Romano Amerio: LA DISLOCAZIONE della funzione magisteriale nella TEOLOGIA dopo il CONCILIO VATICANO II







Papa Francesco: 

«Il Signore – ha proseguito – tutti, tutti ci ha redenti con il sangue di Cristo: tutti, non soltanto i cattolici. Tutti! “Padre, gli atei?”. Anche loro. Tutti! E questo sangue ci fa figli di Dio di prima categoria! Siamo creati figli con la somiglianza di Dio e il sangue di Cristo ci ha redenti tutti! E tutti noi abbiamo il dovere di fare il bene. E questo comandamento di fare il bene tutti credo che sia una bella strada verso la pace. Se noi, ciascuno per la sua parte, facciamo il bene agli altri, ci incontriamo là, facendo il bene, e facciamo lentamente, adagio, piano piano, facciamo quella cultura dell’incontro: ne abbiamo tanto bisogno. Incontrarsi facendo il bene. “Ma io non credo, padre, io sono ateo!”. Ma fai il bene: ci incontriamo là!»  Papa Francesco e il dovere degli atei di "fare il bene" | Tempi.it 


 Romano Amerio: 
"L’uomo si salva senza la Grazia, senza il battesimo, per virtù delle sue opere di uomo religioso, buono, pio, giusto, si entra nel sistema pelagiano. E il sistema pelagiano me­riterebbe molta attenzione dai teologi moderni perché il mondo tutto pelagianizza".





 Romano Amerio

Dovendo dare un contributo al Con­vegno Teologico di si sì no no, vorrei sviluppare questo principio: la crisi della Chiesa cattolica è una crisi di dislocazione dell’autorità magisteriale che, dall’autorità del Magistero uni­versale, passa all'autorità dei teologi. Dislocazione che fu subito avvertita perché, negli anni appena a ridosso del Concilio, ci fu una viva reazione. Ma la gran massa dei teologi, in questi sei ultimi lustri, è riuscita a realizzare la rivendicazione che essi allora si proponevano di compiere: che, cioè, i teologi stessi fossero riconosciuti co­me partecipi dell’officio didattico della Chiesa; io ho tra le mie carte molti ritagli, molte prove, che la cosa era sentita come un pericolo.
Il concilio — bisogna dirlo — su questo punto affermò la dottrina pe­renne della Chiesa. Ma il pericolo si è pronunziato subito dopo. Qui non bi­sogna infatti dimenticare il gran prin­cipio metodico dei neoterici, Vescovi e periti conciliari: costoro indussero sur­rettiziamente nei testi proposti al Va­ticano II delle espressioni anfibule, che essi stessi si riservavano, a pub­blicazione dei testi avvenuta, di in­terpretare in senso novatore. Questa è stata la strategia perpetrata, e per­petrata esplicitamente, dai moderni­sti. C'è, a questo proposito, una dichia­razione importantissima — riferita an­che in Iota Unum — del gesuita olandese Edward Schillebeeckx, che suona espressamente: «Noi — le idee che ci premono — le esprimiamo in una maniera diplomatica, ma dopo il Con­cilio tireremo le conclusioni implicite». Quindi, come dire: — Usiamo uno stile diplomatico, cioè, secondo la forza della parola, «doppio», in cui la lettera viene formata in vista dell’ermeneutica, illuminando o annerendo le idee che ci premono o che non ci con­vengono. Si formarono così dei do­cumenti conciliari che, supponendo una successiva ermeneutica lassista e svigorente, andavano ad appoggiare le sentenze neoteriche. Senza contare che lo scandalo principale e radicale, da attribuire a Giovanni XXIII, fu dovuto al fatto che egli acconsentì che gli osservatori protestanti al Concilio non soltanto assistessero ai lavori delle commissioni, ma vi cooperassero in guisa tale che alcuni testi del Concilio sono non solo una elaborazione di teologi, e non di vescovi, ma di teologi protestanti.

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La dislocazione dell’autorità di cui vogliamo parlare è uno dei movimenti di ispirazione razionalista, umanistica e naturalistica più imponenti e radi­cati. Il suo gran principio è: le verità di fede sono partorite dal lavoro dell’intelletto umano.
Nella dottrina tradizionale, la fede è un superamento della ragione; se­condo la dottrina della Chiesa cattolica, per credere bisogna uscire fuori della ragione, andare sopra la ragione essendo, quello che è sopra la ragione, a lei estrinseco. Che sia fuori non vuol dire che ne sia l’opposto: vuol dire invece che ne è un completamento, un sussidio, e proprio per questo ne è fuori. Secondo la dottrina moderna, invece, la fede è una forma della ragio­ne, cioè è qualcosa a lei intrinseco. Questo vuol dire che per credere non occorre uscire dalla ragione.
La funzione del Magistero della Chiesa è di inculcare nello spirito dei fedeli le persuasioni soprannaturali: apprendere, attaccare, far aderire. La parola «insegnare» vuol dire «fare in maniera che uno sappia quello che non sapeva». Inoltre, la funzione del Magi­stero è anche apologetica, perché il maestro deve difendere quello che insegna. E lo deve difendere addu- cendo sia motivi offerti dall’autorità biblica, motivi quindi di ordine so­prannaturale, che motivi di ragione naturale. Per terzo, insegnare una cosa vuol dire anche farla «ritenere» alle menti a cui la si è insegnata, perché il maestro deve vegliare che il proprio insegnamento non vada né perduto né modificato.
Essenza del Magistero
A testimonianza della consapevo­lezza che, al tempo del Concilio, la virtù didattica qui ricordata si stava diluendo nella vacuità, si può ricordare quella dichiarazione venuta dall’auto- rità del cardinale Heenan, Primate della Chiesa d’Inghilterra, che in una della prime sessioni del Concilio cosi si esprimeva: «Oggi, nella Chiesa, non c'è più l'insegnamento dei Vescovi: essi non sono più un punto di riferimento nella Chiesa. Il solo punto in cui ancora si attua la funzione magisteriale della Chiesa è il Sommo Pontefice». Cioè, dove nessuno più insegna tutti inse­gnano; e dove non c’è più verità in­segnata è insegnatala moltitudine déF le opinioni. Ma quella- dichiarazione del Primate d’Inghilterra, a trent’anni di distanza, suona ottimistica, perché oggi neanche nel Pontificato si esercita, più la funzione magisteriale. Se, come abbiamo visto, il Magistero è la mani­festazione della Parola divina depo­sitata nella Chiesa, che la Chiesa ha per officio il dovere di insegnare, di predicare, questa manifestazione del­la Parola divina nell’attuale Pontifi­cato viene a mancare, o perlomeno, a declinare: non avrei scritto 57 chiose sul documento Tertio Millennio Adve niente se il Santo Padre avesse sempre insegnato e manifestato la Parola di­vina che è, essa sì, il vero «Magistero vivente» nella Chiesa, e non avesse invece manifestato del suo, esprimendosi in una maniera non direttamente e nettamente manifestativa della verità. Invece, ho fatto quelle chiose proprio perché anche il Santo Padre, nell’eser­cizio del suo magistero, non presta l’aiuto che i fedeli si aspettano dal Sommo Magistero: parla, ma non ma­nifesta quello che gli toccherebbe manifestare. Perché, bisogna pur dirlo, anche nei documenti più impegnativi non ogni parola del Papa è più Magistero, ma oramai spessissimo è solo espressióne delle vedute, dei pensa­menti, delle considerazioni diffuse pre­sentemente nella Chiesa: qui voglio dire precisamente che anche il Papa riflette nelle sue allocuzioni tutto un sistema di pensiero che è il sistema di pensiero di cui l’uomo oggi si com­piace.
Una dottrina privata è l’elabora­zione propria dell’individuo, ma qui non si tratta di questo: si tratta di dottrine che si sono diffuse e che sono divenute dominanti in gran parte della teologia. Dalla Tertio Millennio: «Cri­sto è il compimento dell'anelito di tutte le religioni del mondo e, per ciò stesso, ne è l'unico e definitivo approdo»; an­cora: «[non va trascurato] rincontro ecumenico con quelle antichissime for­me di religiosità significativamente ca­ratterizzate da un orientamento mono- teistico»; e ancora: «nel dialogo interre­ligioso dovranno avere un posto pre­minente ebrei e musulmani»; dalla Ut unum sint «L'infallibilità del Papa è una verità irrenunciabile della Chiesa. Però si dovrà trovare un modo nuovo di interpretarla ».
Quindi, anche le manifestazioni di­dattiche del Papa hanno assunto una caratteristica aliena dalla funzione ma­gisteriale suprema. Quando il Papa non manifesta la Parola divina che gli è affidata e che ha l’obbligo di manife­stare, esprime le sue vedute personali ' nel senso che abbiamo chiarificato sopra.

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Quindi, quella cui ci troviamo da­vanti è la manifestazione della deca­denza del Magistero ordinario della Chiesa. Il Papa deve custodire e ma­nifestare il Deposito della fede, la Rivelazione divina, ma la manifesta solo pallidamente.
Nel momento in cui il Papa desiste dal compiere questo suo primario do­vere si apre una gravissima crisi della Chiesa, perché è il punto centrale della Chiesa a soffrirne. Ma non c’è nessun organo di correzione superiore al Pon­tefice: infatti, il Primato del Pontefice romano è uno dei dogmi fondamentali, si può dire, della Chiesa.
Nel 1969 alcune parti allemanne sostennero, persino in faccia al Legato pontificio Cardinal Testa, che fosse il Concilio dei Vescovi ad assumere la fa­coltà, nei momenti di grave crisi della Sede Apostolica, di correggere il Pon­tefice o, estremamente, di deporlo. Ma questa dottrina includeva un grave errore, che è la negazione del Primato e quindi dell’infallibilità.
D’altra parte il Pontefice è infal­libile quando parla ex cattedra e, cioè, quando dice delle cose con l’autorità vicaria di maestro infallibile.
Negli ultimi trent’anni centinaia e centinaia di Vescovi, di Superiori re­ligiosi dei più diversi Ordini, di prelati di Curia e, in ultimo, il Sommo Pon­tefice, hanno progressivamente inde­bolito questo fondamento dottrinale che dissolve la fede e la sua radice soprannaturale in una miriade di opi­nioni private e personali. La ragione ; sta nel fatto che, il principio del Pon­tificato romano essendo il vero prin­cipio della Chiesa, se il Papa desiste, desiste la Chiesa e, se si abbatte il Papa, si abbatte la Chiesa. Il principio delfautorità della Chiesa è proprio uno solo: il Sommo Pontefice, il Vi­cario di Cristo che, da Cristo, ha ri­cevuto il mandato di confermare nella fede tutti i fratelli. «Confermare» vuol dire «rendere forte», «rendere fer­mo».

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Nella crisi del Concilio ha una parte rilevante quel tentativo fatto di spar­tire tra il Papa e i Vescovi il Magistero infallibile. Nel suo complesso, il mo­vimento antipapale è riuscito, nonostante la Nota praevia, perché questo spirito antipapale, antiromano, anti- autoritativo, oggi è ben diffuso. Anche i cristiani sono convinti che l’infallibili­tà si debba interpretare in un modo nuovo. D’altra parte, lo stesso pon­tefice Giovanni Paolo II fa delle dichia­razioni, come abbiamo visto, antipa­pali: «Ascolto la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del Primato — egli scrive nella Ut unum sint, al §95 — che, pur non rinunciando in alcun modo all'essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova». Che è come dire: È irrenunciabile, ma non è irrenunciabile. E un principio assoluto, ma non è un principio assoluto. L’infallibilità del Papa è una rupe immota, «però»... Quando dici «però» hai già operato il cedimento. Il nuovo modo darà un’al­terazione della verità che viene defi­nita irremovibile. Difatti serpeggiano già proposte di teologi luterani, appog­giati da teologi cattolici, che dicono che i protestanti potrebbero ammet­tere l’infallibilità concedendo che ri­manga come consuetudine e credenza peculiare solo alla Chiesa romana. E il Santo Padre, con quelle parole che abbiamo citato, sembra che acceda a quell’idea. Per cui si renderebbe di­sponibile a circoscrivere l’infallibilità in modo tale che, non essendo più universale, non sarebbe neanche più un domma di fede. Senza dire che sarebbe rotta la natura della Chiesa, perché se alcune diocesi credono e altre miscredono, è la natura che viene compromessa. La Chiesa e la fede sono una, mentre così la fede e la Chiesa sarebbero altra a Roma e altra a Berlino.

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Negli ultimi trentanni questa su­premazia pontificia ha ricevuto dei colpi più sordidi ancora di quelli ri­cevuti durante il Concilio. Infatti que­sta grave ferita al sommo del Santuario divino è solo mascherata dal fatto che l’autorità morale del Pontefice è oggi nel mondo cresciuta. Ma è un accre­scimento, quello a cui assistiamo, che non ha nessun significato religioso, non ha nessuna forma soprannaturale: il Papa è riverito come esponente dell’ idea umanitaria che deve costituire il fondamento del mondo futuro, quell’ idea umanitaria condannata con tanta forza nel Sillabo, nelle proposizioni LV: «Si deve separare la Chiesa dallo Stato; e lo Stato dalla Chiesa »; LXXVII: «Ai tempi nostri non giova più tenere la religione cattolica per unica religione di Stato, escluso qualunque altro culto»; e LXXX: «Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e conciliazione».
Il Santo Padre invece sembra che assecondi quest’idea perché parla sem­pre di un «nuovo mondo», di un mondo retto dalla giustizia, di un mondo in cui i popoli si amano e si riveriscono nelle loro distinte e buone tradizioni, di un mondo fraterno e pacifico dove regna la pace e il benessere su tutti i popoli. Ma, davanti ai capi delle Nazioni, il Santo Padre non parla mai dell’auto­rità del Cristo nel suo rappresentante sulla terra, non parla mai di Cristo Re, mai. Il discorso pronunciato all’ONU è un discorso tutto umanitario; soltanto in qualche luogo si accenna per o- bliquo al Cristo, ma sono accenni, per così dire, di forma, di complimento: il discorso è imbevuto e fa imbibere di umanitarismo perché il suo fine è umanitario.
Il Santo Padre parla poi di «nuova evangelizzazione», ma questa «nuova evangelizzazione» o è il ripetere il Buon Annuncio oppure è annunziare una qualche novità. La novità è nell’ annunzio umanitario, che prescinde dall’idea religiosa cattolica a cui invece si riferisce l’autorità della Lettera di San Paolo agli Efesini (Ef. 2,4°): «Una sola fede, un solo battesimo». La novità sanziona invece la religiosità umana per cui tutte le religioni meritano ri­spetto e tutte le religioni concorrono al bene dell’umanità. Ma se la nostra religione si diluisce nel sentimento religioso universale è una religione che non c’è; la nostra religione, se non è un primum, non è niente e, se non è la luce, è nigrificata.

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Il solo conflitto con il mondo è sui punti di morale, come l’indissolubilità matrimoniale, come l’aborto, come le Tavole della legge morale in genere. Il Santo Padre, su questi punti, ha per­severato sulle posizioni doverose per lui, ma in tutte le altre, cioè nelle posizioni dogmatiche, il dissolviménto della Dottrina nelle sue proprie opi­nioni è, come abbiamo sopra visto, crescente.
I successi del Santo Padre nel mon­do sono difatti grandiosi: si muovono migliaia di giornalisti, ci sono incontri con i Grandi della terra; il Papa, poi, partecipa a pari alle riunioni ecume­niche. E tutto questo è importante, perché, così facendo, Giovanni Paolo II ha occupato il mondo: il mondo è oggi imbevuto delle sue idee sull’ecu- menismo, sulla bontà indistinta, in­trinseca e pareggiata di tutte le re­ligioni che tutte ex sese portano al Cristo, sul bisogno dei popoli di af­fratellarsi rimanendo nelle proprie spe­cie tradizionali e nelle proprie convin­zioni culturali, e via dicendo. Il Santo Padre è entusiasticamente accolto, ma non perché è il Pontefice Romano, ma perché è riguardato come il sommo esponente di questa generale men­talità «buona» del nostro mondo.
Il Papa manifesta la sua specialità, la sua peculiarità di «sommo», solo sui punti spinosi, i punti della morale che il mondo nega. Che nega però senza rendersi conto e senza che alcuno gli ricordi che la negazione dei punti mo­rali include la negazione dei punti dogmatici, perché la legge morale è la manifestazione del Verbo, cioè della Ragione divina, la quale Ragione di­vina si è incarnata e si chiama Cristo. La legge morale rimette direttamente al Verbo. Quindi la negazione della legge morale è una negazione impli­cita, ma non meno reale, del Verbo. H principio della Chiesa e il principio di tutto si chiama Cristo, che è il Verbo incarnato, che è la Ragione divina, che esprime la morale naturale. La legge morale è una legge razionale ed è l’espressione della Ragione divina: è sommamente ragionevole la legge mo­rale.
Il principio autoritativo del Sommo Pontefice è tale in quanto la sua parola è vicaria della Parola divina, esprime la legge morale assecondando l’Incarna­zione del Verbo.

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Le verità che tentennano nei di­scorsi e nelle Lettere Encicliche di Giovanni Paolo II, sono verità centrali. Sopra tutte le quali verità vi è la verità fondante del Cristianesimo: che, cioè, Dio si è rivelato hic et nunc, qui e non là, ora e non prima. Questa verità primigenia oggi è dubitata, come ab­biamo letto nella Lettera Tertio Millenio Adveniente: in quei paragrafi si sviluppa la dottrina nella quale si af­ferma che «il cristianesimo è la risposta all'anelito che sale da tutte le religioni: dal buddismo, dall’induismo, dall'isla­mismo». Ma il Cristianesimo non è una risposta a queste religioni («... di dei — diceva la regina Ester — che neppure esistono», Es 17k), perché il Cristia­nesimo è la Parola divina rivelata sol­tanto al popolo eletto, in un certo tempo, in un certo luogo, come ben canta il Salmo 147,20: «Non fecit taliter omni nationi».
Di potenza assoluta, Dio può sal­vare senza battesimo qualunque uo­mo; ma di potenza ordinata no, perché la salvezza senza il battesimo non è il sistema, non è nell’economia pensata e voluta da Dio. La salvazione di uomini senza battesimo è eccezionale, è extra­sistematica, perché non appartiene al sistema che si impernia sul Cristo e sulla trinitarietà stessa di Dio. Ma, quando si dice: L’uomo si salva senza la Grazia, senza il battesimo, per virtù delle sue opere di uomo religioso, buono, pio, giusto, si entra nel sistema pelagiano. E il sistema pelagiano me­riterebbe molta attenzione dai teologi moderni perché il mondo tutto pelagianizza.

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Nella stretta della sintesi, il deca­dimento autoritativo dall’autorità del Magistero episcopale all’autorità dei teologi si impernia su una realtà in­dividua, che è lo sviluppo che il Papa dà alle proprie opinioni private a detrimento della dottrina universale, del­la Tradizione. Ma c’è, oltre a questa che affligge l’apice, una seconda real­tà, più universale, più impalpabile, che si invera nella desistenza del Magi­stero episcopale, in tutto il mondo rattratto davanti alla prepotenza dell’ opinione teologica più disparata, varia e «ricca». Opinione disparata perché si dice disparato ciò che differisce per qualcosa di essenziale. Varia perché si dice vario ciò che differisce per qual­cosa di accidentale. Due cose dispari sono due cose di genere diverso; due cose varie sono due cose che possono appartenere allo stesso genere. Così anche nelle opinioni teologiche che pullulano in questi ultimi trent’anni nel mondo cattolico postconciliare: es­se divergono dalla Dottrina una e santa e perché quando sono dello stesso genere si distanziano negli accidenti e perché il più delle volte non sono nemmeno dello stesso genere della Dottrina; cioè non hanno quella me­desima radice soprannaturale che fa della Dottrina cattolica un unicum . Per terzo, poi, opinioni teologiche, dicevo, «ricche»:- nel senso che i teologi stessi parlano di «ricchezza» di pensiero teologico quando ad esso concorrono tante mentalità e non soltanto la men­talità della fede nostra, ma anche la mentalità delle fedi straniere: la pro­testante, l’ebraica, la buddista, l’isla­mica, l’animista.
Convergendo gli sguardi in questo tripode di opinioni varie, disparate e «ricche», in un certo senso si può dire che oggi la Dottrina della fede non è più una: l’unità della Chiesa dovrebbe essere essenzialmente un’unità teore­tica, dottrinale, perché si tratta di cose dell’intelletto, si tratta della teoresi: non è mica un’unità di stemmi o di vesti. Del resto, il Santo Padre so­stiene che c’è un’unità morale nelle varie religioni, tutte ordinate alla sal­vezza, per cui tutte le religioni é le culture sono «idealmente» l’uno, sen: za che ci sia un’unità dottrinale, con­fessando cioè che sono dottrinalmente disparate: nel dettaglio teoretico si trovano le differenze.
L’Unità di fede: ognuno di noi deve avere la certezza a priori di pensare che tutto ciò che pensano gli altri cristiani del mondo, e che in tutti i secoli hanno pensato, è identico al proprio creduto. Io devo essere certo a priori di credere tutto ciò che crede un altro cristiano senza andare a verifi­care ciò che quest’altro cristiano pro­fessa. Nel mio Iota unum, parlando di infallibilità, ho anche detto che ogni cristiano, quando enunzia una verità di fede, è infallibile. Per esempio: il San­to Padre ha enunciato infallibilmente che la Vergine Maria è esente dal peccato originale; ebbene, quando io dico che la Vergine è esente dal pec­cato originale, cioè quando ripeto il pronunciato del Sommo Pontefice, so­no infallibile, non posso dubitare di sbagliare.
Questa dottrina evidenzia la uni­vocità della Dottrina della fede: «uni­vocità» perché tante voci, milioni di voci, di miriadi di uomini, professano e sempre hanno professato l’unica Dot­trina che è il Verbo generato dalla Mente del Padre («Dio nessuno lo ha visto. Solo il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, egli lo ha conosciuto» Gv. 1,18). La fede, per natura una e univoca, oggi è invece la Tède dei carismatici, che non è quella dei neo- catecumenali, che non è quella del cardinale Ratzinger, che non è quella del cardinale Martini, che non è quella del Papa. E ciascuno va alla radio, alla televisione, e scrive sulle riviste e sui libri e rende testimonianza alla sua «particolare» fede. Tutte queste te­stimonianze, tutte queste manifesta­zioni di fede, hanno in comune tra loro il fatto che tutte hanno una certa attinenza con la fede cattolica: sono opinioni intorno ala fede cattolica e ‘dissenzienti dalla fede cattolica. Pos­siamo ancora dire che questi teologi sono cattolici? E San Tommaso d’ Aquino ci porterebbe a concludere con grandissima e dovuta preoccupazione: «E eresia sostenere opinioni sbagliate su argomenti di fede, specialmente se vi si unisce la pertinacia» (S. Th. I, q.32,a.4).

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A trent’anni di distanza è possibile accertare quanto il movimento, sia perfettamente riuscito poiché il po­polo cristiano oggi crede gli articoli di fede secondo la maniera divulgata da questi teologi.
Com’è segnalato anche sul mio ul­timo Zibaldone, io ho almanaccato una serie di dogmi di fede che non vengono più creduti dal popolo cristiano pro­prio perché rifiutati dalla teologia mo­derna, per cui oggi non si credono più i dogmi di fede secondo la formula ni- cena: che cosa crede oggi il popolo cristiano dell’Inferno? Crede quello che vanno dispuntando i teologi sull’ Avvenire o che caldeggiano le trasmis­sioni imponenti di Radio Maria: che l’Inferno non c’è, che se c’è è una forma di castigo, che va attenuandosi, che forse nemmeno Giuda è dannato per­ché forse, nell’ultimo punto vitale, l’ animo di lui si è pentito, che quindi probabilmente l’Inferno è vuoto, ma San Gregorio Magno, in una sua omelia, dava per certissima la dimora nellTnferno di Erode Agrippa (At. 12,23): «In quel medesimo istante, un angelo del Signore lo percosse, per­ché non aveva dato a Dio la gloria; e mori roso dai vermi».
Che cosa credono i cristiani oggi circa il Genesi? Credono che quello è un racconto simbolico; tutti i cristiani oggi su questo punto sono d’accordo, annientando una sentenza della Ponti­ficia Commissione Biblica del 1906 che confermava autorevolmente il ca­rattere storico del sacro racconto del Pentateuco. Che cosa pensano oggi i cristiani dell’Eucaristia? Che l’Eucari­stia non è la presenza reale del popolo cristiano: sì, perché il sillogismo neo- terico è costruito su queste somiglianze: l’Eucaristia è il sacramento in cui è presente il Signore, ma il Signore che è presente è misticamente lo stesso po­polo cristiano, quindi il popolo cri­stiano è presente nell’Eucaristia; la veduta comune oggi ammette sì l’Eu­caristia come il sacramento in cui è presente il Signore, ma il Signore che è presente è lo stesso popolo cristiano.
Che cosa credono oggi i cristiani circa la predestinazione? Bisogna qui segnalare la disformazione completa del concetto di predestinazione, per­ché i teologi moderni che ancora ne parlano, la intendono come previsione delle cose nell’uomo, non come la determinazione delle cose nell’uomo da parte di Dio. Ora, questa, è una falsificazione importante, perché la predestinazione, costituendo la parte che Dio ha nel disegno di salvezza eterna degli uomini, dal battesimo alla gloria, concerne il nostro fine ultimo, e il nostro fine ultimo è la cosa più importante che riguardi l’uomo. Se falsifichiamo il fine dell’uomo, cosa rimane mai dell’uomo?
È dunque confermato che la pra­tica avviata dopo il Concilio si è im­posta rovesciando le opinioni generali della cristianità. Dopo trent’anni, non si può che riconoscere che questa tendenza sia riuscita.
La fede cattolica è frantumata in mille opinioni sui Novissimi,in mille Opinioni sulla verginità di Maria, in mille opinioni sulla presenza reale nell’ Eucaristia, sui sacramenti, sulla Chie­sa, sul Primato petrino, e persino sulla Trinità. Non c’è articolo del Credo, del Simbolo della fede che ogni domenica si professa alla Messa, che non sia ferito da opinioni e opinioni professate a dispetto e contro la fermezza assoluta dei suoi articoli. Il cristiano quindi perde la fede perché perde l’unità: non c’è una fede che non sia^ s una. Questa dispersione nelle opinioni significa la dissoluzione della fede.

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Nella Summa, la dispersione dell' uno nel molteplice, in quanto alla verità, è ben individuata e riconosciuta: «La prima verità è oggetto dell’incre­dulità come punto dal quale essa si allontana; mentre la falsa idea che viene abbracciata ne è l’oggetto formale, come termine verso cui si volge: e da questo lato le sue specie sono molteplici. Perciò come unica è la carità che a- derisce al sommo bene, mentre molte­plici sono i vizi opposti alla carità, che se ne allontanano, sia volgendosi verso i beni temporali, sia per i diversi rapporti disordinati verso Dio; così anche la fede è un ’unica virtù, per il fatto che aderisce all’unica verità; ma le specie dell’incre­dulità sono molteplici, per il fatto che gli increduli seguono diverse false opinio­ni» (S. Th. II-II, q. 10, a.5, ad.l).
Soltanto che, oggi, quelli che ne­gano gli articoli di fede professati la domenica mattina, non lo confessano più, non lo dicono più: ieri c’erano gli ariani, i donatisti, i sabelliani; poi c’e­rano i luterani, i calvinisti, i valdesi. Oggi gli eretici rimangono . cattolici come i cattolici, perché non c’è piu'to spavento della contraddizione, il pu­dore della distinzione delle cose cat­toliche dalle cose non cattoliche.
La contraddizione è una cosa pro­fonda, anzi è uno dei princìpi primi, ed è la cosa più profonda dell’essere per­ché è con l’essere nella più stretta rela­zione. Se l’essere è profondo, cioè è un principio primo, la sua contraddizione, la sua contrarietà, è parimenti pro­fonda, è alla pari primo. Quando siamo in questo ordine di riflessione siamo nel più profondo: non si può andare oltre. Quindi, della contraddizione bi­sognerebbe averne riguardo, timore, spavento. Oggi invece la contraddi­zione non terrorizza: le andiamo in­contro, la accogliamo, la abbracciamo: tutto è nel tutt’altro e non cattolici sonò cattolici.

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Sant'Agostino distingue nell’atto di fede tre concetti: «Credere Deo, credere Deum, credere in Deum». Ri­guardo a questi tre aspetti dell’atto di fede cristiano, come si pongono oggi i teologi che fanno opinione? Mi pare che il concetto che svanisce è il con­cetto di Dio come cosa creduta, «cre­dere Deum», cioè si dissolve Dio come materia di fede. Invece «credere in Dio», cioè affidarsi con un moto dello spirito alla volontà di Dio, è una cosa che anche i teologi moderni sosten­gono; sopravvive qui l’aspetto fiducia­rio della fede, quello più affine al concetto di fede che hanno i luterani, per cui «si procede verso Dio creden­do», come dice San Tommaso nella Summa (S. Th. II-II, q.2, a.2) e «della fede si fa carico la carità». Ma se non credo Dio, meno credo a Dio. Infatti, se non credo all’esistenza di Dio così come è enunciata nel Simbolo Niceno- Costantinopolitano, come crederò mai alla forza della sua Autorità?
Il frutto della dislocazione dell’ autorità didattica della Chiesa dalla Gerarchia del Magistero alla massa dei teologi è il decadimento della prima Autorità a cui essi dovrebbero credere, è la dissoluzione dell’Autorità creden­do la quale la fede viene specificata, essendo il motivo della fede «credere ciò che è stato detto da Dio». Infatti, se si dubita dell’esistenza provvidente dell’Autorità non si potrà credere cer­to che le Scritture abbiano in essa origine, e difatti oggi le Scritture sono lette come un genere letterario analogo a quello delle tradizioni islamiche, in- duiste, giudaiche: sono una tradizione umana. Casomai, Dio non è la loro causa ma il loro frutto, la loro con­seguenza.
Ma tutti i teologi credono quello che credono solo in forza di ciò che i loro ragionamenti e le loro opinioni autorizzano a credere: tutta l’autorità sta lì. Non è l’Autorità soprannaturale che si disvela e che porta a credere al di là della ragione, ma è un’autorità ra­gionevole, ponderata, scientificamen­te dimostrabile.
C’è una questione, nella Summa di San Tommaso (S. Th. II-II, q.5, a.3) che domanda se un eretico, rinnegan­do un articolo di fede, possa avere una fede informe sugli altri articoli. La risposta è sulla negativa, perché gli articoli di fede si credono perché ri­velati da Dio e l’uomo non può di­scernere articolo da articolo, e un ar­ticolo respingere accettando invece gli altri perché, così facendo, ha già rin­negato il principio della fede: tutti gli articoli di fede si credono «perché sono rivelati». Se tu ne escludi uno intendi che quell’uno non sia rivelato e offendi il principio generale della fede, che non è in te, ma che è fuori di te. San Tommaso insegna tante volte che la causa formale della fede è proprio la veracità di Dio.
Oggi l’uomo vuole credere solo ciò che riesce a capire: qui la fede mette le radici nell’uomo e le toglie da dove devono stare, in Dio, in Cristo Gesù, nel Verbo rivelatore, come ricorda 1’ Apostolo: «Non tu porti la radice, ma la radice porta te» (Rm. 11,18).
Il significato dell’atto di fede viene generalmente trascurato. Il «credere» sembra un atteggiamento psicologico arbitrario. Invece, il «credere» sup­pone l’immolazione del principio su­premo dell’uomo: un sacrificio più alto non possiamo farlo, perché sacrificare il senso è certo una cosa che ha valore, ma sacrificare l’intelletto, che è la parte suprema dell’uomo, questa è un’azione quasi incredibile: può com­pierla solo la forza della Grazia. La prepotenza della ragione privata si manifesta nella pretesa di scegliere: «questa cosa non la credo, perché non mi pare né ragionevole, né possibile; questa invece la credo, perché la trovo ragionevole e possibile». L’eretico si spiega, come ogni parola, con l’eti­mologia. «Eresia» è un vocabolo di origine greca, che viene dal verbo ai- rùmai, che vuol dire «prendo», «scel­go». L’eresia è una «elezione» delle cose da credere. Questa elezione vien fatta in base al criterio individuale, mentre gli articoli di fede, tutti, si devono credere perché rivelati e basta.
La funzione della teologia è di chia­rire, di articolare bene quello che cre­diamo. Se noi crediamo, per esempio, l’Immacolata Concezione, la teologia deve chiarire il concetto di «immaco­lata», deve chiarire il concetto di «con­cezione», deve quindi dare una mol­titudine di chiarimenti su tutte le parti del dogma perché il dogma sia disve­lato nella sua interezza e nella sua pro­fondità. All’opposto, i teologi innova­tori, quelli della nuova evangelizza­zione, si fondano sul principio che quello che crediamo deve essere in­telligibile, deve essere razionale e, per cercare questo elemento di intellegi- bilità, negano la sostanza della fede: infatti, se tu credi di intendere qualche cosa del dogma dellTmmacolata Con­cezione, sei un eretico. Vuoi intendere qualcosa che, essendo per natura sovraintelligibile, non può essere in­teso. Se tu pretendi di intenderlo, se tu pretendi di risolverlo nella tua razio­nalità, sei eretico: neghi l’ordine so­prannaturale, neghi l’ordine della fe­de.

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Ci sono delle cause a tutto questo dissolvimento della dottrina nelle opi­nioni, a questa dislocazione dell’insegnamento dal’autorità episcopale al lume privato? Vi sono le cause generali morali di ogni atto: qualcuno lo fa con superbia: qualcuno lo fa per invidia; qualcuno lo fa per qualche altro motivo irragionevole: le cause di questa nuova teologia sono le cause di ogni aber­razione dello spirito. Bisognerebbe poi indicare la causa di queste cause in­dividuali: perché uno diventa invidio­so? Perché uno diventa vanaglorioso e desidera spiccare? Bisognerebbe risa­lire al diavolo. San Gregorio Magno così concludeva: «Dalla vanagloria na­scono le stravaganze dei novatori»; e San Tommaso ricorda due volte questa sentenza di San Gregorio proprio nelle questioni riguardanti l’incredu­lità (S. Th. II-II, q.10, a.l).
Le cause generali invece, nel nostro caso, non sono cause che si possono individuare, dove si possa mettere il dito lì e dire: è lì, o mettere il dito qua e dire: è qua. E lo spirito del mondo, lo spirito del mondo che ha investito e ha penetrato la Chiesa. Non si può quindi indicare un fatto come causa perché tutti i fatti particolari che possiamo segnalare sono già espressione di quel fatto generale che, essendo generale neanche può chiamarsi fatto. La so­stanza del mondo non si identifica ancora con la sostanza della Chiesa, però ha corrotto e continua a corrom­pere la sostanza della Chiesa. Quale sarà la conclusione di questo processo è un segreto suggellato nel cuore di Dio.
Le cause generali, aeree, sono la manifestazione e la diffusione delle cause individuali. Quest’atmosfera er­ronea non ha altra causa che l’indi­viduo errante e, l'errore degli indi­vidui, è dovuto a una di quelle cause comuni proprie della vita morale.

Una notte di poco tempo fa feci un sogno. Ero sulla soglia, e il Santo Padre Roncalli occupava la soglia. C’ erano altre persone, che però io non discernevo. Sentivo che dicevano, ri­volgendosi a lui: «Santità». A un certo momento, io parlai distintamente e a voce molto alta, per dire queste parole:
«Santità, c’è una cosa di cui il mondo moderno ha tanto bisogno: tanto; tanto; tanto; tanto (l’ho detto quattro volte): l'intelletto; l'intelletto; l'intelletto; l'in­telletto (l’ho detto anche questo quat­tro volte). Invece oggi ci predicano soltanto l'amore; ignorando che lo Spi­rito Santo “procede” dal Verbo cioè l'Amore procede dalla Ragione. Di que­sta Ragione, Santità, la nostra reli­gione, o il nostro sacerdozio, non fanno più nessuna menzione». Quando io eb­bi finito, il Santo Padre, avendo in mano un libro, è entrato, ed ha appog­giato il libro su un tavolo.
Il primum è l’intelletto. Ho detto «intelletto», ma potrei dire anche «ra­gione».
Questo sogno adombra una dot­trina. Lina dottrina a cui gli uomini di Chiesa oggi vengono meno: la dottrina per cui il primum non è l’amore, ma l’intelletto; non la volontà, non il moto, non il trasporto (lìelan), non la pietà, ma la ragione, la conoscenza, la verità, la contemplazione, il pensiero, l’idea, il Verbum.
Oggi, i teologi neoterici non ten­gono più, come primum, il Verbo, ma tengono l’Amore. Però, così operando, non possono tenere l’Amore nella sua verità e quell’amore che tengono è un amore falsificato: se l’Amore perde la sua relazione essenziale con la Ragione, che è una relazione di proces­sione, l’Amore stesso si snatura. L’ amore senza regola confonde Tamore di sé con l’amore degli altri e l’amore di ogni cosa. Perché è proprio il Verbo quello che determina, è il Verbo quello che stabilisce il limite, il fondamento, l’orizzonte; l’amore invece, di per sé* è incapace di ogni determinazione. Quin- . di l’Amore deve avere sempre un riferimento a una cosa che è prima dell’Amore: come un fiume, deve scor­gere nel suo letto, non deve straripare per le terre sennò le stesse acque salutari si mutano in mortali. L’Amore procede dal Verbo, ed è misurato dal Vèrbo.      
R. Amerio


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