-5);
attendendo esterrefatto l'ultimo anelito dell'«agonia di Roma». Al più triste
tramonto che conosca la storia, sola assiste confortatrice pietosa l'idea
cristiana, già dal tempo di Nerone accesa e diffusa negli intimi penetrali di
Roma. «Essa quasi si nasconde nei giorni trionfanti della maestà imperiale...,
ma più viva scintilla quando le tenebre scendono sul decrepito mondo e
finalmente, come la mistica lampada dei sepolcreti, la illumina nell'ora
solenne» (12) della morte, quasi simbolo di più sublime risurrezione. Quando a
Girolamo nel deserto giunge all'orecchio che Roma è presa e saccheggiata da
Alarico, i singulti gli strozzano la voce: e presa la città che ha
soggiogato tutto il mondo!...; e soggiunge: poiché fu troncato il capo del
romano impero e, per dire con più verità, tutto il mondo è perito in una sola
città, tacqui e mi umiliai! Né men tocco dalla gravità della sciagura di Roma
fu il suo contemporaneo Agostino che sentivasi anch'egli romano e già inebriato
dell'idea di un impero cristiano universale, destinato a riunire nella Chiesa
la grande famiglia dei popoli. Essi erano, in quel momento, gl'interpreti del
pensiero e del sentire cristiano intorno alla disparizione di Roma antica, ma
ancora i profeti che nella nuova filosofia della storia preannunziano le
sorti dell'eterna città. (13)
6. Se
tale fu nell'occidente, durante il decadimento finale del paganesimo, la
posizione di propaganda tranquilla di dottrine e di virtù da parte dei
cristiani, posizione la quale assunsero e mantennero lungamente i fedeli, il
sacerdozio, i pontefici stessi nella vita nascosta delle catacombe e
delle prime chiese di Roma, tutti intesi a rinnovare dal profondo le anime, a
sublimare con la grazia la umana dignità, a fecondare col sangue i primi germi
di una società nuova, in quell'antica capitale che avrebbe tenacemente
protratto costumi e pensieri pagani ancor per secoli dopo la scomparsa delle
sue istituzioni politiche, ben diverso apparisce dalle origini l'atteggiamento
del cristianesimo nella parte orientale dell'impero. In questo oriente non mai
oblioso della primitiva rivelazione, sempre tormentato dall'ansia del
misticismo, insieme alle memorie solenni dell'antico «popolo eletto»
sopravvivevano non pochi ideali filosofici ed estetici della diffusa cultura
ellenica a predisporre una più facile e larga accoglienza alla «Buona Novella».
Ma ben altri e immanenti fattori la preparavano prossimamente. Ivi era stato da
Gesù Cristo predicato il regno di Dio e si udirono di sua viva voce le parole
redentrici che annunziano la pace agli uomini di buona volontà, che si
rivolgono agli umili ed afflitti, che parlano non di violenze ma di amore ed
invitano le plebi e gli schiavi a levare lo sguardo non al trono dei potenti ma
al Padre che è nei Cieli. Ivi si manifesta tosto e pubblicamente la Chiesa, nei
suoi apostoli e nel suo capo, alle genti di lontane regioni nel dì della
Pentecoste in Gerusalemme, e si afferma col primo concilio ivi pure adunatosi;
di là s'irradiano gli apostoli medesimi per la predicazione in tutta la terra,
e di là, in specie, si dipartono i viaggi di Pietro e Paolo, nei paesi
circummediterranei, prima di fermarsi in Roma; entrando essi e i loro discepoli
nelle città di Antiochia, di Efeso e della Grecia; ponendosi così a contatto
delle grosse agglomerazioni popolari, dei gruppi procaccianti della «diaspora»
israelitica, delle classi colte neo-pagane nell'Areopago di Atene e nelle
scuole disputanti di Alessandria, non solo ad annunziare la fede, ma a
difenderla e ad avvalorarla con la carità e con lo sperimento delle opere,
sulle tracce del divino Maestro, che nella sua vita pubblica passò beneficando.
Così la Chiesa nell'oriente comparisce fin dalla origine alla luce del sole e
in questo ambiente cresce di autorità dottrinale e di efficacia pratica,
stringendosi direttamente e palesemente alle popolazioni, sopra delle quali
dispiega una funzione educatrice spirituale e sociale insieme, in virtù di una
missione che le proviene da una autorità suprema interiore che l'avviva, solo
troppo spesso impedita esteriormente da legali restrizioni o da violente
persecuzioni dello Stato. Arriva però un momento solenne in cui la Chiesa, dopo
di avere per quasi tre secoli, specialmente in questa parte orientale
dell'impero con un'azione mite ma aperta ed efficace, disseminato germi di vita
e di opere salutari nelle moltiplicate comunità cristiane che circondano il
mediterraneo levantino, col linguaggio silenzioso ma irresistibile del fatto,
invoca di imprendere nella sua immensa carità per mezzo dei suoi leviti, dei
suoi vescovi uniti al pontefice sommo, in una organizzazione gerarchica già
cresciuta adulta, d'imprendere (ripetesi) un'opera più libera, continuata,
sicura di rigenerazione sociale. Che cosa significano questi sentimenti,
bisogni e reclami, che fermentano vieppiù alla vigilia della vittoria di
Costantino contro Massenzio e prorompono dopo di essa? Tutto ciò annunzia la epifania
sociale del cristianesimo; è la manifestazione di una palingenesi della
società sotto la guida spontanea ma possente della Chiesa che ora s'impone
alla universalità come già si era affermata nelle regioni orientali
dell'impero.
7.
Orbene: in questo momento supremo intervenne Costantino col suo editto di
Milano del 313, ripubblicato in Nicomedia, con cui non fece che sanzionare il
voto e il grido delle coscienze cristiane cui anticipatamente faceva eco tutta
una futura società che da Cristo attendeva la sua rigenerazione. Egli
guarentisce con la legge un diritto che era già in gran parte nel
fatto, non solo concedendo libertà del culto ai cristiani, ma ancora
riconoscendo nella Chiesa, con la personalità giuridica, la sua indipendenza.
Ciò egli fece con crescente convincimento della giustizia dell'atto, se non
della grandezza delle sue conseguenze, cosicché, assicurata così giuridicamente
ad essa la facoltà per diritto proprio di esercitare liberamente la sua
missione religiosa nel mondo, si adoperò a renderla più compiuta ed efficace
dichiarandosi defensor ecclesiae mercé la cospirazione dei poteri civili
ai fini più elevati spirituali ed universali di essa, finché Teodosio I
proclamò il cattolicismo religione di Stato. Politicamente Costantino ebbe
frattanto l'intuizione della virtù nuova che d'ora innanzi il cristianesimo e
la Chiesa avrebbero apportato alla ricostituzione degli Stati e per ora
dell'impero, il quale, fra sinistre e non sempre incolpevoli vicende, ne
ritrasse protrazione secolare di esistenza.
Sociologicamente egli con l'editto spostò l'asse intorno a cui si
sarebbe aggirata, rispetto all'antica, la nuova civiltà, non più considerante
solo Stato, ma l'uomo e la società, sotto l'azione diretta e indefinitamente
espansiva dei fattori spirituali di cui è custode e rappresentante la Chiesa.
Ma di
ciò aveva Costantino piena coscienza? Certo è che dai suoi primi provvedimenti
legislativi, suggeriti a lui dalla fede e dall'ossequio alla Chiesa, rimaneva
consacrato con la maestà stessa delle leggi quel principio nel Vangelo primamente
annunziato, il quale, nell'atto stesso che infrangeva la tirannia del panteismo
politico di tutta l'antichità pagana, avrebbe deposto in seno all'umanità un lievito
di libertà capace di apportare una felice rivoluzione nell'ordine
sociale-civile. Tale principio ora proclamava «che la religione non è
più lo Stato, che obbedire a Cesare non è più la stessa cosa che
obbedire a Dio e che se il cittadino deve allo Stato la sua sudditanza ed anche
la sua vita, la parte migliore di sè, l'anima sua, rimaneva sempre libera per
servire ad una legge morale che domina l'universo e governa la civiltà. Lo
stoicismo aveva già attestato questa libertà come visione di alcune menti
sovrane isolate e forse egoistiche, ma il cristianesimo ne avea fatto un
diritto di natura e un patrimonio dell'intera umanità» (14) e l'avea consacrata
con la parola divina, facendone custode e vindice la Chiesa stessa; ed ora
questa preziosa conquista veniva suggellata legalmente dall'imperatore
cristiano. Al principio rinnovatore forse Costantino venne meno più tardi e
quello, nei secoli successivi, si trovò dovunque menomato e pervertito. Ma il
principio era posto per sempre e frattanto, nell'età costantiniana, fruttificò
immediatamente non solo a profitto della missione soprannaturale della
religione, ma a bene duraturo della società attestando fin d'ora come il
riconoscimento e il rispetto dei diritti di Dio sono garanzia di ogni
diritto umano e di ogni progresso civile.
III.
La
promulgazione dell'editto costantiniano era un risultato e in qualche senso un
premio delle virtù intrinseche del cristianesimo, il quale, penetrando nelle
menti e nei cuori dei sempre più numerosi seguaci e irradiandosi con efficacia
rinnovatrice nella società, avea imposto ai Cesari stessi un problema politico:
se, cioè, meglio convenisse proseguire le persecuzioni fino a sradicare la
novella religione, o piuttosto giovarsene come di un elemento restauratore
dell'Impero nelle incerte sue sorti avvenire. Costantino (è convenuto) ebbe il
merito incontestabile, che bastò ad elevarlo sopra a tutti i suoi predecessori,
di scorgere nella Chiesa cattolica un'immensa forza vitale unificatrice
dell'impero, insidiato da tante cause dissolventi irreparabili; con pensiero
non dissimile da quello che spinge oggi le stirpi ed i governanti di Germania,
della Gran Brettagna, dell'Unione nordamericana (all'opposto dei popoli e
degli Stati latini) a guardare a Roma centro religioso e morale, per
assimilare vieppiù le loro energie interne e così avvalorare le loro emule
aspirazioni di imperialismo mondiale.
Ma,
per estimare gli effetti dell'editto costantiniano di libertà
religiosa, conviene dapprima tratteggiare l'ambiente sociale in cui
quella parola finalmente risonò; e ciò non solo per misurare i coefficienti
e i reagenti dell'eco di essa in quel momento storico, ma soprattutto per
estimarne le risultanze definitive nella continuità dell'incivilimento
cristiano. Compito analitico e critico arduo e complesso, ma che qui a titolo
di premessa, coll'aiuto di studi vastissimi, può forse ridursi a poche e bene
assodate proposizioni.
1. Vi ha alcunché di comune, nei tratti che
contrassegnano la società del tempo costantiniano, fra la parte orientale ed
occidentale dell'impero da Costantino per poco unificato.
In
prima un complesso di elementi sociali che si ricongiungono alla vita politica
del popolo romano come substrato e spirito informativo di essa. Non a torto si
avvertì come due indirizzi massimi e tenaci guidarono la costituzione di Roma
dalle sue origini fino a Costantino. L'uno è quiritario, connaturato con
le famiglie patrizie fondatrici di Roma, incardinato sulle curie sotto i
re, chiuso nelle maggiori magistrature sotto la repubblica e prevalente nel
senato dei migliori tempi imperiali; con tendenze resistenti di aristocrazia,
di predominio privilegiato e di esclusività nazionale, le quali,
nelle stesse espansioni storiche del popolo romano-latino, tutta la vita di
questo mirano ad incentrare nei diritti giuridico-politici dell'Urbs.
L'altro indirizzo è etnico-universale e perciò democratico,
eguagliatore, diffusivo, che sotto i re ammette al di dentro i forestieri a
trafficare, nella repubblica la plebe e le classi borghesi a salire alle
magistrature e, infine, nel periodo delle grandi conquiste, specie sotto l'impero,
tutte le razze e le nazioni a partecipare al diritto o almeno alla potenza
civilizzatrice di Roma, che si riassume nell'imperialismo sull'orbe. I due
indirizzi si alternano e contemperano nei secoli; ma ora con Costantino trionfa
definitivamente il secondo, perché all'imperialismo politico, che sotto
lo scettro dell'imperatore unifica le razze, si aggiunge il concetto di un imperialismo
religioso-simbolico che vede incipiente e profetizza completa la
unificazione di ogni stirpe e della umanità universale nella fede cristiana e
nella Chiesa in Roma «onde Cristo è romano». Tale coincidenza di tradizioni del
passato e di previsioni dell'avvenire nella persona dell'imperatore fattosi
cristiano, servì a rinsaldare la compagine e ritemprare la vitalità dell'impero
in quel momento storico, ma ne mutava per sempre la base e il vertice di
cospirazione finale. E d'ora innanzi, ogni qualvolta il grande Stato
imperialistico riunificato da Costantino o comunque ricostituito dai suoi
prossimi o lontani successori, devierà dalla novella missione di conferire
alla civiltà cristiana, la Chiesa abbandonerà ai propri destini ora
l'impero di Onorio e di Augustolo in occidente, ora quello di Arcadio e dei
bizantini in oriente, non meno che quello degli Hohenstaufen nel cuore
dell'Europa medioevale; perché al di sopra di tutti i concreti ordinamenti
politici transeunti per l'esaurirsi della rispettiva vocazione storica, si
perpetui e sorvoli l'universalità morale del cattolicismo inscindibile
dall'incivilimento. Questi disegni stessi, provvidenziali dopo l'editto,
vennero più palesemente ad incombere sulle riforme e sulle opere politiche di
Costantino.
2. Ma
al di fuori della politica propriamente detta, un'altra condizione di fatto si
accomuna a tutte le parti dell'impero e ne corrode le fondamenta nelle radici
stesse della società: quella comprensiva di una crisi sociale che
coinvolge tutti gli elementi e i fattori dell'essere e del vivere civile, dalla
composizione demografica allo stato del territorio ed alla economia privata e
pubblica, fino alle istituzioni etico-giuridiche e alla religione; condizione
patologica che si protrae e acutizza fino ai tempi costantiniani.
La
popolazione, nell'immenso giro di quello Stato intercontinentale, abbracciando
genti di ogni razza e grado di civiltà, ammettendo da tempo e tuttora, entro i
vasti confini dell'impero, l'insediamento d'intere popolazioni barbariche,
inscrivendo (dopo Commodo) nell'esercito regolare i barbari stessi se
preparavasi così ad accogliere nel proprio seno un senso crescente di
cosmopolitismo, perdeva tuttavia della sua omogeneità compositiva originaria
già di lunga mano acquisita (fra romani, latini e italici), dissipava le sue
originali tradizioni storiche (armi e leggi), smarriva la coscienza di una speciale
missione così solenne (tu regere imperio populos, romane, memento); e
ciò non meno nelle vessate province che nelle capitali di Roma o di
Costantinopoli; conglomerazioni indigeste di elementi i più diversi, antichi e
nuovi, attratti dalle pompe orientali della corte imperiale, dal lusso
sfacciato di famiglie e ceti ambiziosi, dalla cupidigia di speculatori e
avventurieri, dalla sordida miseria delle plebi.
Bensì
l'impero, se quantitativamente si incrementava di genti conquistate o
introdotte dal di fuori, rimaneva al di dentro assottigliato e corroso dallo spopolamento,
che già a Giulio Cesare aveva suggerito i rimedi inefficaci ed estremi della Lex
Iulia et Papia Poppea, ed allarmato invano il primo imperatore Augusto, e
che anzi procedette dipoi paurosamente verso un inesorabile esaurimento,
sintomo di estrema corruzione e castigo di tutte le antiche società pagane, che
il cristianesimo nascente non riuscì tosto ad arrestare.
Di
qui, in quelle popolazioni, specialmente delle città, voraci consumatrici di
ogni ricchezza e dei capitali stessi accumulati col bottino e con la frode, il
rallentarsi od arrestarsi dell'attività produttiva (non mai del resto molto
elevata), e il connesso impoverimento generale, che pesava massimamente sulle
campagne. Donde l'altro fenomeno demografico conseguente dell'inurbarsi
dei volghi rurali, per il degenerare dei tipici contratti agrari, per il
deperire delle minute proprietà contadinesche, per il dilagare degli schiavi al
posto del coltivatore libero nei latifondi già denunciati come ruina d'Italia e
delle provincie da Tacito, ma che raggiunsero il massimo di estensione
desolatrice nei secoli posteriori; esodo dei lavoratori campagnuoli, che
Diocleziano avea pensato di arrestare, fissandoli al suolo con la servitù della
gleba.
Di
qui pure il retrocedere, nella parte occidentale e anche in quella levantina
del mondo romano durante i lunghi secoli della decadenza dell'impero, verso una
economia di natura sorretta da un regolamentarismo di Stato panteistico;
retrocessione contrassegnata dai seguenti tre sintomi di estremo
pervertimento economico. Il commercio era divenuto passivo (giusta
l'espressione usata) perché le città e le regioni di consumo non ricambiano più
le merci introdotte dai paesi produttori se non con masse monetarie, di
cui, pertanto, quelle rimangono gradualmente spogliate; ciò che allora valse
per tutti i grandi centri, ma specialmente per Roma e l'occidente rispetto agli
estremi paesi orientali. Analogamente le specie monetarie nel centro
dell'impero, sempre più scarse, rimangono il monopolio di un fascio sempre più
esiguo di onnipotenti capitalisti viventi sulle operazioni finanziarie
di Stato: i pubblicani esattori di tributi, gli appaltatori di forniture
militari, i negoziatori del grano per il mantenimento annonario delle plebi.
Infine le usure, esercitate da
questi stessi capitalisti tramutati in prestatori rapaci ai privati
(«manieurs d'argent»), cancrena originaria di Roma antica, ora dissanguano non
la plebe soltanto, ma tutti i ceti, dalla domus sontuosa del patrizio
all'ultimo casolare di campagna, e protrae peggiorato lo spettacolo
obbrobrioso, già stigmatizzato da Giugurta, di un mondo venale alla balìa di
inesorati creditori. E come ultimo e inevitabile risultato di simili
degenerazioni che fanno capo alla deficienza del mezzo circolante, il
ritorno alle abitudini primitive del consumo dei prodotti in natura sui fondi
propri e della traslazione diretta delle merci e dei beni economici in società
all'infuori (per quanto fosse possibile) di ogni espediente di scambi monetari;
ciò che si riprodusse e protrasse fino oltre ai tempi di Costantino per il
contributo stesso delle imposte.
Ma
ben più di tali malori economici, profonda e incurabile era la dissoluzione di
tutte le istituzioni etico-civili che formarono per secoli il piedistallo e il
fastigio della società e dello Stato romano: la famiglia e la religione.
Quella lungamente integra e robusta; sorgente e custode del giure privato e
pubblico dell'antica romanità, era pervenuta alla fine della repubblica e sotto
l'impero, in forza del concubinato, del divorzio, del celibato licenzioso, al
più completo e ributtante disfacimento. Questa, la religione, più che altrove
(come si avvertì) compenetrata con gli ordini e coi destini politici del popolo
romano, ma già insidiata dai culti etnici più differenti successivamente
innestati sul proprio tronco originale, aveva perduto ogni carattere e valore
nazionale per non rivelare, ai tempi imperiali, che la propria vacuità
di contenuto dottrinale ed etico, oggetto del disprezzo delle classi colte, e
di formalistiche pratiche superstiziose da parte dei volghi specialmente
agresti, lasciando, compiacente, senza remora irrompere la più sfacciata e
diffusa corruzione del costume; cosicché fu scritto che delle universali
testimonianze della grandezza romana, quella che più a lungo sopravvisse fu la
universalità di ogni vizio. Sopravvivenza di connaturati costumi pagani, così
persistente e generale, che rimase l'ostacolo massimo alla piena conversione
cristiana delle popolazioni, ben oltre i tempi costantiniani, e contro la quale
si infransero le leggi degl'imperatori bizantini nei secoli successivi,
trasmettendone tracce deleterie fino all'età moderna.
3. Ma se questi sono i tratti essenziali della suprema
crisi che affliggeva e pareggiava tutto il vastissimo dominio di Costantino nel
secolo IV, le differenze accessorie, nelle manifestazioni
caratteristiche di quella fra la parte occidentale dell'impero gravitante verso
Roma, e l'altra che si sarebbe ognor più aggirata intorno a Costantinopoli, si
possono compendiare in questo concetto: «che in quella la crisi si palesa di
preferenza con la opposizione dei fatti, e in questa col prevalente conflitto
delle idee». Nell'occidente, dove signoreggiò per secoli l'elemento latino positivo
per eccellenza, la crisi si esplica da parte della società pagana con le
persecuzioni violente anticristiane colà primamente iniziate, con le reliquie
d'istituzioni politiche ivi più protratte e resistenti, con le osservanze di un
culto ufficiale più a lungo riconosciuto e grandeggiante, coi resti di classi
patrizie più intransigenti e tenaci nei loro tradizionali privilegi. Tutti
atteggiamenti di fatto in contrasto quasi silente ma solenne, da parte delle
società cristiane, con le affermazioni positive di una fede la quale si
professa col morire, di una morale sublime che si insegna coll'esempio, di
ammirande virtù religiose e civili che si attestano con la disciplina e
l'obbedienza alle autorità fino all'eroismo. Ben diversamente nell'oriente
imperiale, ove, lo spirito ellenico idealistico, versatile, vivace, espansivo,
ma ancora sofistico ed infido (vizio più spiccato nella decadenza di Grecia
dopo la conquista romana) aveva con la lingua, con la letteratura e l'arte
colorito e impregnato la società latina e gettato il suo manto iridescente sul
trono dei Cesari; dinanzi a cui tale spirito penetrante presentavasi come
l'erede delle reliquie fuse e ravvivate di religioni trascendentali, di
splendide culture e di leggendarie magnificenze della defunta civiltà asiatica
nelle province da ultimo annesse all'impero. In queste regioni, pertanto, la
società cristiana - già largamente diffusa - dovette, nell'intento di compiere
e assicurare le proprie conquiste spirituali sul paganesimo, venire di più in
più a contatto di esso attraverso una serie di battaglie d'idee e di
coscienze, contro tralignate tradizioni etnico-religiose, di fronte a
multiformi e capziose scuole filosofiche e in mezzo a sentimenti popolari in
vario senso esagitati e confliggenti.
Il
cristianesimo stesso era si quivi largamente propagato, non sempre con le
misteriose conversioni della più semplice predicazione evangelica, ma bene
spesso, fra popolazioni colte, col presidio di sublimi e talora discusse
esposizioni dottrinali sull'esempio di san Paolo nell'Areopago di Atene, e in
tali regioni d'oriente, tanta parte della propria autorità sovrannaturale, la
Chiesa, entro i primi secoli, dispiegò mediante i concili ivi più frequenti,
per il bisogno di definire, ossia precisare, le verità dogmatiche col rigore di
espressioni logiche, che contrassegna pure la elaborazione scientifica..
4. Or bene, in grazia di queste battaglie
d'idee (nell'ampio senso della parola) combattute e vinte dalla Chiesa,
principalmente in oriente, quella crisi politico-sociale, che dicemmo
comune a tutto l'impero pagano, si innalza colà fino al carattere di crisi
di civiltà, perché si drizza ai più alti culmini della vita dello spirito
nei popoli.
E tre
furono i massimi focolari di questa vita combattiva spirituale che, nei paesi
circummediterranei volti a levante, accesero e proiettarono la loro luce più o
meno sinistra fin oltre i tempi costantiniani:
l'ebraismo
come programma tradizionale etnico religioso del popolo israelitico. Nel seno
di questo, dopo la caduta di Gerusalemme sotto il giogo romano, dopo la
dispersione violenta e i repressi tentativi di riscossa, i farisei
conservatori, scissi in due partiti, l'uno, dei maggiori possidenti e
dignitari, più aristocratico e prudente dinanzi allo straniero, l'altro, più
popolare, più audace e rivoluzionario (i zeloti), vagheggiavano pur sempre la
ricostituzione politica del regno di Salomone immedesimato col culto
formalistico più rigido dell'antica legge; i sadducei progressisti, più
tiepidi sulle sorti avvenire di lor religione, erano inclini ad accomodarsi con
le dottrine e con la cultura del tempo, come anche con le condizioni politiche
e civili romano-elleniche, sfruttandole nella diaspora, ossia nelle loro
comunità autonome, sparse anticipatamente fuor della Giudea (erano già potenti
in Roma sotto Giulio Cesare), a proprio profitto economico e civile di fronte
ai diversi ambienti pagani e cristiani; infine i pietisti, nel fervore
delle proprie credenze puritane, attendevano un nuovo Messia religioso, il
quale poi darebbe in premio ai propri fedeli ancora mille anni di trionfo in un
loro regno politico sulla terra. Divisioni religioso-nazionali del pensiero
ebraico e delle parti rispettive, pur sempre collegate dalla comune avversione
al cristianesimo, che col procedere dei tempi si fusero tutte in quella
transigente e diffusiva della diaspora la quale, già insinuatasi
prontamente nei primi tre secoli dell'impero da Gerusalemme con numerose
comunità in Siria, Asia Minore, Egitto, Cirenaica e più tardi da Roma
nell'occidente, organizzata dalla borghesia mercantile e finanziaria,
proponevasi di atteggiarsi dovunque, in forma insidiosa od aggressiva, a
protesta e vendetta perenne contro la cristianità.
Il neo-platonismo.
Le scuole eclettiche dell'antica filosofia ellenica, inchinevoli da ultimo (per
reazione al vuoto paganesimo) a misticismo religioso, sull'esempio di Filone
ebreo (secolo I d. Cr.) che avea accostato la Bibbia all'antico panteismo
orientale, poco di poi restaurate così sistematicamente (secolo II) in Egitto,
finalmente si assimilano nella filosofia neo-platonica. Esse dal secolo
III al VI, con Sacca, Porfirio, Plotino, ecc., nelle celebri università di
Alessandria, Atene e Costantinopoli; pretendevano di conciliare in un idealismo
panteistico evolutivo i pitagorici, il liceo e l'accademia, la mitologia pagana
e la fede cristiana, snaturando però quest'ultima ognor più con le dottrine
spiritiche e col nirvana buddistico, fino all'aperto distacco dal
cristianesimo, quanto più altri (i santi padri) si accaloravano a
cristianeggiare Platone e talune teorie della nuova scuola. La quale frattanto,
con molteplici indirizzi, riuscì a saturare e sconvolgere non pur il pensiero
filosofico, ma tutta la cultura di quei secoli cristiani, riproducendosi con
tardiva rinascenza pervertitrice nell'umanismo italico ed europeo del secolo XV
e XVI.
Gli eretici.
Autori e pertinaci propugnatori di dottrine religiose deviatrici dalla
rivelazione e dalle definizioni dogmatiche della Chiesa, i quali, dalle
primitive comunità di Gerusalemme (gli esseni), perseguirono e tormentarono i
progressi del genuino vero cristiano; essi, fra gl'indefiniti errori dovunque
rispuntati lungo il cammino di questo, misero capo, nel periodo che qui ci
riguarda, a due grandi sette, di origine ben anteriore al cristianesimo, le
quali venute a contatto storico con questo, mirarono a tramutarlo in un
razionalismo pseudo-religioso universale. Gli gnostici (sapienti
per eccellenza), partendosi dalle teorie cosmogoniche del più remoto e torbido
panteismo dell'oriente, cioè di un principio supremo da cui emana mediatamente
(per gradi gerarchici) tutto l'universo spirituale e materiale, più tardi
(secolo II d. Cr.), trasformandosi nella «gnosi cristiana» in Alessandria,
presumevano di spiegare con ciò il divenire anche delle religioni di più in più
elevate, delle quali il cristianesimo sarebbe stato l'ultimo termine assoluto
di questa evoluzione universale, dalla quale frattanto veniva distrutta la
creazione, umanizzata la divinità e, insieme alla negazione delle immutabili
verità sovrannaturali, alterata ogni giusta relazione fra il sensibile ed il
sovrasensibile. I manichei, i quali derivando le loro teoriche (sempre
intinte di panteismo) dall'altra dottrina orientale antichissima (dei persiani
zendici) ripresa da Manete (nel secolo II d. Cr.) di due eterni principi del
bene e del male che governano del pari ineluttabilmente il mondo,
sostituivano nel cristianesimo stesso alla responsabilità morale umana il
fatalismo che già stava al fondo di tutte le religioni pagane; manicheismo e
sue derivazioni, contro cui reagì il genio di Agostino nella seconda metà del
secolo costantiniano. Al di sopra di queste aberrazioni pseudo-religiose, si
aderge, negli stessi anni più vigorosi della vita di Costantino, la prima e
massima eresia propriamente cristiana, la quale, dal seno della Chiesa
medesima, si levava a colpire la pietra angolare del cristianesimo, il
Dio umanato; cioè quella di Ario intorno alla «natura del Verbo»; eresia la
quale mise in fiamme per quasi un secolo tutto l'oriente e parte
dell'occidente, trasferendosi poi, dopo la sua disfatta, dalle antiche nazioni
greco-latine alle nuove genti barbariche invaditrici dell'impero e provocando,
con l'esempio, quelle ulteriori eresie e quegli scismi che logorarono senza
intermissione i bizantini fino alla conquista turca nel 1453.
5.
Così veramente in questo oriente cristiano per oltre tre secoli, prendendo le
mosse dalla vita pubblica del divino Messia, lungo il periodo apostolico, in
breve ricollegato a quello dei primi apologeti e poi dei santi padri, tutto
quanto concerne la religione, la società e l'incivilimento era proceduto e si
effettuò frammezzo a multiformi, incessanti e turbinose lotte d'idee, le
quali, erompendo da que' focolari incessantemente accesi e alimentati dalle
dispettose delusioni di culti tramontati, dal ferito orgoglio di primati
filosofici contestati, dal criticismo audace e insofferente penetrato nel
santuario, scendevano in basso coi libri polemici, con le discussioni
pubbliche, con le concitate adunanze e deliberazioni solenni, a commovere tutte
le classi, dalle più illuminate nei centri di coltura, alle moltitudini nelle
città e nelle campagne fino ai solitari nei deserti.
Chi
dubitasse della efficacia quasi soggiogatrice che dovunque, ma in modo
particolare nelle regioni asiatiche, dispiegarono dall'antichità più remota
dottrine trascendenti e teorie speculative d'ogni natura, che all'origine de'
tempi s'immedesimano più che mai coi sistemi religiosi sopra intere
popolazioni numerose, informandone non solo la letteratura e il sentire, ma
gli ordini politici, sociali e famigliari, il diritto, il costume e il regime
economico, dovrebbe far getto delle risultanze di studi recenti meravigliosi
sulle grandi religioni storiche dell'oriente. E offuscate pur queste
dopo millenni nel loro mistico involucro luminoso, si dovrebbe del pari porre
in oblio il fascino che esercitarono colà per lunghi secoli ancora filosofi
riformatori quali Lao-Tze e Confucio (in Cina), ma più Zarathustra (in Persia)
e Budda (in India), fra il secolo VII e VI a. Cr., sulla vita morale e sulla
cultura di quegli Stati e popoli medesimi, i quali non rimasero estranei (come
vedemmo a proposito dei neo-platonici e degli gnostici) alle vicende
intellettuali e religiose degli stessi paesi divenuti parte del dominio
costantiniano e bizantino.
Se si
obbiettasse, poi, che tali influenze spirituali signoreggianti nell'Asia
centrale e nell'estremo oriente, penetrarono a fondo soltanto nelle caste
ieratiche e nelle classi superiori illuminate, trattandosi di religioni
esoteriche e di filosofie trascendenti inaccessibili alle moltitudini
inferiori, volte perciò a pratiche di culto e a sentimenti più materiali, è
debito richiamare che proprio l'opposto era seguito nell'Asia anteriore
bizantina e dovunque apparve il cristianesimo. Il quale, tutt'altro che riservare
le più sublimi verità religiose per privilegio a pochi iniziati più
eletti, al di sotto dei quali i volghi restano profani ai misteri della
divinità e della sua legge, esso, il cristianesimo (preceduto dall'ebraismo) ciò
che prima si sussurrava all'orecchio, predicò dai tetti, ossia annunziò
egualmente alle somme intelligenze ed alle moltitudini semplici ed ignare e a
queste, anzi, prima di quelle.
Sicché rimase d'allora in poi prerogativa delle popolazioni cristiane,
questa: di rendere partecipi tutte le classi, anche popolari, indistintamente
al tesoro delle verità sovrannaturali non solo, ma anche, in qualche modo e
misura, agl'indefiniti problemi dello spirito umano. Imperocché nel
cristianesimo, in cui la fede, la morale e le opere pei credenti si trovano
intimamente compenetrate fra loro nella medesima legge di suprema dipendenza da
Dio, il popolo stesso intuisce, col suo
buon senso e per esperienza, che la religione compendia in radice la soluzione
di tutte le questioni intellettuali, etiche e di condotta individuale e sociale
che si incalzano nella pratica della vita. Ed esso allora vi si interessa
attivamente col sentimento; ciò che in condizioni singolari di ambiente più
adatto, di tempra etnica più squisita, di più longeva educazione storica, di
fede viva e contrastata, sotto lo stimolo di urgenti realtà immediate, può
divenire abitudine, virtù, entusiasmo o passione e vizio generale.
Tale
era il caso (non lo si dimentichi) di questi paesi mediterranei, componenti la
parte orientale dell'impero, in cui si era diffuso il sangue, il genio, la
cultura della stirpe ellenica assimilatrice per eccellenza; paesi interposti
fra due civiltà dell'Asia orientale e dell'Europa occidentale, nei quali
pertanto, la religione del Cristo ivi primamente annunziata era
cresciuta fra l'intreccio e l'urto dei fattori più svariati ed opposti della
storia del genere umano, saturando dei propri elementi gli alti come gl'infimi
strati di quelle popolazioni.
Così
(a meglio raffigurare il fenomeno psicologico), i due capi estremi della catena
di questi conflitti d'idee per cui quelle storicamente trapassarono,
conflitti talora attraenti per esuberanza giovanile, tal 'altra ripugnanti per
senile marasma, potrebbero essere segnati da un lato, dal popolo ateniese
ciarliero e mordace che nell'agorà e nell'anfiteatro si agita e discute pro e
contro l'emancipazione femministica, per la proprietà privata o per il
comunismo nelle commedie di Aristofane; e da un altro dai bizantini che nelle
piazze, quando incombe l'ora fatale sulla città di Costantino, contendono fra
loro intorno alla interpretazione del «dogma della procedenza» sotto il fragore
delle armi di Maometto II.
Fra
queste due estreme date storiche si era dispiegata la serie di quegli
avvenimenti, ora riposti e insinuanti al fondo della vita privata e sociale,
ora fragorosi e cruenti per violenze pubbliche e di Stato, che da Augusto
all'età costantiniana avevano posto di fronte, l'un l'altro, paganesimo e
cristianesimo in forma di lotta fra due religioni; la quale però, nelle
regioni levantine dell'impero, per prevalenza di multiformi coefficienti
ideologici e psicologici, avrebbe quivi assunta più spiccata fisonomia di lotta
fra due civiltà, capace di travolgere in essa tutte le classi, anco le
popolari.
6. A cavaliere del secolo III e IV,
nell'approssimarsi della fine delle persecuzioni, la società cristiana usciva
da questi multiformi e stridenti attriti di credenze e di culture, aumentata,
rinsaldata, purificata. I cristiani, assommando i pazienti e sudati acquisti di
tre secoli, da Roma erano penetrati all'occidente nella Spagna, Gallia,
Britannia, nell'Africa settentrionale ed avevano quasi invaso le province
orientali, dalla Palestina abbracciando in un vasto emiciclo la Grecia, la
Tracia, l'Asia Minore, la Siria e l'Egitto, estendendosi ulteriormente
nell'Arabia e Mesopotamia. Nella parte orientale essi faceansi salire quasi al
terzo della popolazione, ma ciò che è più, ivi formarono anticipatamente grosse
e vivaci comunità in tutte le grandi città, in Antiochia, Efeso, Alessandria,
organizzandosi mercé la gerarchia ecclesiastica nelle diocesi illustrate da
uomini insigni per santità e dottrina, Alessandro, Origene, Serapione, Dionigi,
prima ancora di que' santi e giganti che comparvero nel grande concilio di
Nicea, istruendosi ed educandosi nelle scuole catechetiche e poi teologiche e
filosofiche aperte in Antiochia, Edessa, Alessandria, più tardi in
Costantinopoli, per fronteggiare le insidie della scienza pagana anticristiana
e schermendosi dalle mostruose calunnie popolari o dalle malignità del dotto
paganesimo o dai sofismi delle sette pseudoreligiose ed ereticali, mercé i
primi apologeti Aristide, Apollinare, Atenagora, Minucio Felice, precursori di
quei grandi atleti del dogma, della filosofia, della morale cristiana, quali
furono Clemente Alessandrino, san Cipriano, Tertulliano, sant'Agostino. Ma
soprattutto que' cristiani di oriente (emuli di quelli di occidente) si
affermavano alla luce del sole, al cospetto di una società scettica e degradata,
quali rappresentanti di un ordine sociale affatto nuovo, colla vita ascetica
schietta e virile, colla purezza del costume interiore e domestico, col
rispetto della donna, del fanciullo, dei deboli, con ogni opera di carità
privata e collettiva, colla fortezza del carattere dei martiri e degli eroi
dinanzi a quello Stato stesso che li perseguitava. Il cristianesimo aveva vinto
bene innanzi alla pace costantiniana, certamente in virtù del suo valore
sovrannaturale, religioso, ma ancora per quello morale e civile di tanto
superiore alla società circostante, ciò che faceva pronunciare, ad uno dei più
antichi apologeti, la sentenza universalmente riconosciuta: «ciò che è l'anima
nel corpo, sono i cristiani nel mondo» (Anon. Epist. a Diogneto).
Il
paganesimo, che al cessare delle persecuzioni contro i cristiani doveva
intonare il peana del vincitore, si trovò invece gittato all'estremo della
prostrazione, sicché, per una crisi psicologica profonda, si scorge mutare
direttiva di fronte alla religione rivale, sostituendo ai mezzi diretti e
violenti della repressione, quelli indiretti della penetrazione religiosa e
sociale insieme. Era una ripresa dei sentimenti angosciosi di scoraggiamento
già risalenti ai primi decenni dal deicidio sul Calvario, quando la distruzione
per opera di Tito del tempio di Gerusalemme, santuario del giudaismo,
coincidente, a pochi mesi di distanza, coll'incendio nel Campidoglio dei
santuari del gentilesimo, parve fatidico avvertimento che la scomparsa di
queste due rocche delle religioni antiche, comprese nell'impero, avrebbe
lasciato aperto il campo soltanto all'unica religione novella più universale e
duratura dell'impero stesso. E furono tali sensi di desolazione, i quali, ben
più che dalla concessione di Costantino, accresciuti dall'insuccesso della
riscossa di Giuliano l'Apostata, trassero i corifei di un programma di
rivendicazione pagana, ad intensificare e tesoreggiare le remote relazioni col moto
di idee irradiantisi dai tre fochi massimi, così perduranti e crescenti
nelle regioni orientali fino ai tempi costantiniani, per tentare una nobilitazione
del paganesimo nel suo culto tradizionale e nella sua missione civile e
politica e volgerlo così a menomare, se non a recidere, la vittoria del
cristianesimo.
Già
Filone ebreo, che, come fu accennato, dimostrava la identificazione della
religione colla stirpe d'Israele con argomenti panteistici, aveva servito a
ripresentare, di fronte alla universalità del cristianesimo, il concetto
generale di religioni etnico-nazionali. I sistemi gnostici e manichei, che
nella necessaria evoluzione universale (monistica o dualistica) additavano
travolte del pari dottrine religiose, scuole filosofiche, istituzioni private,
sociali, politiche, si fecero convergere a riabilitare quel panteismo di Stato
che immedesima società, religione e politica nei governanti, antica
caratteristica di tutto il mondo pagano fino a Cristo. E il neo-platonismo
degenerato, sotto i medesimi riflessi panteistici dell'oriente, ridestava
peggiorate le tradizioni dell'antica filosofia greca, specie di Pitagora e del divino
Platone, fondatore quello di comunità di vita speculativa, illustratore questo
(nella repubblica e nelle leggi) di un comunismo di beni, di uffici, di sessi,
di famiglia, con lo strascico di abominevoli costumi; tradizioni, le quali,
nell'atto che strappavano le radici dell'etica cristiana, rimettevano in onore
i viziati ordini sociali del paganesimo ellenico e romano. Di qui le novelle
forme comunistiche predicate da Apollonio di Tiana, neo-pitagorico nell'Asia
Minore e in Grecia al tempo di Nerone, e più tardi dai neo-platonici di
Alessandria, da Plotino, passato a Roma a tenervi cattedra, protetto da
Gallieno e da Porfirio Giamblico, favorito di Giuliano l'Apostata, ambedue
ispiratori delle ultime persecuzioni imperiali contro i cristiani. Tutto questo
battagliare di sottili disquisizioni, di propagande disoneste e di radicali
innovazioni, rinfocolavano gli eretici dai primi giorni del cristianesimo
all'età costantiniana. Riscontrasi criticamente da un lato, il nesso fra le
dottrine che di volta in volta gli eretici contrapposero alla verità cristiana
e lo spirito filosofico del tempo, e da un altro il concorso che essi spesso
apportarono a corrompere la morale e a sconvolgere le basi dell'ordine sociale-civile.
Gli ebioniti, cristiani-giudaizzanti della primitiva chiesa povera di
Gerusalemme, successivamente eterodossi (specie in Alessandria), fra
l'esaltazione del pauperismo egualitario e lo spregio arrogante dei possidenti
e delle classi superiori, caddero in un collettivismo più o meno larvato. I millenari
cristiani, discendenti da quelli ebraici e sognanti, nell'attesa
felicità del regno terrestre di Cristo, la piena fratellanza nell'uso dei beni
e nella innocenza della vita, dippoi a contatto degli ebioniti di Egitto più
che mai degenerati, inclinavano ad agognare con questi il pareggiamento di
dovizie materiali e di voluttà fino al libero amore. Ma nei secoli posteriori
(II e III fino al IV), per lo più sotto la invadente influenza degli gnostici
alleati ai neo-platonici, le sette moltiplicatesi (montanisti, adamiti,
apostolici, manichei) nelle loro tendenze economiche di comunismo, oscillano,
eticamente, dalla condanna del matrimonio al malthusianismo, alle pratiche
sessuali criminose ed alla poligamia. Anzi fra essi i carpocraziani, per
mezzo dei loro fondatori (Carpocrate alessandrino e il figlio Epifane, gnostici
monistici del secolo II), presentano il saggio di un sistema scientifico
sintetizzato nella formula «comunanza con uguaglianza» nel quale, con argomenti
razionali e positivi, si dimostra la iniqua genesi storica della proprietà e
della famiglia e si propugna in modo esplicito e concreto, come voluto dalla
«legge stessa di Dio», la duplice e piena comunanza economica e sessuale;
sistema che per molti aspetti si accosta alle dottrine odierne collettivistiche
di C. Marx e a quelle sulla donna di Bebel e che ebbe immediato seguito di
abominazioni nefande ripercosse, talora, presso posteriori eresie, protraendo
così le tristi reminiscenze ed abitudini della corruzione pagana anche in seno
a società cristiane.
7.
Tutto ciò decise non solo della grandezza, ma ancora dell'atteggiamento,
fra le parti contendenti di quella suprema tenzone, la quale, nel secolo di
Costantino, avrebbe risoluto le sorti definitive del paganesimo di fronte al
cristianesimo.
Trattasi dunque, per il primo rispetto della grandezza, del
fatto, al chiudersi del secolo III, di un ingente conflitto d'idee per
cui tutto era rimesso in questione: religione, Stato, cultura, morale,
famiglia, gerarchia sociale, moltitudini popolari, istituzioni civili, in forma
di crisi complessa di civiltà, nella quale tutti i coefficienti di essa,
per qualunque titolo estranei, avversi o fedifraghi al cristianesimo ed alle
sue ascensioni, si trovano piegati e sospinti verso il paganesimo; che dopo le
persecuzioni precipitava alla decadenza, per tentare di impedirne, con un
supremo sforzo comune, l'estrema mina. Vera lotta critica di civiltà
cristiana e pagana, la quale, prima e massimamente coinvolgendo tutta la
parte orientale dell'impero, aveva affaticato le energie di tutte le classi più
illuminate, da ogni parte scosse e ferite nelle proprie idealità, tradizioni e
aspettative, e trascinato in tumultuose concitazioni le moltitudini popolane nel
contrasto di credenze, costumi, passioni e d'illusorie cupidigie e che,
intensificandosi vieppiù nelle grosse città, ma tenendo il suo centro massimo
in Alessandria, cuore delle più svariate vicende del pensiero che la storia
ricordi, correva nei primi decenni del secolo IV verso lo stadio più acuto e
risolutivo.
Ma
nel secondo rispetto, dell'atteggiamento delle forze combattenti, il
paganesimo, che nel diuturno spettacolo di una fede generatrice di civiltà, la
quale ascendeva al suo culmine coll'esuberanza del vigore giovanile,
sperimentava i sintomi della decrepitezza di un culto che assisteva impotente
al dissolvimento di una civiltà moritura, si afferrò in queste regioni
orientali (ben più che nell'occidente) all'unica tavola di salvezza: quella di
un programma esso pure ideale di «sincretismo», cioè d'ibrida
conciliazione di dottrine ed istituzioni fra loro repugnanti. E mentre Simmaco,
prefetto di Roma, con un resto di dignità latina, nel celebre discorso per la
conservazione nel senato della statua della Vittoria, ultimo simbolo della
potenza e sapienza romana, sostiene e propone all'imperatore il pareggiamento nella
rispettiva libertà dei culti, pagano e cristiano, nelle sedi orientali
invece i retori ellenico-bizantini, per bocca di Libanio, annunziano che è
degno della divinità che ad essa gli uomini pervengano per vie di culti
diversi, che il monoteismo cristiano è compatibile col politeismo pagano, che
sull'esempio degli stoici il paganesimo è capace di sorreggere costumi virilmente
casti e che l'autorità dell'imperatore, anche cristiano, può, senza
contraddizione, serbare l'antica dignità di pontifex maximus nei
sacrifizi dei templi pagani. Sincretismo di dottrina e pratiche
contraddittorie che, in quest'oriente imperiale ove i progressi del
cristianesimo promettevano sicura vittoria nel secolo novello, fu pericolo
insidioso per la società cristiana più che tutte le battaglie di sangue e di
pensiero finora sostenute; sicché alla fine del quattrocento, dopo la libertà
costantiniana alla Chiesa e i trionfi di questa, le prime e più elette schiere
cristiane si trovarono bensì aumentate in numero, ma già adulterate da
equivoche conversioni, da innesti di fede e di superstizioni, da troppi uomini
cristiani per credenza ma pagani di costumi, oscurando le previsioni del più
lontano avvenire della Chiesa.
Tale
era l'ambiente reale e psicologico in mezzo al quale veniva a promulgarsi
l'editto di libertà da Costantino concessa alla Chiesa. La quale pertanto,
aveva così integrato per l'indomani quel programma di religione e di civiltà
insieme che rimase glorioso nella storia. Essa, nella pienezza della sua
azione indipendente, non avrebbe ormai soltanto raffermato il dogma
cristiano colle sue autorevoli definizioni e saturato della sua divina morale
tutte le istituzioni private e pubbliche della società, ma assimilate a sé
stessa tutte le sane e legittime tradizioni della civiltà latino-ellenica, per
consacrarle nell'unità del Cristo immortale.
IV
L'editto del 313 per parte dell'imperatore
Costantino dichiaratosi cristiano, veniva a coincidere col momento più acuto di
quelle condizioni storicocivili di ambiente testè delineate. Né ciò soltanto
nei riguardi politici, sociali, economici, ma più in quelli psicologici. La
società pagana, già esaurita dalle guerre intestine fra gli emuli poliarchi e le cruente
persecuzioni anticristiane, in preda ad un marasma di sette pseudo-religiose,
di scuole filosofiche, di passioni popolari che aveano toccato il massimo
d'irritazione e di scoraggiamento, invocava un atto autoritario che desse
almeno una tregua alle scissure letali ed alle fosche previsioni dell'impero
vacillante. E la società cristiana, che fra quelle battaglie di sangue e di
pensiero aveva guadagnato coscienza del proprio diritto e di vittoria certa,
era pronta ad accettare una «parola di pace» che le permettesse «di
raccogliere, in un istante di gaudio, quanto avea seminato in tre secoli di
lacrime». Così anco l'avvenimento della «libertà della Chiesa» compievasi nella
pienezza del tempo suo! Ed ora se ne può compendiare gli effetti.
Ciò
peraltro non senza un avvertimento. I risultati dell'editto per la pace e la
libertà cristiana non potevano rendersi palesi e sensibili immediatamente
all'universale. Dopo il 313, data del documento di Milano, Costantino si trovò
assorbito dalle imprese perigliose contro i Cesari Massimino e Licinio,
pertinaci nel resistere a lui e perseguitare i cristiani a protesta del suo
programma unificatore e pacificatore dell'impero: ciò che non poté compiere che
con la vittoria di Adrianopoli nel 323; come più tardi i successori del novello
Angusto dovettero attendere il dileguarsi della effimera ma insidiosa reazione
pagana di Giuliano l'Apostata (m. 363) per riprendere l'opera cristianizzatrice
dello Stato che raggiunse il suo culmine con Teodosio il Grande (m. 395) e con
la raccolta delle leggi degl'imperatori cristiani (codice teodosiano, 438)
sotto Teodosio II.
Ma
più di tali fatti politici e giuridici, occorrevano altre circostanze sociali
propizie a sperimentare l'importanza e l'efficacia della concessa libertà alla
Chiesa al cospetto universale, ed a coinvolgere nei risultati di essa la
coscienza d'intere popolazioni, concordi nel difenderli come altrettante conquiste
della novella civiltà.
Non
mancarono occasioni storiche solenni a far risplendere nelle menti e scolpire
negli animi la novità e la grandezza dell'atto costantiniano di libertà, e
queste si levarono dal seno stesso della Chiesa, combattente per la integrità
della fede contro le eresie e innanzi a tutte per tempo e gravità quella di
Ario; la quale fu il primo e massimo tentativo (prodotto dalle idee gnostiche,
neo-platoniche e giudaiche) di menomare il carattere sovrannaturale del
cristianesimo nella persona del Verbo, eresia che commosse e sconvolse tutto il
secolo di Costantino. Il quale in questo momento decisivo, fedele a ciò che
aveva proclamato con le leggi, «aver diritto la Chiesa, nella sua missione
dogmatica, di regolarsi per immediata divina autorità da sé medesima
all'infuori di ogni ingerenza di Stato», favorì con zelo di neofita, con la
maestà del rinnovato imperio, e con ogni aiuto pubblico, la convocazione del
primo concilio ecumenico di Nicea nel 325.
Non
mai (così fu scritto con verità), anche nei riguardi della storia civile,
spettacolo più sorprendente per il passato né più ricco di espressione per
l'avvenire, di questo concilio, nel quale ben 318 vescovi di ogni nazione e
parte del mondo cristiano, già additati agli altissimi uffici ecclesiastici
(come era il modo allora frequente di elezione) dalla moltitudine stessa dei
fedeli con riguardo soltanto alla virtù ed al sapere, uomini di santità, taluni
dei quali portavano ancor sulle membra impresse le stigmate delle patite persecuzioni,
si trovarono raccolti nella unità col pontefice di Roma per definire con
autorità infallibile, fra la trepida aspettativa di tutti i fedeli e degli
stessi avversari, «che cosa si debba credere e come si debba operare per
mantenere integre le verità e le leggi morali divinamente rivelate».
La
Chiesa docente, in quella assemblea da cui uscì il «Credo» niceno, pronunciò le
sue definizioni; ma ben può dirsi anche dal sociologo, che per la solennità di
quelle discussioni e sentenze, in nessun altro momento della storia come in
questo, la fede e la morale si affermarono siccome il tesoro massimo e
l'interesse supremo non solo delle anime, ma dell'umanità.
Né
tardò che tale significato sublime e tal valore inestimabile del sovrannaturale
cristiano trovasse l'assenso pieno, sentito, larghissimo delle popolazioni,
aggiungendovi per così dire un suggello sociale.
È
noto che la vittoria di quel concilio fu breve e che attraverso mille
circuizioni retoriche ed insidie pratiche (che già contrassegnavano lo spirito
bizantino) l'arianesimo riprese un proselitismo, ora capzioso che salendo fino
alla corte impigliò lo stesso Costantino, ora violento e turbinoso da
minacciare la stessa unità del mondo cristiano e dell'impero.
Ma
dopochè il grande Atanasio, che aveva assistito alle adunanze di Nicea in
qualità di diacono del patriarca di Alessandria e che poi ne divenne il
successore recando sulla cattedra episcopale l'anima inflessibile di un
Gregorio VII, riprese in sua mano la riscossa per la integrità del Credo
niceno, per l'ossequio della gerarchia ecclesiastica fino al pontificato e
per la indipendenza della Chiesa cattolica di fronte all'impero stesso
cristiano, fu egli che, in una serie di battaglie titaniche, per quasi mezzo
secolo (328373) da lui personalmente sostenute e guidate con multiforme e
infaticata energia di pensiero, di parola, di scritti, di opere prudenti,
ardimentose, pertinaci, entro il suo episcopio, alle soglie della corte, nei
recessi degli eremiti, fra i convegni sacerdotali, in mezzo alle popolazioni
esagitate, attraverso i suoi viaggi in Egitto, in Levante, a Costantinopoli, in
tutta Europa, e dal fondo dei suoi cinque esigli e prima di quello di Treviri
in Germania dove, vittima di calunnie, l'aveva primamente confinato Costantino
medesimo, e infine da Roma stessa al centro del pontificato, fu egli,
ripetiamo, che acclamato popolarmente «padre dell'ortodossia», apparve come il
precursore, il testimonio, il rappresentante e vindice della coscienza
cattolica del tempo suo!
In
tal modo Atanasio segna il momento decisivo nella storia, nel quale trapassò e
si impresse nelle popolazioni il convincimento del valore sociale del
cattolicismo.
Episodio veramente decisivo, questa lotta epica contro l'arianesimo (e
le altre eresie concomitanti e derivate dei nestoriani, monofisiti, ecc.), eco
possente e conseguenza necessaria del concilio niceno, protrattasi con le sue
vibrazioni dal terzo decennio del secolo IV fin verso la metà del secolo V;
nella quale la figura gigantesca di Atanasio (m. 373) si trovò accompagnata e
l'opera sua proseguita da colossi pari a lui, Osio di Cordova (m. 358), il
rappresentante di Costantino a Nicea e l'assertore del primato pontificio ad
Efeso, Gregorio di Nazianzo (m. 389), Gregorio Nisseno (m. 395), Giovanni
Crisostomo (m. 404), Cirillo di Alessandria (m. 444) nell'oriente, Ilario di
Poitiers nella Gallia (m. 368), Ambrogio dalla Germania in Lombardia e in tutta
Italia (m. 397), Girolamo nell'Illirio, Lazio e Palestina (m. 420), Agostino
nell'Africa (m. 430); lotta storica che coinvolse le sorti politiche dei
costantiniani e, attraverso la persecuzione di Giuliano l'Apostata, signoreggiò
gl'imperatori del ciclo teodosiano da Teodosio il Grande (m. 395) e i suoi
figli Onorio ed Arcadio, fino a Valentiniano III (m. 455) in occidente, ed a
Teodosio II (m. 450) in oriente; lotta infine incruenta ma feconda d'immensi
frutti religiosi, per cui i popoli di tre continenti «che in quelle battaglie
aveano appreso il linguaggio e lo spirito della teologia cattolica sì da
intuire gli errori insidiosi della eresia», riuscirono ad assimilarsi nella
fermezza e nell'entusiasmo per la fede, mentre in Roma i pontefici, moderatori sereni e forti di quelle tenzoni,
da Silvestro (m. 335) a Liberio (m. 368), a Damaso (m. 384), fino a Leone I
Magno (m. 461), venivano ad estollersi nella comune venerazione, siccome
custodi dell'eterna verità e centro di una misteriosa potenza unificatrice.
Ora
soltanto all'uscire da queste prove terribili e gloriose, è dato di riconoscere
ed estimare gli effetti sociali dell'editto costantiniano di libertà cristiana.
A cavaliere, infatti, dei secoli IV e V, in seno alle popolazioni, massimamente
delle regioni orientali dell'impero, si trovano deposti i sommi principi,
sbocciate le istituzioni essenziali, tracciate le linee maestre dell' ordine e
del progresso cristiano, che formano ancora il fondamento e la matrice della
civiltà moderna; e ciò parecchi secoli innanzi a Carlo Magno, dal quale si fa
per lo più derivare l'inizio della civiltà medievale in occidente. Di tali
risultanze civili ora si può procedere ad una rapida enumerazione non senza
avvertire che esse criticamente non debbonsi chiamare effetto dell'editto
Costantiniano (del 313 a Milano, ripubblicato a Nicomedia 323), quasi questo ne
fosse l'immediato generatore, bensì nel senso che la libertà, legalmente
concessa allora alla Chiesa cattolica, permise di disvelare apertamente
quanto questa aveva già operato per virtù propria a pro del rinnovamento civile
nei tre secoli anteriori di sua esistenza, e quanto essa prometteva di
compiere allo stesso intento nell'avvenire, sotto l'azione di leggi cristiane.
GLI
EFFETTI RELIGIOSI. - Non senza grande significato si rileva come i primi e più
solenni effetti dell' editto di Costantino si ripercossero sulla estimazione
della religione, in specie dopo il concilio di Nicea e la vittoria
sull'arianesimo che si annunziava scomparso dai confini dell'impero verso la
fine del 400, salvo a trasmigrare per poco fra le genti barbariche.
Non
mai forse come ora, la fede si aderse così sublime nelle menti e nei
cuori delle umane generazioni e risplendette anche esteriormente con tutto il
fulgore di un fatto sovrannaturale. In queste regioni orientali specialmente,
in cui incombevano ancora le millenarie reminiscenze di trascendenti teogonie
indefinitamente evolutive di religioni esoteriche sottratte ai volghi profani,
di culti spesso feroci e abominevoli, e dove sopravviveva tuttora,
nell'amalgama di tutti i miti, la religione politica del paganesimo romano
nella sua vacuità dottrinale e nelle sue pratiche superstiziose; nozioni e
forme religiose, in cui si sente dovunque l'uomo con le sue aberrazioni
ideologiche e con le sue passioni brutali; la rivelazione cristiana positiva
quale veniva, per così dire scolpita e cesellata nella vigorosa sua formula e
significazione nel Credo niceno, pazientemente definito e raffermato fra
le meditazioni, le discussioni, le lacrime, le lotte di tanti vescovi e
ministri, santi e dotti della Chiesa, sanzionato nella sua infallibilità dal
supremo pontefice, e proposto all'adesione universale dei fedeli, agl'istruiti
ed ai semplici, al sacerdozio ed ai fedeli, ai presenti ed ai futuri, siccome
un sistema di verità altissime, immutabili, di cui niuno può alterare o revocare
in dubbio un apice soltanto, questa fede, ripetiamo, ora nelle definizioni
enunciate e ribadite nei concili così frequenti in oriente, si profferiva
pubblicamente col suggello autentico ed abbagliante di un fatto di origine ed
autorità divina, destinato ad illuminare tutti gli uomini in ogni tempo e
luogo.
Fatto
ammirando codesto della fede in tale sua rivelazione, la cui meraviglia cresce
per le simultanee grandiose affermazioni della morale. Nuovo contrasto
qui pure. Mentre nell'antico paganesimo i dettami della morale si risolvono o
in precetti minatori di divinità crudeli e vendicative, o in vaghe norme di
benevolenza reciproca utilitaria, ovvero, nel politeismo classico, in poche
consuetudini d'incosciente onestà tradizionale, compromessa dagli esempi stessi
di deità mitiche scandalose, in questo oriente l'etica cristiana, fin
dall'origine congiunta alla fede, diviene in breve l'oggetto di un'attività
(intellettiva e pratica) fervida, intensa, continuata, nelle predicazioni degli
apostoli e missionari, negli scritti polemici dei santi padri, nelle omelie dei
vescovi, nelle sentenze dei tribunali ecclesiastici, nelle definizioni e
discipline di concili e sinodi, dando frattanto all'etica evangelica
illustrazioni sublimi, efficacia profonda, applicazioni multiformi! E allora
s'alzano voci concordi e poderose ad intimare al mondo vile e corrotto che la
morale di Cristo è, come la fede, di origine divina nei suoi principi
immutabili, generatrice alla sua volta di un diritto di natura che anticipa e sopravanza
quello positivo degli Stati: età e morale positiva e operativa per eccellenza
che regge tutta l'attività interiore ed esteriore dell'uomo in ogni vicenda
della sua esistenza e che domina tutto ciò che è umano indistintamente,
individui, classi, clero, laicato, istituzioni, società e Stato, non piegando
nemmeno davanti agli arbitri dei governanti o alla spada dell'imperatore.
Ma vi
ha ancora una manifestazione concomitante più sensibile e perspicua: quella
della Chiesa. Se nell'occidente la divina costituzione di essa procedeva cauta
nella sua estrinsecazione all’ombra delle catacombe e fra gl'infesti istituti
pagani, nelle regioni orientali, con passo più alacre e palese nei secoli
anteriori a Costantino, si svolge con le forme mature di una società non solo
interiore di anime, ma esteriore di un organismo gerarchico, vasto e
complesso, ed essa vi dispiega, con autorità riverita, la triplice missione
divinamente affidatale: d'interpretare il dogma, di custodire e applicare la
morale, di guidare gli umani in tutte le contingenze della vita ai pascoli
eterni. Insuperabile costituzione della Chiesa cattolica la quale (a rovescio
dell'antico paganesimo col suo assorbimento di ordini religiosi e politici),
sorta per virtù propria al di fuori dell'organismo dello Stato romano e
grandeggiata dapprima nel levante ellenico-latino ad Antiochia, Alessandria,
Bisanzio, ove per tre secoli si inframmise con sapienza benefattrice ai
problemi, dolori, conflitti di quelle popolazioni, già dispiega le sue tende
ben oltre i confini di tutti gli Stati, per dirigere dovunque, con mano amorosa
e robusta, l'opera di redenzione religiosa e di civile rinnovamento!
Il
mondo pagano non avea sospettato nulla di simile e se ne atterri come di
annuncio ferale, mentre la cristianità, per bocca di Gregorio Nisseno, di papa
Liberio e del poeta Prudenzio nella età costantiniana, intonò l'inno della
vittoria.
Questi
fatti non offrono soltanto un argomento apologetico in favore della verità
assoluta della religione novella, bensì ancora una espressione sociologica!
Certo
è che da quei fatti, dimostrazione luminosa di quella «verità che tanto ci
sublima» si leva e risplende un concetto comprensivo che signoreggia il
secolo di Costantino e di Teodosio per non tramontare mai più: quello del valore
sociale del cristianesimo, impersonato e vivente nella Chiesa. E una prima
forma della coscienza pubblica cristiana che in quella fede, la quale
coinvolge ed innalza il pensiero, il sentire, ogni attività dell'uomo fino al
sovrannaturale, addita ancora la fonte del massimo bene della società, sicché,
accolta e rispettata, genera l'ordine e la perfezione civile, respinta e
violata, apporta il disordine e la ruina della società e, di riflesso, dello
Stato.
Anzi
questo sommo concetto sociale che aleggia primamente sulle popolazioni
cristiane dell'oriente imperiale, si scorge simultaneamente spezzato come il
pane di vita in altre grandi idee analitiche le quali vieppiù scolpiscono
l'importanza sociale del cristianesimo: Dio è causa prima e termine ultimo
dell'uomo, e quindi anche l'esistenza e la vita umanosociale, nel suo ordine
naturale terreno, è quaggiù collegata all'ordine sovrannaturale ed eterno;
tutti i rapporti umani (libertà personale, matrimonio, famiglia, lavoro,
proprietà) da cui risulta la società, sottostanno alla legge etico-religiosa
avvalorata dal diritto; per essa la società, ente morale, è la base dello
Stato, e questo non fa che completarla coi suoi mezzi esteriori
giuridico-civili; e tale ordine umano sociale, che trova positiva e compiuta
attuazione nel cristianesimo rappresentato dalla Chiesa cattolica, è destinato
a promuovere una civiltà indefinitivamente perfettibile, la quale si
contrassegna dalla progressiva elevazione spirituale, dalla potenza unificatrice,
dalla espansione universale.
Tali
grandi idee sociali, che è convenuto dagli studiosi comporre i capisaldi
della sociologia del medioevo ripresa dalle scuole moderne, spuntano e
balenano da ogni parte della società orientale nei tre primi secoli
cristiani, propugnate e difese vigorosamente dalle sentenze di autorità
solenni, dalle menti sovrane di filosofi e polemisti, dal consenso pratico
delle moltitudini, fra le esperienze quotidiane di quella vita di combattimento
e trasformazione. Sicché deve affermarsi che le somme dottrine sociali
cristiane, che stanno ancor alla radice della cultura occidentale, si
costituirono primamente nell'età costantiniana. Esse anzi vi formavano la coscienza
psicologica della popolazione, provocandone e dirigendone le energie; mirabile
saggio di un ordine di idee che reggeva l'ordine dei fatti in quell'alba di
civiltà rinnovatrice. Gli scritti dei padri orientali e l'eco dei popoli in
quel periodo ne sono prova luminosa. Tutti i critici di questa letteratura
riconoscono che la struttura delle teorie sociali si può allora ricondurre alla
formula: la terra guardata dal cielo; ecco la spiritualità
trionfatrice dell'ordine novello! Il celebre motto popolare che risonava nel
medio evo nei giorni delle grandi imprese comuni: «un solo Dio, un solo papa,
un solo imperatore»), sgorgò originariamente dal seno delle nazioni
ellenico-orientali; ecco l'unità coordinatrice della società rinascente.
Né erano soltanto teologi e filosofi che nel ricostituito impero vastissimo
degli antichi Augusti additassero il simbolo delle conquiste di Cristo sul
mondo, ma i barbari, orgogliosi di difendere con le armi la eredità crollante
di Costantino, e le plebi, contente di morire per i suoi imbelli successori,
testimoniano il senso fatidico dell'universalità che si perpetua
nell'incivilimento cristiano. Quel fascio di luce religiosa si era tramutato in
calore di vita sociale.
Quello stesso atto legale di «libertà al cristianesimo» che onora
Costantino e scolpì la suprema differenza fra gli ordinamenti antichi e nuovi,
come avvertimmo a proposito del panteismo di Stato nel paganesimo, ritrae da
quella luce superna le più alte giustificazioni ideali.
A
quest'età costantiniana spetterà sempre la gloria di aver posto i criteri
fondamentali delle «relazioni normali fra Chiesa e Stato cristiano». Esse
poggiano notoriamente sopra tre cardini: la distinzione (non separazione) fra Chiesa
e Stato, siccome due società di origine, natura, fini diversi; l'indipendenza
di ambedue questi enti nella costituzione e nell'esercizio delle proprie
funzioni in corrispondenza al loro fine rispettivo, per l'uno religioso,
la salvezza delle anime nel mondo celeste, per l'altro civile, la sicurezza
(giuridica) ed il benessere (il bonum commune) dei cittadini nel mondo
esterno terreno; il coordinamento delle rispettive energie e funzioni
nella loro cospirazione gerarchica, per cui il bene ultimo e religioso
conferisce al bene prossimo ed inferiore civile e viceversa; in pro del
cammino storico della umanità ai suoi destini naturali e soprannaturali che noi
chiamiamo incivilimento.
Orbene: queste originali ed altissime nozioni direttive, che avrebbero
innovato gl'istituti più intimi della vita individuale e collettiva, quali la
vera libertà di coscienza e di culto, l'eguaglianza degli uomini
nella società etico-universale, ben più vasta degli Stati, l'estensione
e i limiti dei poteri dello Stato medesimo, non sgorgano tutte dal concetto
dell'ordine soprannaturale divino, dell'eccellenza di questo sopra l'ordine
naturale umano, della sua efficacia sul perfezionamento umano e della civiltà;
cioè non discendono da principi religiosi? In particolare la visione chiara e
convinta del valor sociale del cristianesimo per la stabilità
dell'ordine nello Stato e per il progresso dell'incivilimento nella società,
scorgesi aver posto, fin dai tempi costantiniani, anche il criterio
dell'intervento dello Stato nelle manifestazioni esterne (corrette o meno)
della vita religiosa delle popolazioni; criterio che è dato dal bonum
commune dei cittadini e che è in gran parte relativo. Quando il
paganesimo manteneva, nel sentire tradizionale delle popolazioni, vaste radici,
Costantino concede al crescente cristianesimo eguale libertà di culto a questo
come a quello; e, convinto cristiano, serba il titolo (non l'ufficio) di pontifex
maximus dinanzi ai pagani per la unità e la pace dei cittadini. Quando più
tardi la coscienza pubblica, fra il rapido progresso del cristianesimo e dei
suoi benefici, provoca in oriente il frequente atterramento, per impeto di
popolo, dei disertati templi pagani, Teodosio I ne ordina la generale chiusura
«siccome focolari di superstizione» indegna di popoli di più alta civiltà,
curandone tuttavia in occidente la conservazione per rispetto dell'arte.
Similmente gli eretici, lungamente tollerati nelle grandi scuole, nelle
assemblee pubbliche, nella stessa corte imperiale, si respingono e imperano con
mezzi coercitivi di Stato, quando risultano corruttori del costume, propagatori
di teorie sovversive, minaccia all'unità dell'impero. Il bonum commune
appare così il titolo prevalente e il limite dell'azione statale
nelle controversie religiose.
Quegli alti criteri e queste ardue applicazioni nel campo
politico-religioso faranno luogo sovente a procedimenti empirici ed a
violazioni d'ogni forma, cominciando da Costantino fino ai despoti successori
di Bisanzio. Ma è giustizia storica ricordare che l'esempio solenne di
concordia nel fissare i principi nelle relazioni normali fra i due
grandi enti, e d'invitta franchezza nel sostenerli, partì primamente da
teologi, controversisti, soprattutto da vescovi ammiranti, auspici i pontefici,
di questo oriente cristiano fin dal tempo costantiniano. Merito eccelso e
incontestabile in specie nell'affermare il diritto della Chiesa alla propria
libertà nell'esercizio della propria missione religiosa, e il dovere dello
Stato di non immischiarvisi e di rimuovere ogni ostacolo al pieno adempimento
di essa. Già durante la vita di Costantino, che si era intitolato episcopus
externus della Chiesa e: dinanzi al suo vacillare in faccia all’arianesimo
ed ai donatisti, non furono soltanto Atanasio di Alessandria e Giovanni
Crisostomo di Costantinopoli i grandi difensori della libertà episcopale
davanti alla schiavitù dorata dello Stato, ed il martello del servilismo
d'altri vescovi; ma Osio di Cordova, che aveva rappresentato Costantino a
Nicea, più tardi, all'imperatore Costanzo invadente ed oppressore, non si
peritava d'indirizzare questa intimazione: «Ricordati di essere mortale e temi
il giudizio finale che se Dio ti dette l'imperio, a noi affidò le cose
ecclesiastiche; e pertanto guardati di mandare a noi i tuoi comandi in
siffatte materie, ma bensì li impara e li ricevi da noi!...». E papa
Liberio, quegli che aveva approvato le definizioni di Nicea, essendo egli
stesso da Costanzo esiliato da Roma sostituendogli un antipapa perché non volle
riconoscere la condanna imperiale contro Atanasio, con linguaggio degno dei
titanici lottatori papali del medioevo gli risponde: «Non sarà mai che noi condanniamo
tal uno di cui noi non abbiamo fatto la causa, anche se tutto il mondo lo
condannasse. Dio mi è testimonio che io conculco tutte le cose per la fede del
mio Dio, come vuole l'insegnamento evangelico ed apostolico..., né sopporterò
che alcunché venga sovrapposto o diminuito alla sede episcopale di Roma». E
dopo che Agostino, d'accordo con Ambrogio di Milano, avrà pronunciato che uno
Stato deve essere retto dalla giustizia, senza di che esso è un immane
brigantaggio, e che vi ha una morale cui devono inchinarsi anche i re perché
divina, si comprenderà come siffatti vescovi potessero a Teodosio il Grande,
che pur assunse il cristianesimo a religione di Stato, chiudere in faccia le
porte di loro chiese dopo la strage di Tessalonica, finché non avesse fatta
penitenza dei propri falli.
D'ora
innanzi la Chiesa d'oriente avrà a soffrire più d'una ipocrita protezione che
di una negata libertà; ma frattanto questi dettami ed esempi che prima si
levarono dal seno di essa, rimasero benemerenze e moniti inestimabili per
l'ordine pubblico e la pace sociale nei più tardi secoli della civiltà
cristiana.
EFFETTI SCIENTIFICI. - Tanta luce di fede «che vien dal sereno che mai
non si turba» così anticipatamente e largamente profusa nei paesi orientali
dell'impero, poteva riuscire inefficace nel dominio della ragione scientifica
cristiana, laddove nel cozzo delle più strane e degenerate sètte filosofiche e
fra lo scetticismo più ributtante, si consumava l'agonia della cultura classica
antica? Non può sfuggire il fatto solenne che quivi propriamente spuntò da
radici vigorose e possenti anche l'albero fecondo della enciclopedia delle
scienze morali, o, come altri scrisse, psicologiche o spirituali
(«Geistwissenschaften»), in piena corrispondenza con l'ambiente storico di
multiformi lotte di pensiero.
Sì: i
santi padri e la pleiade di studiosi che li accompagnavano, erano di preferenza
dei teologi e dei moralisti che polemizzavano con gli eretici pervicaci e
tuonavano contro il costume pagano perdurante. Ma insieme si rammenti (ciò che
la storia della letteratura scientifica ha oggi assodato) che sotto la veste di
sant'Atanasio, di san Basilio il Grande, di Gregorio Nazianzeno, di Giovanni
Crisostomo e dei loro continuatori e discepoli Giustino, Clemente Alessandrino,
Origene, in oriente si fonda e cresce la filosofia considerata veramente
come madre di tutte le scienze; che quivi dissertando sulla giustizia, la
carità, l'onestà del costume, essi medesimi, i santi padri orientali, ponevano
le pietre miliari della sociologia moderna, rivendicando la dignità della
persona umana, l'integrità del matrimonio e della famiglia, i doveri della
ricchezza, l'armonia delle classi, l'abolizione della schiavitù, il sollievo
delle moltitudini popolari e sofferenti; che, quivi, per merito di Eusebio, di
Lattanzio, di Cirillo di Alessandria, di Teodoreto, si posero i capisaldi della
filosofia della storia che poi avrebbero ripreso e tradotto a sistema Orosio,
sant'Agostino, Salviano; e che quivi, non lontano dai luoghi ove si scrissero
gli atti degli apostoli e delle città ove si alternarono così frequenti e
fecondi concili provinciali od ecumenici, si moltiplicarono ed elaborarono i
materiali del futuro diritto canonico il quale poi, per l'intimità in
quei tempi col diritto civile, tanta parte avrebbe avuto sul progresso delle
dottrine giuridiche. Né si dimentichi che, come la fede operosa di questi santi
e scrittori, così era operativa e pratica anche la loro scienza, divenendo un
potente mezzo e una guida efficace alle riforme sociali civili del tempo e di
quelle avvenire. E Costantino, il quale di tale scienza e di tali dotti;
assunti a consiglieri, si valse, fu, anche per tale rispetto, uno strumento di
civiltà.
EFFETTI SOCIALI. - Chiunque fissi l'occhio a questo fascio
di dottrine religiose, morali, scientifiche, che si era innalzato dinanzi alle
popolazioni dei primi secoli del cristianesimo, è costretto a confessare che
questo aveva creato un mondo ideale che avrebbe rigenerato e sostituito
quello reale del paganesimo.
Sotto
quel fascio di luce e di calore fervevano i germi di un ordine nuovo sociale,
le cui linee maestre venivano a delinearsi maestose lungo l'età costantiniana
per l'azione della Chiesa, che ora scende alacre al suo meriggio, quasi cinque
secoli prima del mille, in cui l'occidente cristiano ancora versava nel
crepuscolo di un fosco mattino. Ed è propriamente in quelle regioni dell'impero
che dall'Europa bizantina rigirano per l'Asia minore e la Palestina fino
all'Africa settentrionale, che le testimonianze di tale rigenerazione si
moltiplicano e si impongono.
E
tale palingenesi dapprima si afferma e palesa nel rinnovamento dell'uomo.
E
tale rinnovamento dapprima si afferma e risplende nell’uomo, la cui
individualità si ritempra nella coscienza della propria dignità, nella
indipendenza del carattere, nell'adempimento del dovere. E a dimostrare che il
ganglio motore di tale trasformazione derivava dall'alto, e appunto in mezzo a
queste popolazioni di triste fama tradizionale, di infido pensiero e di fiacco
sentire, si adergano da ogni parte prototipi di vescovi e sacerdoti di una fede
provata dalle più aspre battaglie del ferro persecutore, dagli arbitri
imperiali, dalle subdole contraddizioni di conciliaboli; di una santità
specchiata, persecutrice inesorata di ogni corruzione e viltà fra gli stessi
cristiani, dal clero cortigiano al patrizio paganizzante, alle moltitudini
grossolane, senza distinzione; i quali offrono lo spettacolo non più visto di
un apostolato non solo religioso ma anche sociale, che con una operosità
inesauribile si estende coi viaggi a più nazioni, che abbraccia per oggetto ben
oltre la pietà, gl'interessi morali, civili, economici di ogni classe, dai
familiari della corte all'infimo popolano, memori del monito dei concili
che il ministro di Dio deve essere pater omnium. Ammaestramenti
confermati dall'esempio, che trapassano nei fedeli la cui dignità personale
fanno consistere nell'adempimento del dovere sorretta dalla libertà dei figli
di Dio e dalla carità universale, che forma la fortezza del carattere secondo
l'intimazione di Tertulliano: «Ricordati o cristiano che tu appartieni a Dio, e
che dinanzi alla minacciata violazione della coscienza, tu hai imparato a
vivere e morire non per te ma per Dio e per il genere umano»; fortezza
cristiana che faceva scrivere al dotto Didimo: «Piuttosto che piegare all'umane
leggi inique, conviene sfidare la morte»; e che moltiplicava da ogni grado
sociale i martiri, più numerosi in oriente che nell'impero occidentale.
Né
questa mobilitazione della umana personalità si restringeva al sesso maschile,
ma si accomunava alle donne. Né ciò soltanto per l'eroismo del martirio o per
il profumo della pietà fino alla perfezione nelle vergini, spose e madri
cristiane, o per lo zelo del culto, cominciando da sant'Elena presso il trono
di Costantino e in tutti i luoghi santi, o per l'esercizio della carità nelle
più ampie proporzioni, come Melania nell'affrancazione ed educazione degli
schiavi delle province d'Africa; ma ancora per la più eletta cultura per cui,
alla scuola di s. Girolamo in oriente ed in Roma, Paola, Albina, Marcella, si
addestrano ai segreti delle scienze teologiche e bibliche ed agli esercizi
letterari e linguistici.
Questo interiore rinnovamento dell'umana individualità si integra e
tramuta in un beneficio dell'ordine sociale, mercé le anticipate norme e
discipline che l'autorità ecclesiastica, i concili, le istruzioni dei teologi e
moralisti, nell'oriente cristiano, dettero massimamente e precocemente in
ordine al matrimonio, alla procreazione, alla famiglia, come intimamente
connesse con la dottrina e la morale evangelica. Ivi il celibato ebbe le
prime sue illustrazioni di preminente perfezione cristiana negli encomi di
santi padri ed apologeti; ivi i primi saggi organizzati nell'istituto delle
diaconesse, origine degli ordini contemplativi femminili; ivi le prime norme
precettive per il celibato del clero; tutto ciò propugnato con tale
sollecitudine e zelo che parve esaltazione, e fu rimproverato di aver
compromesso l'incremento delle popolazioni, specie dacché quella propaganda si
accoppiò alla chiesta ed ottenuta revocazione delle leggi Papia e Poppea contro
il celibato licenzioso dell'antica Roma. Ma la Chiesa si adoperava
simultaneamente a risanare prima la radice del coniugio con la consacrazione
delle nozze, con la condanna del divorzio, con le prescrizioni regolatrici
degl'impedimenti matrimoniali che avocò a se stessa per diritto divino, e
dippoi a rinnovare le antiche benedizioni celesti sopra i talami fecondi e sulla
stabilità delle famiglie patriarcali.
Che
se questa malattia cronica pagana dello spopolamento generale, fra tanti altri
coefficienti politici ed economici infesti, protratta ancor per secoli, non si
riuscì prontamente ad arrestare nelle genti orientali e men che mai nelle
occidentali, tuttavia fu osservato che le cellule prime vitali delle
popolazioni avevano ripreso vigore; ciò che risulterebbe come indizio
significativo dal fatto piuttosto frequente nell'oriente di padri e madri che
si presentavano al martirio accompagnati e seguiti da numerosa prole. Anzi di
grosse comunità cristiane che ripopolavano le città levantine, in tutte queste
regioni si parla notoriamente, ad attestare che il fenomeno della rinascita
demografica era ricominciato in particolare dal secolo IV e V.
In
queste conglomerazioni demografiche già si disegnano le prime linee di classi
sociali novelle che correggono l'antica artificiosa graduazione. Continuano
i ceti patrizi fondiari, ma spesso rappresentati da cristiani proprietari che
riconoscono e praticano i doveri della ricchezza verso i diseredati e
gli oppressi con larga profusione d'influenze protettive e di benefici
sollievi.
Continuano del pari le classi laboriose; ma il lavoro servile
obbrobrioso pressoché universale e quello parallelo del libero artigiano così
stremato nei secoli pagani, trovano felice concorrenza e correttivo in modesti
ma crescenti nuclei di operai i quali, fra quel desolante decadimento, pure
attestano di vivere contenti del frutto di un lavoro mai consacrato dalla
religione del Cristo, e il nome di operaio e lavoratore fra
uomini e donne ritorna onorato e caro non solo a Roma nelle iscrizioni delle
catacombe, ma ancor negli scritti e nelle tradizioni delle città orientali e
dei loro dintorni. Del lavoro, dal secolo III, erano stati iniziatori e maestri
gli eremiti, composti dapprima e lungamente di fedeli laici (non del
clero), i quali, ritraendosi in Egitto, in Palestina, nell'Asia Minore, nella
stessa Tracia, in siti appartati dalla corruzione e miseria dei bassifondi
cittadini, sostentavano la vita col lavoro delle loro mani alternato dalla
preghiera.
Soprattutto s'era aggiunta una nuova classe, e questa non già
poggiante, dalle prime origini, sulla ricchezza o sulla fatica materiale del
braccio, ma costituitasi ed innalzatasi nell' esercizio delle più sublimi
funzioni dello spirito, cioè quella ecclesiastica del clero nel
ministero religioso cristiano; ed essa s'era veduta, fra l’ammirazione comune,
elevarsi per istituzione divina e per consenso di popoli sul fulcro della
cultura e della virtù conseguendo nell'oriente (ben prima che nell'Europa
occidentale) una organizzazione matura ed un'autorità morale-civile
venerata fra le popolazioni e nello Stato. Essa porse quivi l'ammaestramento per
tutti i secoli, quale sia la genesi spontanea delle classi superiori che d'ora
innanzi avrebbero aspirato ad una primazia direttiva (le così dette classi
dirigenti) delle altre per la eccellenza meritoria del proprio valore morale ed
intellettuale, o per pubbliche benemerenze. Così era fondata nella sua
costituzione organico-gerarchica la società nuova cristiana, nelle sue
radici vergini e promettenti.
Ma
urgeva ad un tempo correggere e risanare qualche parte almeno della decrepita
società pagana corrosa e crollante. Né il tentativo della Chiesa fu sempre
infruttuoso: e si drizzò dapprima e con paziente longanimità alla schiavitù,
e fu atto cosciente di giustizia civile emancipatrice sotto la veste di carità
religiosa, se fra difficoltà immani di consuetudini, interessi, pregiudizi,
divenne, prima che altrove, generale nelle regioni orientali «l'affrancazione in
ecclesiis» degli schiavi, più tardi legalmente riconosciuta. Sono quivi i
vescovi e i santi padri che impegnano una vera lotta, in nome della morale
cristiana, contro la passione frenetica del circo, e dei suoi ludi cruenti, dei
teatri e loro rappresentazioni scandalose, di ogni specie di feste, banchetti e
divertimenti pubblici immorali, dei costumi privati dissipatori e di ogni
sfruttamento di classe. Come la rivendicazione della dignità umana, sublimata
dal soprannaturale, nello schiavo, avea rinvenuto nei santi padri una eloquenza
affascinante, così il linguaggio per stigmatizzare il lusso insultante dei
doviziosi, l'incentramento della proprietà terriera, i lucri di un commercio
fraudolento, la sottrazione iniqua della mercede dell'operaio, l'oppressione
dei poveri e specialmente la vorace usura che esauriva sotto la servitù del
debito tutte le classi, raggiunge presso di essi espressioni iperboliche e,
roventi di condanna inesorata, le quali non trovano spiegazione fuorché nella
estrema gravità di malori da secoli connaturati con la società pagana e nel
proposito inflessibile, di impedire che venissero soffocati e spenti con quella
anche i germi testè sbocciati della società cristiana.
Questi germi, pertanto, della società cristiana, conveniva avvalorare e
svolgere con un'azione protettiva ed educatrice. Ciò pure fece il clero con
operosità sapiente e indefessa.
L'oriente cristiano, infatti, offerse, primo nella storia, lo spettacolo
di una gerarchia ecclesiastica nella quale l'esercizio della sua missione
divina per la cura delle anime si accompagna a multiforme attività esteriore,
che quella rafforza ed estende, con doppio apostolato religioso e sociale
insieme.
Quivi
sorsero, anticipando di qualche secolo 1'occidente, le parrocchie,
circoscrizione ecclesiastica che servì a cementare nelle comunità cristiane una
più intima solidarietà locale col loro pastore. Ed al parroco è fatto dovere
dai sinodi orientali proprias cognoscere oves, ossia tener registri
statistici delle proprie pecorelle. Ma questi frattanto servono ad organizzare
colà la funzione di una speciale tutela che i canoni prescrivono a
favore delle vedove, e dei pupilli, e dei poveri; e
comincia cosi la protezione dei deboli e di pericolanti in questi alveari di
locale convivenza cristiana. La parrocchia giova ad estendere e regolare ancora
que' servizi elemosinieri che, iniziati nell' età apostolica mediante le
diaconie, recavano i sussidi fratelli alle comunità cristiane bisognose
da Gerusalemme e da tutte le regioni d'oriente fino a Roma. Anzi le diaconie
che i vescovi introdussero ben presto in tutte le diocesi, cioè i gruppi di
sacerdoti adibiti agl'interessi sociali-economici, in specie alla gestione dei
beni ecclesiastici ognor più crescenti e destinati dai canoni conciliari
(avvertasi bene) al triplice beneficio del culto, del clero, e
dei poveri, divennero in breve tempo modello di amministrazione;
sicché i vescovi, per mezzo delle diaconie, dai primi imperatori cristiani in
oriente furono incaricati di distribuire i soccorsi annonari che lo
Stato forniva in tempi di carestia o di pubbliche calamità.
E qui
la funzione tutrice e soccorritrice del popolo si annoda a quella educativa.
Quando in processo di tempo, attraverso controversie vivaci fra i santi padri,
si impegnò una campagna per la riforma degli eremiti, buona parte dei quali
(come ricordammo) era composta di un laicato presto degenerato nel costume,
quelli, per opera della Chiesa, furono trasformati primamente nell'oriente
(Egitto, Cappadocia sec. IV) in Ordine religioso regolare di vita
isolata ascetica e penitente, cioè nello storico monachismo che poi, avvivato
dal lavoro intellettuale e materiale d'ogni specie, fu da san Benedetto
trasferito in occidente (sec. VI). Ma allora accadde che que' primi eremiti
laici orientali, già usati dall'origine per spirito cristiano e per proprio
sostentamento ad esercizi economici manuali, si tramutassero colà in
altrettanti germi di consociazioni popolari laboriose. E queste più tardi,
dietro le tradizioni dei collegia opificum di Roma, (continuate nelle scholae
del levante bizantino) e col favore della personalità giuridica e di patrimoni
elargiti dagl'imperatori Costantino e Teodosio a comunità, chiese ed
istituzioni cristiane, vennero ad enuclearsi intorno al clero parrocchiale
nelle città e nelle campagne, in forma di «que' sodalizi industriosi e delle
università campagnole», che poi spiccarono e prosperarono vieppiù
nell'occidente. Così nell'età costantiniana si parla di plebs christiana
anche nel senso di una incipiente classe di cristiani lavoratori.
Tale
virtù educativa, per lo più per merito delle istituzioni ecclesiastiche, si
estese ai ceti più elevati e, rispetto a questi, essa si insinuava in
seno ad essi, attraverso quel lavorio aperto, intenso, militante di critiche e
condanne autorevoli dell'ozio corruttore e prepotente delle classi proprietarie
e capitalistiche, e in particolare degli abusi flagranti della ricchezza,
strascico di false teorie e di croniche costumanze pagane. Moralisti, santi
padri e sinodi ecclesiastici, polemizzando e sentenziando, vi contrapponevano e
proclamavano alto verità e leggi etiche del Vangelo, le quali tutte confluivano
alla conclusione affatto nuova in quei tempi, della subordinazione piena
ed universale della produzione e dell'uso della ricchezza, da
parte dei favoriti dalla provvidenza, ai doveri sacri della giustizia e
carità; e ciò nelle relazioni non solo private, ma anche sociali. Tutto
questo e in specie i precetti riguardanti l'uso della ricchezza, per cui
ogni proprietà pur consacrata dal cristianesimo deve essere dal proprietario
stesso (subordinatamente alle sue necessità e convenienze personali) destinata
alla conservazione ed al benessere generale, trovasi propugnata con tale
vibrata intonazione da teologi e canonisti da sembrare virulenza o proselitismo
socialistico ad alcuni critici recenti del resto facilmente confutati. Ma
frattanto le prime mosse di un sistema di dottrine sociali economiche,
che poi svolse la scolastica del medio evo occidentale, si trovano con
sicurezza segnate già fin dai primi precursori dei santi padri in oriente,
quali i due Clementi, Ignazio, Policarpo, Taziano. Che poi queste voci
autorevoli trovassero corrispondenza efficace nelle popolazioni è attestato dal
fatto che i nomi e i saggi tipici d'istituzioni di beneficenza che si
incontrano tuttora in Europa sono pressoché tutti di vetustissima origine
greco-bizantina. Così, non meno delle classi inferiori col lavoro, si erano,
con esercizio della carità cristiana in forma ampia sociale, rialzate e
legittimate anche le classi superiori. Fra tutte poi è una continua e calorosa
predicazione, con gli scritti e nella pratica; dei reciproci doveri di
giustizia e di amore, dell'armonia, e della fratellanza non solo fra i fedeli,
ma anche coi barbari e coi pagani, di particolari sollecitudini per i deboli e
per i sottostanti da parte dei forti e soprastanti; ciò che abilita ad affermare
che sugli orizzonti levantini dell'impero ai tempi di Costantino, già
balenavano i meravigliosi contorni di una società gerarchica, nata e cresciuta
sotto gli occhi della Chiesa a vita autonoma, distinta dallo Stato e
potenzialmente universale, cementata dalla solidarietà veramente cristiana, in
cui avrebbero trovato sollievo le moltitudini e tutti gli oppressi ed i vinti
delle passate età.
Clemente di Alessandria, nei suoi Stromata e nella sua Pedagogica,
moltiplica i fatti e gli indizi di questa società cristiana che recava seco i
raggi della vita crescente «fra le ombre calanti della morte», come si additava
allora il tramonto della società pagana.
EFFETTI ETICO-GIURIDICI SULLA SOCIETÀ. - Questa vita cristiana il clero
assunse, con multiformi e assidue prestazioni, di alimentare e dirigere nelle
novelle comunità.
I
vescovi, nel periodo romano-orientale, tradussero in atto il monito dei concili
di profferirsi quali «padri di tutti» facendosi consulenti negli affari
ed in ogni contingenza della vita dei fedeli sì da non aver più tregua in tali
uffici e compromettere talora lo spirito interiore e il ministero
ecclesiastico. Di tali saecularia negotia troppo incalzanti si lamenta
Agostino, pure non rigettandone il peso «per onore di Dio e per fiducia di
premio eterno». Intervenivano come pacieri nel perdono delle offese,
nella correzione fraterna, nelle autoritarie riprensioni. Soprattutto aborrendo
i cristiani dal contenzioso forense sia per lo spirito di mansuetudine tra i
fratelli, sia per il pericolo di adire a giudici pagani, i vescovi si
prestavano (per mezzo di sacerdoti e diaconi) ad ufficio di conciliazione
amichevole e, non riuscendo, pronunciavano essi medesimi sentenze
arbitrali con crescente e severa applicazione di tali espedienti
estragiudiziali; sicché il cristiano che non si sottomettesse alla decisione
vescovile era considerato come etnico e pubblicano.
Con
attività giuridica più elevata e diretta, la Chiesa, mercé queste sentenze, la
rispettiva giurisprudenza curiale, le norme disciplinari dei frequenti sinodi
diocesani e dei concili massimamente orientali, creava e veniva erigendo, al di
fuori del giure romano, un sistema proprio di leggi, ossia il giure canonico,
tratto immediatamente dal diritto divino, ossia compenetrato con la
verità e la morale rivelata, e dedotto da criteri di diritto naturale
con derivazione immediata dall'etica
razionale universale, svolto ed applicato con processo storico
progressivo a tutte le contingenze di una società novella; giure canonico
che di questa già rispecchiava la vita giovanile, a differenza del diritto
romano, prono ormai ad irrigidirsi nei contorni senili di una società moritura,
sebbene con questo diritto ellenico-latino quello non interrompesse le mutue
comunicazioni. Ma frattanto questo lavorio della gerarchia ecclesiastica, che
riusciva a collocare un diritto della Chiesa a fianco e talora di fronte
al diritto dello Stato, raffermava e scolpiva agli occhi di tutti la
indipendenza sovrana di quella che, colla maestà di una legge universale,
preparava il substrato del diritto internazionale medesimo.
Si
dovrà in tal caso far meraviglia se, muniti di tanto prestigio a beneficio
della società cristiana, i vescovi, quali rappresentanti, difensori, vindici di
essa, si fanno consiglieri delle civili autorità, esercitano una
vigilanza sulla pubblica amministrazione, si appellano alla sovranità
imperiale contro gli abusi di magistrati e funzionari, protestano dinanzi
all'imperatore per la iniquità delle leggi, per i suoi arbitri stessi e per le
sue colpevoli debolezze o vanno incontro ai barbari ed ai lor duci violenti o
ribelli per la salvezza delle popolazioni e la incolumità dell'impero? Prima
ancora di papa Leone Magno incontro agli Unni e di Gregorio VII di fronte ad
Enrico IV per la libertà della Chiesa e del diritto italico, la storia
dell'episcopato orientale, da Costantino a Teodosio e a Valentiniano III,
rigurgita di queste benemerenze d'inestimabile valore civile. I vescovi
dell'impero bizantino senza tregua perorano presso il governo per
l'alleviamento delle insopportabili imposte; gli eremiti dalla campagna
precipitano nella capitale ed entrano nei tribunali ad infrenare le inique
condanne e le crudeli repressioni, da parte del prefetto di Costantinopoli,
degl'insorti di Antiochia (sec. IV); il Crisostomo, mentre l'imbelle Bisanzio
tremava di fronte alle minacce del goto Gainas, andando incontro come un
Attilio Regolo cristiano al barbaro, riesce ad arrestarlo e poi a suscitare
contro di esso la riscossa vittoriosa delle armi imperiali (fine sec. IV);
Agostino d'Ippona, l'ultimo patriota dell'Africa romana, alza la voce verso il
vendicativo governatore Bonifacio, affinché perdoni i torti della corte e
difenda la provincia invasa dai vandali (a. 429). Quell'impero morale che
la Chiesa avrebbe conseguito ed esercitato splendidamente nel medio evo sulla
società civile, si era già affermato ben prima efficacemente nel tramonto
dell'impero politico greco-latino; ma era forse usurpazione a detrimento dei
cittadini e dello Stato?
EFFETTI GIURIDICO-POLITICI SULLO STATO. - Certamente la Chiesa, con
l'anticipata sua costituzione storica nell'impero orientale e con la profusione
del suo zelo operoso in seno alle popolazioni, aveva limitato la onnipotenza
panteistica dell'antico Stato pagano; e questo apparve, e fu di fatto in
qualche misura, soggettato alle leggi etiche di un legislatore eterno, e il
giure umano positivo rimase vieppiù contenuto entro l'ambito d'un diritto
universale di natura. Ma di ricambio, al di sotto di questo duplice limite, la
sovranità del principe si trovò riconsacrata come riflesso della suprema
autorità divina; gli ordinamenti di Stato apparvero come parte integrante
dell'ordine provvidenziale e l'obbedienza dei cittadini resa razionale si
affermò con la coscienza del dovere e del bene comune. L'oriente cristiano ebbe
la gloria di aver per primo raggiunto un pubblico riconoscimento legale di
questi canoni essenziali dello Stato cristiano, qualunque ne fosse poi la
pratica attuazione, e di averne sperimentato, per virtù propria ed
ammaestramento altrui, fra le stesse resistenze e violazioni, l'efficacia
profonda nei problemi della pubblica amministrazione.
Le
funzioni dei pubblici poteri, infatti, si trovarono per altro rispetto elevate
ed estese. La funzione strettamente giuridica dello Stato, subendo
l'influenza dei principi più squisiti dell'etica cristiana e degli esempi del
giure canonico, si elevò a più alta spiritualità, sicché il diritto di
Roma antica, ritemprandosi a fonti di perenne e feconda vitalità da Costantino
a Teodosio, a Giustiniano fino a Leone il Saggio, potrà accostarsi al mos
ed al ius dei vergini popoli dell'età di mezzo, per ricongiungersi
infine alla legislazione moderna. E alla sua volta la funzione civile
dello Stato, già soffocata dalle preoccupazioni politico-militari nel
paganesimo, impensatamente si aperse ad un compito sconfinato, quello di conferire
il progresso dell'incivilimento nel consorzio umano, coadiuvando con mezzi
esterni e suoi propri a quei fini di perfezionamento individuale e collettivo,
a cui con mezzi essenzialmente interiori e sovrannaturali si era già dedicata
la religione e la Chiesa. Tali la elevazione della dignità umana, la cultura e
gli istituti educativi, la difesa dell'onesto costume, la protezione dei
deboli, il sollievo delle moltitudini, l'epurazione delle fonti della
ricchezza, l'armonia delle classi, l'adempimento di una missione etniconazionale,
il progresso universale. A questo programma si ispirò indubbiamente l'azione
legislativa e politica di Costantino.
Chi
segua ed abbracci con imparziale veduta comprensiva l'opera di lui riformatrice
dello Stato, nei suoi ordinamenti e nelle sue leggi private e pubbliche, fra le
reliquie inevitabili di pregiudizi pagani e nella necessità di prudenti
innovazioni graduali in mezzo a malori profondi e inveterati, deve pur
confessare che egli adempì ad una grande funzione civilizzatrice della
società per l'organo dei pubblici poteri.
Tuttavia questo giudizio si ricollega ad un altro superiore che lo
illustra e completa. Egli e i suoi successori, nell'età che comprende il ciclo
storico costantiniano, non fecero che seguire e integrare quanto già da
secoli andava compiendo il cristianesimo e la sua Chiesa in favore dell'umano
incivilimento.
CONCLUSIONE. - Si veramente: la Chiesa, iniziando e proseguendo con
virtù soprannaturali la sua missione religiosa in nome del cristianesimo, fece
primamente, nel seno delle popolazioni dell'impero orientale dall'origine fino
al chiudersi dell'età costantiniana, maravigliosa opera di rinnovamento civile
profondo e completo, da cui prendono le mosse tutti i periodi posteriori della
civiltà che ancora rifulge in mezzo a noi. Essa aveva rigenerato l'uomo e la
sua dignità, ritemprata la famiglia, risanati i costumi, moltiplicate le
popolazioni, ricostruite e armonizzate le classi, creata la plebs christiana
e delineate le linee maestre dell'economia della ricchezza. Essa aveva
trasformato lo Stato, e di questo ringiovanito il diritto, spiritualizzate e
socializzate le funzioni. Essa accese i focolari della scienza nelle
regioni più sublimi del sapere, assegnò all'impero una missione provvidenziale,
custodì le tradizioni della moritura civiltà ellenico-latina, e fondò la
coscienza lucida e incrollabile di una civiltà che si sarebbe mantenuta di gran
lunga superiore a quella ellenicolatina; civiltà una, progressiva,
universale, che si sarebbe perpetuata in Cristo e nella Chiesa di Roma.
Di
questa civiltà che ascende rapidamente nelle regioni levantine, cantano il
peana Girolamo, Gregorio Nazianzeno, il poeta Prudenzio, il dotto Minucio
Felice. Ed è merito di Costantino che ne intuì i destini, di avere iniziato quelle
trasformazioni giuridico-politiche che dovevano legalmente avvalorarla e che
più tardi Teodosio compì. Inattesa conversione della politica romana che si
inaugurava coll'«editto di libertà cristiana» e che Costantino riconobbe
l'effetto di una ispirazione divina; e l'averla secondata formerà sempre la sua
gloria.
Tuttavia non conviene menomare o nascondere la interezza della verità
storica in ordine ai risultati finali.
E'
troppo noto, dolorosamente, che tale indipendenza ecclesiastica, così ricca di
benefici sociali, primamente riconosciuta dall'imperatore cristiano e tradotta
in atto nelle popolazioni orientali, più tardi, con lungo e lacrimevole
processo storico di pervertimento, sia per la sopravvivenza di longevi
pregiudizi pagani, sia per la corrosione di eresie insidiose e pertinaci a
detrimento di quel primo rinnovamento civile, sia infine per lo stesso intimo
ricambio di mutui servigi fra Chiesa e Stato via via tramutatosi nella
inframmettenza usurpatrice ed oppressiva da parte di quest'ultimo, tale libertà
ecclesiastica (ripetiamo) veniva a sminuire e infine a spegnersi nella servitù
cesaro-papistica degl'imbelli e fedifraghi successori di Costantino. Fu
veramente la riproduzione del panteismo religioso-politico dell'antico
paganesimo. Ma nell'impero stesso bizantino che precipita a ruina, in cui fu
per la prima volta promulgata, colla maestà della legge romana, la «libertà
della Chiesa», questa parola echeggerà ancora a protesta in oriente sulle
labbra di Osio di Cordova, di Atanasio, di Crisostomo, per trasmetterla in
occidente ad altri santi padri, vescovi e pontefici i quali, a lor volta, la
ripeteranno, in più vasti orizzonti e con più solenni e duraturi successi, ad
altri tempi e popoli per rammentare alle remote generazioni che l'annunzio dato
da Colui che divinamente pronunziò veritas liberabit vos rimarrà
perennemente pegno di immortalità non solo per la Chiesa, ma per
l'incivilimento cristiano nel mondo. Questo è l'ammaestramento sociale che ogni
altro compendia.
***
NOTE
(1) Questo scritto formò la sostanza di una
lettura tenuta in Roma nel palazzo della Cancelleria il 24 aprile 1913, per
invito del comitato per la commemorazione centenaria costantiniana.
(2) Una bibliografia relativamente completa
intorno a questo argomento in opere e monografie, altre generali, altre
speciali, trovasi nella Storia sociale della Chiesa di mons. U. BENIGNI,
per ora in due volumi, Milano, ed. Vallardi, 1906 e 1912.
(3) La stessa Storia sociale della Chiesa
di mons. U. BENIGNI (cit.) imprende a trattare in modo esauriente, con copia di
fonti prime e derivate e con larghezza di concetti, i quesiti che oggi si
discutono intorno all'età costantiniana, dalla quale egli fa dipartire la
storia suddetta; il primo volume sotto il titolo «La preparazione: dagl'inizi a
Costantino»; il secondo (pt. I), «Da Costantino alla caduta dell'impero
romano». Noi vi attingemmo per queste sintetiche osservazioni, e vi rimandiamo
i cultori di più analitici studi in proposito. Rispetto all'editto
costantiniano, alla sua realtà storica ed alla sua interpretazione corretta,
intorno a cui si esercitò recentemente la critica (non sempre imparziale),
veggasi la monografia diligente e concettosa dell'avv. C. SANTUCCI, L'editto
di Milano specialmente nei riguardi giuridici, in Riv. Intern. di scien.
soc. ecc., Roma, marzo 1913; il quale alla sua volta si avvalorò della
dissertazione del prof. SCHNEIDER, L'editto di Milano e i recenti critici
che lo riguardano, in Atti dell'Accademia pontificia di archeologia,
Roma, Tip. Vaticana, 1933. Le controversie in cui si trovarono impegnati già
Seeck e Crivellucci (1891 e 1895) e a cui portarono contributi Boissier,
Monaci, Allard, ecc. (e si possono aggiungere in questi dì P. Rinieri, P.
Pavissich, Delle Selve, ecc.), si trovano criticamente riassunte nelle due
monografie suindicate e conducono a conclusioni assodate sia intorno
all'esistenza storica dell'editto, sia alla sua importanza. Fra questi ed altri
recenti scritti, comparsi in riviste e giornali, tengono un posto eminente
quelli di F. MEDA, il quale ebbe il merito di proporre, forse primo in Italia,
da parecchi anni tali studi commemorativi dell'odierna ricorrenza
costantiniana.
(4) Cfr. B. KIDD, Principles of Western
Civilization, London, Macmillan, 1902; G. TONIOLO, L'odierno problema
sociologico. Studio storico critico, Firenze, Libreria ed. fior., 1905.
(5) Per i concetti generali sul panteismo di
Stato antico e moderno, cfr. A. M. WEISS, Soziale Frage und soziale Ordnung,
Freib. im Br., 1904; e per le applicazioni storiche nell'antichità cfr. R. P
OHLMANN , Geschiche des antiken Kommumismus und Sozialismus, Munchen,
Beck, 1893-1901.
(6) Per gli ordinamenti panteistici degli Stati
in Grecia e Roma attimi particolarmente a FUSTEL DE COULANGES, La Cité
antique. Étude sur le
culte, le droit, les institutions de la Grèce et de Rome, Paris, Hachette, 1866.
(7) Merita ricordare la serie delle
pubblicazioni di vero valore scientifico uscite dopo le encicliche celebri di
Leone XIII, intorno alle dottrine sociali del cristianesimo e della Chiesa. Ora
si pubblica in Francia una collezione speciale di tali opere col titolo: La
pensée et l’oeuvre sociale du christianisme. Études et documents, promotore A. LUGAN, che già dettò due dotti
volumi: L'enseignement social de Jésus, Paris, Blond, 1910; La grande
loi sociale de l'amour des hommes, Paris, Tralin, 1913.
(8) Cfr. V. RIVALTA, Diritto naturale e
positivo. Saggio storico, Bologna, Zanichelli, 1898.
(9) L'originalità del cristianesimo di fronte
alle religioni ed alle dottrine filosofiche dell'antichità e riconosciuta e
talora bellamente illustrata (in onta ad un resto di preconcetti hegeliani) da
R. MARIANO, Scritti vari, Firenze, Barbera, 1900-1911. Vedi in
particolare: «La conversione del mondo pagano al cristianesimo», V. 2.
(10) Cfr. C. CANTÙ, Storia universale,
Torino, Unione Tip. Editr., 10. ed., tomo III, L'età eroica del
cristianesimo.
(11) Vedi N. TAMASSIA, L'agonia di Roma,
Pisa, 1894. A pochi riuscì di delineare con brevi, ma scultorei tratti maestri
desunti rigorosamente da fonti prime, la decadenza inesorabile di Roma antica,
come all'illustre professore di storia del diritto (ora in Padova) , in questa
monografia letta per l'inaugurazione dell'anno accademico all'Università di
Pisa. Noi ne profittammo, riportando virgolato qualche passo del dotto
discorso.
(12) TAMASSIA, op. cit.
(13) Le precedenti osservazioni consuonano col
tesoro di ricerche istituite da H. GRISAR nel dottissimo volume: Roma alla
fine del mondo antico, secondo le fonti scritte ed i monumenti. Traduzione
di Angelo Mercati, sull'originale tedesco, Roma, Desclée, 1908, 2. ed.
(14) FUSTEL DE
COULANGES, op. cit.