CRITERI PER RICONOSCERE LE VERITÀ DOMMATICHE
Sisto Cartechini S.I.
Estratto dal libro Dall'opinione all domma
Valore delle note theologiche
CRITERI PER RICONOSCERE
LE VERITÀ DOMMATICHE
Esposto che cosa
sia il domma, è facile conoscere i criteri per stabilire quali siano le
singole verità dommatiche.
1 - Il magistero solenne
dei concili.
Prima di esporre
questo criterio, che è la via più comune per determinare le verità di fede
cattolica, bisogna fare alcune osservazioni importanti.
Perché le
decisioni di un concilio abbiano valore dommatico, il concilio dev'essere
ecumenico e legittimo, solo in tal caso godendo esso del carisma
dell'infallibilità. Infatti, Gesù Cristo ha promesso l'infallibilità
alla Chiesa universale e non alle singole chiese particolari. I concili
particolari non sono infallibili: però le loro decisioni possono acquistare un
valore universale e definitivo, se in seguito interviene l'approvazione del
romano pontefice. Così avvenne per il concilio Costantinapolitano I°
(nel 381: D. 85), per il Cartaginese contro i pelagiani (nel 418: D. 101 ss.),
l'Arausicano contro i semipelagiani (in Orange nel 529: D. 174 ss.).
L'autorità, perciò, di questi concili, benché in origine particolari, di fatto
è come quella dei concili ecumenici.
Di più: nello
svolgimento delle discussioni in un concilio possono accadere molti fatti di
natura puramente umana e aver luogo anche le passioni, come si verificò in
varie discussioni del concilio di Trento; ma le ultime conclusioni, che
riguardano la fede e i costumi, sono infallibili.
Chiara volontà di definire
Perché si abbia una definizione infallibile,
cioè un domma, si richiede che la
cosa venga proposta in maniera tale che
dia assoluta certezza. Senza questa certezza la
definizione verrebbe ad avere soltanto carattere di probabilità; le menti
rimarrebbero incerte e non potrebbero aderire con fede incondizionata quale si
esige nel domma.
Si richiede inoltre che i concili generali
manifestino con relativa evidenza la volontà
di definire, perché non è detto che chi ha il diritto
d'insegnare, come la Chiesa cattolica, abbia sempre di fatto la volontà
d'insegnare; perciò quando essa, come maestra suprema in materia di fede e di
costumi, vuole certamente insegnare, è necessario che lo dichiari apertamente.
Una certa
chiarezza, dunque, almeno relativa, è condizione indispensabile per il
magistero infallibile della Chiesa. Ogni dottrina viene proposta perché sia
conosciuta: ora, se non può essere chiaramente appresa dall'intelletto, questa
dottrina non raggiunge il suo scopo dell'insegnamento: illuminare le menti.
Come pure la dichiarazione da parte della Chiesa di volere esercitare il suo
magistero infallibile affidatole da Gesù Cristo, fa sì che le sue definizioni
siano veramente legge del credere, legge cioè che non ammette dubbio, perché
legge dubbia non obbliga.
Capitoli dei concili
Nei documenti
conciliari abbiamo due elementi: la dottrina positiva dei capitoli e quella
negativa dei canoni: ora lo stile, l'ordine dei
capitoli, le introduzioni, le idee accidentali,
le ragioni, e nemmeno le spiegazioni,
sono per sé oggetto
di definizione.
Quanto allo
stile, all'ordine e all'introduzione la cosa è chiara (D. 792a). Piuttosto
bisognerà sapere quali idee possono dirsi accidentali o indirette. Tali sono
quelle idee che vengono manifestate di passaggio, al di fuori della questione
principale di cui si aveva la discussione o controversia; le idee che non
entrano nell'intimo della questione e non sono essenzialmente connesse
coll'oggetto primario e immediato della definizione. Per esempio, nella
costituzione De fide catholica, del concilio Vaticano,
parlando della Chiesa, si dice che essa è un miracolo morale «per la sua esimia
santità» (D. 1794); queste parole non sono oggetto di definizione e
quindi quando nel Credo diciamo: «Credo nell'unica santa Chiesa»,
non intendiamo affermare come domma la santità delle persone. Così quando nel
Tridentino (D. 807, 839) si dice che la contrizione perfetta giustifica prima
dell'assoluzione, questo è soltanto teologicamente certo, perché il concilio
non ha voluto affermare ciò direttamente ma soltanto incidentalmente, come cosa
del resto risaputa.
Similmente il
concilio Lateranense IV insegna che gli angeli sono incorporei (D. 428); ma
questo lo dice esponendo altre dottrine e non come oggetto di definizione;
perciò la spiritualità degli angeli non è domma di fede definito, ma
soltanto teologicamente certo; supposto, infatti, che siano due specie di
creature, corporee e incorporee, cosa di cui non era questione, il concilio
vuol definire contro gli albigesi che l'una e l'altra fu creata da Dio, perché
essi ammettevano un duplice principio, del bene cioè e del male, come i
manichei.
Neppure le
ragioni e i motivi che il concilio adduce come prove sono oggetto della definizione.
Chi infatti insegna una verità da credersi sull'autorità di Dio rivelante, non
è tenuto a darne i motivi, né l'uomo del resto crede per i motivi che si
potrebbero addurre. Tuttavia qualche volta anche gli stessi motivi possono, per
altra ragione, essere oggetto di definizione, come si ha, per esempio, nel
concilio Tridentino al capo il (D. 805), dove il concilio ci avverte di
guardarci da una temeraria presunzione della propria predestinazione, quasi
fosse vero che colui che è stato giustificato non possa peccare più, o, in caso
di ricaduta, ripromettersi una sicura resipiscenza; poiché, senza una speciale
rivelazione, non è dato sapere chi sia stato eletto da Dio; tutti motivi questi
definiti nello stesso concilio.
Perciò va ritenuta come dottrina definita ciò
che è direttamente contenuto nelle stesse parole
della definizione, ossia ciò a cui direttamente
si riferisce la parola «definiamo». Le
spiegazioni poi non sono altro che effetto della discussione, e generalmente
per la definizione sono cose puramente accidentali, a meno che non si tratti di
spiegazioni o conseguenze che il concilio assuma esplicitamente quale oggetto
di definizione, come abbiamo visto nell'esempio precedente. Non tutto, dunque,
ciò che si trova nei capitoli conciliari è materia definita, anzi nei
capitoli può essere esposta la dottrina
dei teologi senza che venga definita.
Così, per esempio, nei capitoli della giustificazione il concilio di Trento
descrive il modo con cui viene preparata (D. 798-799) o le cause di essa: non
tutto ivi è domma, come meglio si vede nei canoni (D. 811 ss.).
Segni di una definizione
I segni per
riconoscere una definizione sono questi: prima di tutto la parola «definiamo»,
quantunque non sia sempre apodittica; inoltre, quando si esprime, come negli
antichi simboli, l'obbligo di confessare apertamente una determinata dottrina:
così intende il concilio Calcedonese con le parole che pone al termine della
definizione delle due nature in Cristo: «A nessuno è lecito manifestare altra
fede o scrivere, o tenere, o insegnare agli altri» (D. 148); lo stesso si dica
delle parole con cui il concilio Tridentino espone la dottrina intorno al santo
sacrificio della messa nell'introduzione ai capitoli: «... le cose seguenti
insegna, dichiara e decreta che siano proposte ai fedeli» (D. 937a); altro
segno di definizione è la dichiarazione esplicita che se uno ritiene
diversamente, è alieno dalla fede, eretico cioè e separato dalla Chiesa: come,
per esempio, nelle parole con cui si chiude la definizione dommatica dell'Immacolata:
«Perciò, se vi saranno di quelli che avranno l'ardire di pensare in cuor loro
diversamente da quanto è stato da noi definito, sappiano che sono per proprio
giudizio condannati, che hanno fatto naufragio nella fede e che sono separati
dall'unità della Chiesa» (D. 1641). Alcune volte poi il giudizio se una verità
è definita o no, si può desumere soltanto dalle circostanze, dalla tradizione,
dal parere dei teologi o da una susseguente dichiarazione della Chiesa.
Analisi del testo
Ciò premesso, se
uno vuole rendersi conto da sé di ciò che è definito o no, prenda un capitolo
di un concilio: faccia prima di tutto l'analisi logica per determinare quali
siano le proposizioni principali e quali secondarie, ed esamini il nesso fra
loro; osservando bene di quale materia si tratti, se di un fatto dommatico, se
di una sentenza filosofica, se di una dottrina o di un fatto che non sia
conoscibile se non per mezzo della rivelazione. Inoltre è necessario tener
conto dell'epoca in cui ebbe luogo il concilio, e dell'eresia contro la quale
fu necessario adunarlo; ponderare il valore del documento, il cui tenore
risulterà dalla prefazione e dalla conclusione del medesimo. Con queste
avvertenze uno anche da sé potrà trovare la verità definita, benché questo
lavoro sia stato fatto ampiamente dai teologi, i quali nei loro trattati si
fanno premura d'indicare nelle varie tesi le qualificazioni teologiche.
Vogliamo portare
un esempio. Si tratti di sapere se questa proposizione: «Non tutte le opere
degli infedeli sono peccati» sia
definita o no nel can. 7 (D. 817) del concilio di Trento. Si legge attentamente
tale canone: «Se qualcuno dirà che tutte le opere che uno compie prima della
giustificazione, per qualunque motivo si facciano, siano veri peccati e meritano
la riprovazione di Dio, oppure dirà che quanto più ardentemente uno si sforza
per disporsi alla grazia, tanto più gravemente pecca: sia anatema».
Considerando lo stato della questione si vede che tale proposizione non è di
fede definita, ma soltanto teologicamente certa; perché il concilio non ha
voluto parlare degli infedeli ma soltanto confutare le opinioni di Lutero, il
quale affermava che tutte le opere che si compiono in qualunque modo prima
della giustificazione sono veri peccati; quindi nel concilio non si proponeva
la questione se un'opera fatta senza neppure la grazia della fede sia peccato.
I canoni poi dei
concili terminano coll'espressione anathema sit: si domanda se
questo è un criterio apodittico per stabilire che trattasi di definizione dommatica.
La questione è un po' difficile; ma pare che non dovunque si trovi tale formula
debba senz'altro trattarsi di verità da credersi per fede divina. Osserviamo,
infatti, i canoni 7, 8 e 9 del concilio Tridentino, che riguardano il santo
sacrificio della messa (D. 954 ss.) e che terminano tutti coll'anathema sit:
è facile osservare che in essi trattasi di domma soltanto in modo indiretto,
nel senso cioè che la Chiesa ha giurisdizione per stabilire le cerimonie, le
vesti e tutti i segni esterni che regolano la celebrazione della messa. Qui uno
potrebbe dire: «Chi negasse questi canoni verrebbe a negare la giurisdizione
della Chiesa e quindi sarebbe eretico»; è vero, ma allora in questo modo tutto
potrebbe essere condannato con anatema. Come si vedrà in altro capitolo,
l'espressione anathema sit non è altro che una formula di
scomunica.
Stretta interpretazione
I testi dei concili vanno interpretati
in senso stretto, perchè la verità che l'autorità docente
vuol definire è contenuta nelle parole della proposizione prese nel loro senso minimo
possibile: e questo minimo è ciò che, nella cosa di cui si tratta, appare con
maggiore evidenza. Nel condannare, infatti, una sentenza, cosa di per sé
odiosa, e nel mettere in evidenza la verità contro l'errore, suole la Chiesa
usare con la massima precisione la proposizione contraddittoria, perché tra le
opposte è quella che ha minore estensione, mentre la contraria è più estesa;
per cui tra le proposizioni contraddittorie non si dà via di mezzo, come si dà
fra due contrarie; se una proposizione è vera, la sua contraddittoria deve
necessariamente essere falsa.
Se, dunque, una
verità viene positivamente definita come domma, non c'è dubbio che tanto la sua
contraddittoria quanto la sua contraria sono eretiche; se invece una
proposizione è condannata come eretica, allora soltanto la contraddittoria è
domma. Portiamo un esempio: La quinta delle cinque proposizioni condannate da
Innocenzo X, contenenti alcuni degli errori di Giansenio, dice così (D. 1096):
«E' parlare da semipelagiano dire che Cristo è morto per tutti indistintamente
e che ha sparso il suo sangue per tutti ». Questa proposizione fu condannata e
dichiarata falsa, temeraria, scandalosa e, intesa nel senso che Cristo sia
morto solo per la salvezza dei predestinati, empia, blasfema, offensiva,
contraria alla pietà divina, ed eretica. È domma, dunque, che Cristo è morto
anche per altri. Ma è domma che è morto per tutti? E' vero che Gesù è stato crocifisso
per tutti indistintamente, ma in forza di questa condanna è di fede definita
soltanto ciò ch'è in diretta contraddizione con la proposizione; quindi che
Gesù sia morto per tutti, benché verissimo, non è ancora domma di fede, almeno
da questo documento. Il potere quindi infallibile della Chiesa in definire la
verità e imporre l'atto di fede, esigendo un sacrificio della mente, la Chiesa
intende esercitarlo nel minimo grado possibile.
Se poi si debba
ammettere la contraddittoria di una proposizione condannata come eretica, non
ne segue necessariamente che debba ammettersi anche la sua contraria; la
condanna, infatti, di una proposizione non implica necessariamente
l'affermazione della sua contraria, perché anch'essa può essere erronea,
dandosi il caso di due contrarie ugualmente false.
Definito un elemento comune e
generico
Quando non
apparisce chiaro se in una proposizione sia definita qualche precisazione,
allora ciò che è definito è soltanto un concetto generico, ossia quel minimo
che è sufficiente a salvare il domma. Nelle note della Chiesa,per esempio, che
noi professiamo nel Credo con queste parole: «Credo nell'una, santa,
cattolica e apostolica Chiesa», è domma la questione di diritto, non sempre la
questione di fatto. Cosi pure nel concilio di Vienna, sotto Clemente V, vengono
condannati gli errori dei beguardi e delle beghine, uno dei quali riguarda il
lume della gloria; e dice che ogni natura intellettuale è in se stessa beata e
che l'anima non ha bisogno del lume della gloria per renderla capace di vedere
Dio e di goderlo. Qui. il concilio che cosa intende definire? Soltanto questo:
che si richiede qualche aiuto intellettuale per la visione di Dio e per la
beatitudine; ma quale sia quest’aiuto non si dice, né molto meno si parla di
specie impresse o espresse.
Perciò quando
qualche teologo, che tiene una sentenza contraria, ammette ciò che è
sufficiente a salvare il domma, può e deve esser lasciato nella sua opinione.
Finalmente se talora,
in seguito ad una discussione, non apparisce chiaro ciò ch’è condannato come
eretico e ciò che precisamente si debba ritenere per fede, e il documento della
Chiesa tuttavia parli chiaramente della fede e dell’eresia, è il caso in cui le
determinazioni dei teologi non sono di fede. Ciò che viene imposto in tali documenti
è soltanto questo: che in essi c’è qualche cosa che è di fede o che è eretica.
Questa osservazione vale, per esempio, per le 79 proposizioni di Baio
condannate sotto Pio V. Chi è capace qui di determinare con assoluta certezza e
sempre quale proposizione sia eretica? I teologi possono, sì, con frutto
precisare molte cose, ma le loro determinazioni non sono di fede, se ciò non si
ricava da qualche altro documento certo. Ciò che è fede definita è soltanto
questo: in quelle proposizioni si trovano certamente eresie secondo la materia
di cui trattano ed è perciò eretico chi, senza nessuna restrizione, le accetta
cosi come sono.
A questo punto
uno potrebbe domandare: perché la Chiesa a il papa non si sono espressi con
maggiore chiarezza? Perché non sono stati più precisi nel formulare le singole
proposizioni? - Si risponde che il supremo magistero della Chiesa dovette avere
ragioni più che sufficienti per procedere in questo modo: mentre non c’era
tempo per discutere convenientemente le varie affermazioni erronee, la condanna
s’imponeva con urgenza ad impedire mali maggiori; d’altra parte, in quelle
circostanze tale condanna bastava per impedire agli errori un loro ulteriore
sviluppo e diffusione.
2 - Magistero ex cathedra.
L’infallibilità
del romano pontefice fu definita domma di fede nel concilio Vaticano (D. 1839):
«... definiamo esser domma da Dio rivelato che il romano pontefice, quando
parla ex cathedra: cioè in funzione di pastore e dottore di tutti
i cristiani, definisce, per la suprema sua autorità apostolica, una dottrina in
materia di fede e di costumi da tenersi da tutta la Chiesa, in virtù dell’assistenza
divina a lui promessa nel beato Pietro, gode di quell’infallibilità di cui il
divin Redentore volle che la sua Chiesa fosse dotata nel definire la dottrina riguardante
la fede e i costumi; e perciò le definizioni del medesimo romano pontefice sono
irreformabili per se stesse e non per consenso della Chiesa».
Il papa, dunque, è infallibile solo quando parla ex cathedra,
ed è questa una prerogativa incomunicabile, strettamente personale, non perchè
come persona privata abbia la garanzia di essere esente da errore o da eresia,
ma nel senso che è infallibile ciascuno indistintamente dei successori di
Pietro. La definizione vaticana non precisa l’oggetto dell’infallibilità
pontificia, ma la dichiara identica a quella della Chiesa nel suo oggetto
primario, cioè nell’insegnamento di quanto è esplicitamente o implicitamente rivelato
in materia di fede e di costumi. Ma è evidente che non si possono escludere dal
dominio della infallibilità pontificia le cosidette «verità connesse», le
quali, benché non si trovino formalmente nella rivelazione, sono con questa
così strettamente congiunte che vi si possono dire virtualmente contenute: un
errore intorno a ciò metterebbe in pericolo la stessa fede. Tali verità sono le
conclusioni teologiche, i fatti dommatici, la canonizzazione dei santi e la
legislazione ecclesiastica.
Chiarezza
e volontà di definire
Perché si possa dire che il romano
pontefice parla ex cathedra, deve essere manifesto con relativa evidenza che
egli ha la volontà di definire ex cathedra, essendo la volontà elemento
essenziale dell’attività umana. Questa volontà nell’atto di definire non
esclude l’uso dei mezzi umani di ricerca della verità rivelata, e dei suoi
sviluppi, ma anzi li suppone e li preserva da deviazioni nel loro risultato
finale.
Parlando poi ex cathedra il papa
può usare varie forme nel proporre una verità di fede: bolle, encicliche,
lettere apostoliche, brevi; può servirsi anche di concili particolari col dare
conferma solenne alle loro decisioni. L’importante è che l’intenzione del
pontefice di definire una dottrina sia manifesta. con certezza: per questo non
si richiede una forma determinata, né egli è tenuto a servirsi di un mezzo piuttosto
che d’un altro. Possiamo però dire che nelle encicliche e simili documenti il
papa ordinariamente non propone nuove definizioni dommatiche, ma soltanto
propone una dottrina cattolica o ritorna su definizioni già proposte.
Alcuni esempi
Qui cade bene a proposito esaminare un
triplice caso interessante.
Prima il celebre Indicolo (D. 129
ss.), aggiunto alla lettera del papa Celestino I. Dopo una breve introduzione
ci dà, in dieci capitoli, una precisa sintesi della dottrina della grazia
contro le eresie di quei tempi. Come appare dalle citazioni dei papi Innocenzo
e Zosimo, questo documento non è di origine pontificia, ma è una specie di
sillabo delle proposizioni definite riguardanti la grazia, composto, a quanto
pare, da Prospero d’Aquitania. L’autorità di questa sintesi, riconosciuta dalla
Chiesa universale e approvata dai pontefici, è massima, trattandosi di capitoli
desunti da documenti conciliari e pontifici. La dottrina, piuttosto che del
peccato originale contro i pelagiani, tratta dell’universalità della grazia
necessaria per tutti gli uomini e per ogni atto salutare, poiché questo è il
domma qui contenuto: «Nessuno è per se stesso buono, nessuno, se non per mezzo
di Gesù Cristo, fa buon uso del libero arbitrio; anche i giusti hanno bisogno
della grazia per la perseveranza; anche l’inizio della giustificazione, un buon
pensiero, un buon desiderio, le spinte iniziali della buona volontà procedono
dalla grazia»; sicché si arriva a questa conclusione che i meriti dell’uomo
sono prevenuti dalla stessa grazia.
Altro esempio: l’enciclica Casti
connubii, del 1930, sul .matrimonio, dove Pio XI condanna gli abusi che si
commettono contro la santità di questo sacramento. Possiamo domandarci se sia
definizione ex cathedra che l’onanismo sia sempre peccato mortale.
Alcuni lo affermano perché il papa usa parole molto gravi e solenni. Come
abbiamo visto, perché si abbia una definizione solenne si richiede che il papa
parli, come supremo pastore e dottore a tutta la Chiesa e che voglia adoperare
tutta la sua suprema autorità in grado massimo. Che in quest’enciclica parli
come supremo pastore e dottore, la cosa è chiara; resterebbe perciò da vedere
se egli abbia voluto veramente usare la sua suprema autorità e abbia voluto
dare una sentenza definitiva. Comunque è sempre vero che, anche se non sia
domma di fede, la dottrina promulgata dal papa risulta infallibilmente vera
dall’aver egli con parole solenni manifestata autorevolmente una dottrina
morale che in ogni tempo fu, dal magistero ordinario e universale della Chiesa,
costantemente proposta come da tenersi senz’incertezze e da osservarsi nella
pratica della vita cristiana.
Terzo caso: l’enciclica Pascendi, del
1907, contro il modernismo. Non sembra che contenga definizioni dommatiche nuove;
Pio X, come il suo successore nell’enciclica Casti connubii, non sembra
che abbia voluto manifestare la volontà di pronunziare, con tutta la sua
suprema autorità, una sentenza definitiva. È certo però che vi si espone la
dottrina dell’ordinario magistero della Chiesa, a cui siamo tenuti ad ubbidire
sotto pena di peccato mortale.
Autorità molto minore ha il decreto Lamentabili,
del 1907, anch’esso contro i modernisti. Essendo un decreto emanato dal
Sant’Uffizio, non ha valore di domma di fede, quantunque vi si condannino
proposizioni contrarie a verità di fede, altrove definite.
Quando
il papa non eserciti la sua infallibilità
Quando il romano pontefice non manifesta
la volontà di definire qualche dottrina, quantunque la ricordi e anche se ne
serva, non può dirsi che parli di quella dottrina ex cathedra. L’infallibilità
è, sì, un privilegio soprannaturale, ma l’uso di esso dipende dalla libera
attività di chi gode di tale privilegio. Con questo principio viene difeso il
papa Onorio I dall’accusa di aver insegnato l’opinione che in Cristo vi fosse
una sola volontà. Egli certamente si serve di questa dottrina e forse
indirettamente l’afferma, ma non manifesta davvero la volontà di definirla e di
proporla quindi come materia di fede (D. 251-252).
Non ogni
decreto pontificio, anche autentico, né ogni raccolta di proposizioni
condannate, è locuzione ex
cathedra. Prendiamo il Sillabo di Pio IX (D. 1701). Questo documento per
sé non è infallibile: è una raccolta degli errori e delle perniciose dottrine
moderne «riprovate e proscritte> dallo stesso pontefice in vari atti del suo
pontificato, come si ricava dalla lettera con cui il cardinale Antonelli ne
accompagnava l’invio ai vescovi. Perciò per conoscere l’autorità delle singole
proposizioni bisogna ricorrere alle trentadue fonti dalle quali sono desunte
(D. 1700).
Non è infallibile un documento pontificio
se non consta che il sommo pontefice parli a tutta la Chiesa. Questo si deduce dal fatto che
l’infallibilità è data al pontefice per conservare nella Chiesa l’unità della
fede cristiana; la certezza della fede è stata promessa da Dio ai
giudici da lui costituiti non in favore di chiese private, ciascuna delle quali
da sola può errare, ma per la Chiesa universale, che certamente non può errare.
Perciò, quando qualche vescovo o qualche diocesi particolare interroga il papa
o il Sant’Uffizio e la risposta non è diretta a tutta la Chiesa ma soltanto a
quel vescovo o a quella diocesi, tale risposta non è infallibile, se il
pontefice non indichi esplicitamente la sua volontà di definire per tutta la
Chiesa.
E’ chiaro poi che il papa, quantunque non
eserciti il privilegio della sua infallibilità, ossia non mostri la sua volontà
di definire una verità di fede, ha sempre il diritto d’insegnare anche in
quelle cose e in quei casi nei quali non è infallibile. E se ha il diritto
legittimo d’insegnare, tutti siamo tenuti ad ubbidire anche in quei casi in cui
non è infallibile. Ma di quest’ubbidienza si parlerà in seguito.
Concludendo dunque: perché si abbia
locuzione ex cathedra si richiedono quattro condizioni:
— che il papa parli alla Chiesa universale;
— che usi tutta la sua suprema autorità
apostolica;
— che intenda definire;
— che si tratti di una cosa riguardante la fede
e la morale.
Che una definizione, dunque, sia solenne,
non dipende, dal fatto che si usi una certa solennità esterna, ma dal fatto che
il giudizio speciale e definitivo espresso in cosa di tanta importanza, di
natura sua è solenne.
L’analisi dei documenti pontifici si fa
seguendo le norme sopra spiegate per i documenti dei concili.
3 - Del magistero ordinario
Al principio del Capitolo I abbiamo citato
le parole del concilio Vaticano, da cui risulta che dobbiamo credere per fede
divina e cattolica tutto ciò che è contenuto nella Sacra Scrittura e nella
tradizione, e che la Chiesa col magistero universale ci propone a credere come
da Dio rivelato. Esiste, dunque, nella Chiesa un magistero ordinario
infallibile, che ha quindi il potere di proporre dei dommi di fede. Anche nella
Munificentissimus Deus della definizione dommatica dell’assunzione
corporea di Maria Santissima al cielo si dice: «Il magistero della Chiesa, non
certo per industria puramente umana, ma per l’assistenza dello Spirito di
Verità (Io. 14, 26) e perciò infallibilmente, adempie il suo mandato di
conservare perennemente pure e integre le verità rivelate, e le trasmette senza
contaminazioni, senz’aggiunte, senza diminuzioni. Infatti, come insegna il
concilio Vaticano, ai successori di Pietro non fu promesso lo Spirito Santo
perché, per sua rivelazione, manifestassero una nuova dottrina, ma perché, per
la sua assistenza, custodissero inviolabilmente ed esponessero con fedeltà la
rivelazione trasmessa dagli apostoli, ossia il deposito della fede (Conc. Vat.,
Const. De Eccl. Christi. cap. 4) (12). Pertanto dal consenso
universale del magistero ordinario della Chiesa si trae un argomento certo e
sicuro per affermare che l’assunzione corporea della B. V. Maria al cielo -
la quale, quanto alla celeste glorificazione del corpo virgineo dell’augusta
Madre di Dio, non poteva essere conosciuta da nessuna facoltà umana con le sole
sue forze naturali - è verità da Dio rivelata, e perciò tutti i figli della
Chiesa devono crederla con fermezza e fedeltà ».
La Chiesa esercita il suo magistero
ordinario in diversi modi.
1) Magistero ordinario
per dottrina espressa.
Il magistero ordinario si esercita prima
di tutto per mezzo della dottrina espressamente proposta e che viene
comunicata, fuori delle definizioni formali, dal sommo pontefice o dai vescovi
per tutta la Chiesa.
Anche in questo caso, perché si abbiano
verità dommatiche, si richiede che siano proposte come rivelate. Così per
esempio, in tutti i catechismi si afferma l’esistenza del limbo per i bambini
morti senza battesimo: tale verità non è ancora domma di fede, perché non venne
mai proposta come verità rivelata.
Nel comunicare la dottrina cattolica ai
fedeli la Chiesa accetta la partecipazione degli autori sacri, specialmente di
quelli da lei espressamente approvati, come sono i santi padri, i dottori e i
grandi teologi dei quali essa tacitamente o espressamente approva la dottrina,
come Alessandro d’Ales, Duns Scoto, Suàrez, Lugo e tutti gli altri teologi che
insegnano con l’approvazione della Chiesa.
Ora, anche il magistero ordinario della
Chiesa può, di diritto, bastare perché la verità che viene proposta sia di fede
cattolica, sebbene la Chiesa più volte abbia giudicato necessario intervenire
con una definizione solenne; quindi tutto ciò che riguarda la fede e i costumi,
e che dal magistero ordinario viene infallibilmente insegnato come rivelato,
deve considerarsi verità da tenersi di fede divina e cattolica, benché di fatto
molti non lo dicano.
Ecco, per esempio, alcune verità espresse
in documenti della Chiesa da credersi per fede divina e cattolica.
Nell’enciclica Diuturnum illud (del
1881) di Leone XIII s’insegna che l’origine divina della potestà civile è con
evidenza attestata dalla Sacra Scrittura e dai monumenti dell’antichità
cristiana (D. 1856). Nell’enciclica Arcanum divinae sapientiae (1880)
dello stesso Leone XIII, sul matrimonio cristiano, s’insegna la divina
istituzione di questo sacramento, la sua indissolubilità e il diritto esclusivo
e integrale della Chiesa sul matrimonio dei cristiani (D. 1853). Nell’enciclica
Providentissimus Deus (del 1893), sempre di Leone XIII, questi due punti
sono sicuramente di fede cattolica: la nozione cattolica dell’ispirazione e
l’assenza di ogni errore nel testo scritturale fedelmente conservato. Perciò
che i libri della Scrittura godano in tutto di autorità infallibile è di fede
cattolica, quantunque non sia solennemente definito (D. 1952). Nell’enciclica Immortale
Dei (del 1885), anch’essa di Leone XIII, s’insegna la massima indipendenza
della Chiesa dall’autorità civile, e che essa per istituzione divina ha piena e
assoluta autorità nel campo suo (D. 1866-67). Il Simbolo atanasiano (D.
39), approvato dal magistero ordinario dei sommi pontefici, che lo fanno
recitare ai sacerdoti nel breviario, ha valore dommatico.
Così dal magistero ordinario vengono
insegnate quelle verità dommatiche che sono contenute nelle formule di
professione di fede richieste dalla Santa Sede, come per esempio, nel simbolo
di papa Ormisda (D. 171) sull’infallibilità del romano pontefice, nella
professione di fede tridentina di Pio IV (D. 994), nel giuramento contro i
modernisti (D. 2145). Le proposizioni contenute in questi documenti, quando
certamente si può provare esservi insegnate come rivelate, sono di fede
cattolica. Se inoltre vi si trova qualche verità non rivelata, questa è sempre
una verità certissima; e anche in questa il .papa è infallibile, e il negarla
sarebbe peccato mortale. Quanto poi al simbolo degli apostoli e a quello di
Costantinopoli è chiaro che tutto ciò che in essi è contenuto, anche nelle
minime parti, è di fede cattolica.
Le verità dottrinali e morali contenute
nelle liturgie approvate per la Chiesa universale, specialmente le verità che
riguardano i sacramenti e il santo sacrificio della messa, sono verità di fede
cattolica anche prima che siano definite da qualche concilio; così pure le
verità rivelate contenute nell’approvazione solenne degli ordini religiosi
fatta dal pontefice per tutta la Chiesa, specialmente l’eccellenza dei consigli
evangelici e l’utilità soprannaturale dei mezzi di perfezione che sono
contenuti nelle regole di tali ordini. Perciò se qualcuno disprezzasse i
consigli evangelici sarebbe eretico.
Vi sono però alcuni documenti pontifici
che non è facile distinguere se appartengano al magistero ordinario o a quello
solenne, benché questa distinzione non abbia una grande importanza. Citiamone
alcuni.
La lettera dommatica di Leone I a
Flaviano, vescovo di Costantinopoli, dov’è esposta con somma autorità la dottrina
cattolica intorno all’Incarnazione, lettera che dal concilio di Calcedonia fu
ritenuta come un giudizio dottrinale definitivo obbligatorio per tutti (D.
143). La lettera dommatica di papa Agatone intorno alle due volontà in Cristo:
contiene un giudizio definitivo e irreformabile perché il papa dichiara essere
fuori della fede chi ritiene-diversamente (D. 288). La bolla Unam sanctam di
Bonifacio VIII: il domma è contenuto in fine, dove si afferma esser necessaria
la sottomissione di tutti gli uomini al romano pontefice (D. 469). La
costituzione Benedictus Deus di Benedetto XII, relativa alla visione
beatifica, che le anime del tutto purificate hanno immediatamente dopo la
morte: questa verità è domma di fede. (D. 530). La costituzione Cum
occasione, di Innocenzo X, in cui si condannano come eretiche cinque
proposizioni di Giansenio (D. 1092).
Esistono
molti altri documenti nei quali le proposizioni sono condannate in globo: e
allora non è facile precisare con assoluta certezza ciò che in essi è da ritenersi
di fede. Tali sono la condanna degli errori di Wicleff nel concilio di Costanza
(D. 581), la costituzione d’Innocenzo XI che condanna gli errori di Michele de
Molinos (D. 1221), la costituzione d’Innocenzo XII che condanna gli errori di
Fénelon intorno all’amore purissimo verso Dio (D. 1327), la costituzione di
Clemente XI che condanna gli errori di Pascasio Quesnel (D. 1351).
2) Magistero ordinario
per dottrina implicita.
La Chiesa esercita il suo magistero
ordinario non soltanto dichiarando espressamente. la dottrina da tenersi per
fede, ma anche mediante la dottrina implicitamente contenuta nella prassi,
ossia nella vita stessa della Chiesa.
La dottrina
divina, infatti, comunicata alla Chiesa dalla parola di Dio, o il deposito
della fede, può essere trasmessa per tradizione scritta, per tradizione orale
e anche per tradizione pratica. Modi questi dei quali l’uno non
esclude l’altro; anzi la trasmissione che avviene per mezzo della pratica,
almeno suppone sempre qualche altra dottrina esplicita trasmessa per iscritto o
attraverso la predicazione, in seguito alla quale si sia venuta formando la
pratica; poiché la vita morale, ascetica e liturgica dei fedeli, in tanto ha
valore di tradizione, in quanto si fonda su qualche dottrina. Quindi, qualunque
pratica cristiana che appartiene alla tradizione è congiunta con qualche
dottrina, la quale, se non altro, consiste in questo: che tale pratica sia
necessaria alla salvezza eterna, o che sia indicata nella rivelazione. Anche
Gesù poté insegnare qualche cosa per mezzo dell’esempio senza bisogno di
ricorrere alla parola esplicita: il contegno, per esempio, ch’egli ebbe verso
la madre sua, è da solo eloquente e dimostra la santità di Maria.
Bisogna poi qui notare che quando si parla
di pratica della Chiesa, piuttosto che riferirsi alla vita e all’azione dei
fedeli, dobbiamo principalmente riferirci all’azione della Chiesa gerarchica
che dirige la pratica dei fedeli.
Così per ciò che riguarda la liturgia, quantunque
non si possa dire, come pensano i modernisti, che essa crea i dommi, tuttavia,
appunto perché la liturgia riflette la fede della Chiesa, è prova di molti
dommi e perciò di molte verità teologicamente certe. Non c’è dubbio che nel modo
con cui la Chiesa prega e loda il Signore, esprime ciò che crede e come lo
crede e in base a quali concetti essa onora pubblicamente Dio. E benché non
ripugni che talvolta la Chiesa, in cose di poca importanza, tolleri in orazioni
antiche qualche espressione non del tutto esatta, non può tuttavia permettere
che in suo nome si usino nella liturgia modi di dire contrari a ciò ch’essa
ritiene e crede.
In particolare dalla liturgia si possono
provare i seguenti dommi e loro conseguenze: il domma della Trinità: il
prefazio della messa nella festa della S.ma Trinità e tutta l’ufficiatura può
ritenersi un piccolo trattato teologico; la divinità del Verbo Incarnato,
contro gli ariani e i sociniani, risulta da numerose feste e uffici; così la
divinità dello Spirito Santo, contro i macedoniani; l’umanità di Cristo: in
tutte le feste, a cominciare dal Natale fino all’Ascensione; la verginità della
Madonna prima del parto, durante e dopo il parto si può provare dalla stessa
ufficiatura della Natività di Nostro Signore; il primato di san Pietro, anche
quello di giurisdizione, e il primato del romano pontefice.
Con la liturgia si può confutare l’eresia
pelagiana e semipelagiana. I pelagiani dicono che la grazia non è necessaria o
che si richiede soltanto perché l’esecuzione sia più facile; i semipelagiani
invece dicono che la grazia non è necessaria per l’inizio della fede e per la
perseveranza; mentre dagli oremus che la Chiesa usa nella liturgia si
prova tutto il contrario.
Con la liturgia si prova ancora il domma
del peccato originale; il domma dell’Eucaristia: basterebbe l’ufficio della
festa del Corpus Domini composto da san Tommaso; l’adorazione dell’Ostia
prova il domma della presenza reale; il domma del Purgatorio; il domma
del culto dell’invocazione dei santi; il domma della necessità e dell’integrità
della confessione sacramentale è implicitamente contenuto nella prassi della
Chiesa primitiva; il domma dell’assunzione nella festa dell’Assunzione, domma
ora definito.
Quanto alla vita giuridica della Chiesa,
bisogna dire che i concili generali e il papa non possono stabilire leggi la
cui osservanza sia peccato. Cristo, infatti, dette alla Chiesa la potestà di
giurisdizione per condurre gli uomini alla vita eterna; ma se la Chiesa nelle
sue leggi includesse il peccato mortale, obbligherebbe gli uomini a perdere la
vita eterna. Né, d’altra parte, Dio può dispensare dalla legge naturale. Perciò
la Chiesa non può definire come vizio ciò che è onesto, né, al contrario,
onesto ciò che è vizio; non può approvare ciò che sia contrario al Vangelo o
alla ragione.
Quindi nel Codice di Diritto Canonico non
può esservi nulla che si opponga in qualche modo alle regole della fede e alla
santità del Vangelo, poiché la legislazione ecclesiastica deve necessariamente
avere un nesso di dipendenza dai principi morali rivelati, che la Chiesa ha il
compito d’interpretare e applicare per tutti i fedeli. Anzi nel Codice, in
quanto la Chiesa vi insegna alcune verità pratiche e speculative come contenute
nel deposito della rivelazione, le spiega e le propone in modo obbligatorio,
non si può negare che si trovano chiaramente espressi alcuni dommi. Di più vi
sono nel Codice alcune cose che possiamo chiamare fatti dommatici, in
quanto la Chiesa determina in specie alcune osservanze che nella legge divina o
naturale sono promulgate soltanto in termini generali, come, per esempio, il
precetto di accostarsi alla santa comunione. E finalmente la Chiesa nel Codice
deduce anche delle conclusioni più o meno necessarie dalle verità rivelate
e le impone. Perciò ogniqualvolta il Codice propone qualche dottrina
riguardante la fede e la morale come fondamento delle sue prescrizioni, questa
dottrina va ritenuta come insegnata infallibilmente dal magistero ordinario.
3) Magistero ordinario
per approvazione tacita.
Il magistero ordinario viene finalmente
esercitato dalla Chiesa anche in modo tacito, cioè per una tacita approvazione
ch’essa dà alla dottrina dei santi padri, dei dottori e dei teologi. Ciò
risulta dal permettere essa che tale insegnamento venga diffuso in tutta la
Chiesa. Si capisce però che quest’approvazione tacita non sarebbe da sé
sufficiente per avere un domma di fede.
Conclusione: quando dunque si dice che una
verità va creduta per fede divina e cattolica vuol dire ch’essa è un domma di
fede, cioè una verità rivelata da Dio e proposta dalla Chiesa. In due modi la
Chiesa propone le verità da credersi per fede: o solennemente o per mezzo del
magistero ordinario; se avviene solennemente, allora la verità si dice di fede
definita; se invece viene proposta dall’insegnamento ordinario nei vari modi
sopra esposti potrebbe senz’altro dirsi domma di fede cioè di fede divina e
cattolica[1].
[1] Bisogna tener anche presente che alcuni
autori, quando dicono che una verità è di fede, senza aggiungere altro,
intendono domma di fede: se tale domma sia definito solennemente o no, ciò
apparirà dalla natura del documento