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IL MONDO SENZA PAPA, per Louis Veuillot


Estratto dal libro 
"Il Papa e la diplomazia" 
di Louis Veuillot

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E se delitto siffatto si compiesse? Se il Papa fosse cacciato dal mondo, che cosa avverrebbe del mondo?
Per saperlo, basta volgere uno sguardo alla terra nella florida età in cui non erano Papi.
Il mondo prima del Papa, il mondo senza il Papa, è il Paganesimo.
In quattro mila anni il Paganesimo avea pro­creata la possanza di Roma e il suo incivilimento; e la possanza e l’incivilimento di Roma appella- vansi Nerone. L’una e l’altro venian meno a poco a poco per una agonia di tre secoli, durante i quali il genere umano tutte dovea raccorre in un fascio le miserande sciagure che precedentemente aveanla, fui per dir, divorata. Roma, ultima Don­na della terra innanzi Cristo, fu di tutte la più crudele e la più saggia. Stava per divenire la più obbrobriosa. Ma già sorgeva una stella e span­deva sulla fronte dell’uomo raggi di gloria sco­nosciuti fino a quel tempo, essendo che nemme­no l’innocenza primitiva comparve fregiata della triplice fulgente bellezza, vò dire, della Redenzione, del Pentimento, dell’Amore.
Roma, ove sì maschie sentenze e tante grandi virtù naturali avean tenuto lor seggio, quella Ro» ma la quale Iddio, secondo là frase del Bossuet avea ricompensata col farla Regina dell’universo, non era più. Il torrente delle sue prosperità aveala trascinala con sè, e fattala disparire. Disse già uno degli scrittori suoi ch’ella avea in sè raccolte le reità del conquistato mondo, e di tal guisa i vinti si erano vendicati di lei. Ma onde poi quei vinti medesimi aveano tratte le loro nequizie? Com’è di ogni natu­rale cosa, le virtù naturali incanutiscono e passano; a perdurare a ringiovanire bisognano di una nozio­ne e di un principio soprannaturale. Difettavane Roma, e Dio non ne avea ancora fatte ricche le genti. In Roma non più onore alla virtù, alle gravi sentenze, agli Iddìi ; ella naturalmente dalla repub­blica fè trapasso all’Imperio, e l’imperio, di Augusto fu mestieri diventasse quello di Tiberio, di Caligola, di Claudio, di Nerone. Gli uomini dotti han per costume di laudare a cielo que’tempi repubblicani. Nè v’ha cittadino in Europa, fra quelli che pure inorridiscano alle imprese Garibaldine, i quali non abbiano composto qualche rettorico squarcio in en­comio della tribuna che ora tace sciaguratamente ; e del foro, oggi però condotto a servitù. Ma una repubblica che producea cittadini quali i Catilina ed i Cesari, e in mezzo ad essi un Cicerone cu- stoditor delle leggi; una repubblica siffatta dovea trasformarsi così indubitatamente in Imperio, come indubitatamente duri freni di autorità costringeranno ogni popolo sovra cui signoreggi un Garibaldi. 
La divina Provvidenza non adopera con incoe­renza, nè la permette alla comunanza civile. Dai Principii cui Esso suggella e dalle negazioni che i mortali vi oppongono, procedono, senza riparo, le conseguenze da Lui volute. Quanto spesso cade l’uomo in inganno su ciò! L’affetto ch’ei porta alle opere del suo ingegno e della sua mano, restrigne vie più sempre la virtù della sua già corta vista, e gli bastano alcuni istanti di equilibrio, tutto che ar­duo, fra i principii e le negazioni predette, perchè egli creda alla durata di quanto egli stesso fondava sulla contraddizione; se non che il principio ch’ei si confidava tener represso, genera ben tosto le con­seguenze, le quali urtano, si incalzano, si affollano, e niente è che possa perpetuamente, o per lunga ora signoreggiarle. E allora appunto che per virtù della mano, ancora invisibile, della Chiesa, la con­traddizione stava mutando la faccia della terra e co­struendo un ordine lutto nuovo; piacque alla Prov­videnza testimoniare non avervi, pel civile consorzio, nè dignità, nè libertà, nè prosperità vera aU’infuori delle condizioni da lei poste pel conseguimento di beni siffatti. Quando Roma, sitibonda di pace civile trova­va necessariamente rifugio nel dispotismo, Dio fece a lei il dono, forse il più prezioso d’ogni altro che mai (innanzi l’avvenimento delGristo) fosse largito ad un ordin di cose pericolante, dielle cioè un dominatore tutto pace, amico della Romana bellezza,, del suo genio, della sua gloria, e dirò anche della sua libertà.
So bene chi fu Ottavio : valeva egli solo quanto tutti i Romani del tempo di sua giovi­nezza , gli ultimi Romani della repubblica ; io noi pongo nè al di sopra, nè al disotto di quelli che lo circondavono ed aveanlo educato, di quelli ch’egli proscrisse, di quelli che volèano proscri­vere lui. Ma non scorderò che Ottavio era paga­no, ch’ei divenne Augusto, ciò vale, un uomo che si emendò che si fè migliore, più saggio, più clemente, più pacifico, più generoso nell’eser­cizio del suo potere assoluto. La storia non porge, molti di cosiffatti esempii, nemmeno fra i Cristia­ni. Con ben più di ragione che Bruto, che Ci­cerone e gli altri nemici ed assassini di Cesare, Augusto è degno di essere appellato l’ultimo dei Romani. Di animo veramente liberale, non fece, come la più parte dei novelli Signori, una stu­pida guerra a quanto ha di egregio il passato. Non esigette che Roma annoverasse gli anni della vita di Lei dagli anni della vita propria e di quella .dell’Impero; chè anzi onorò di suo favore il Pompeiano Tito Livio, il quale scrivendo la storia della repubblica, usò colori sì fulgidi e sì gentili. Amante svisceratissimo di Roma e delle glorie £ lei, che cosa non immaginò egli mai, che cosa lasciò intentata per ridonarle virtù? La Metropoli dei sette colli gli decretò altari, s’incurvò sotto la mano sua più ch’egli stesso non sembrava desiderare; ma gli ricusò la gioja che avrebbe provato in vedendo la regina della terra e dei mari sprezzar meno quelle virtù ond’ei porgevasi esempio, e vagheggiar meno quei vizii che la menavano a morte.
Senza violenti scosse e quasi senza contrasti, Roma dal dominio di Augusto passò a quello di Tiberio, nome a lei già noto; e Tiberio, il qtiale se n’era ito a rifugio in un’isola onde non usci che una volta sola, raccapricciando di paura, governò in tutta sicurezza Roma tremante pur essa e il mondo suddito a lei; e lasciò l’una e l’altra, più degradati, in eredità a Caligola, un pazzo, che li invilì ancor davvantaggio sino al giorno che Claudio, saccentone, li ricevè quasi forzatamente da una sedizione dinanzi la quale «gli era fuggito; e dopo Claudio, la Città eterna e l’Imperio erano scesi a tanta abbiettezza da essere fatti degna eredità di Nerone.
Noi non viviamo in un secolo nel quale ciascun uomo abbia il diritto di sprezzar que’Signori di Roma, nè il popolo che ad essi obbediva. Quanto alla crudeltà, quel giorno in che Tiberio fè versare la maggior copia di sangue sotto la scure,, non fu che un dì temperato a rispetto di quelli della Con­venzione, e l’Italia non è oggi priva di liberatori, de’quali Tiberio avrebbe potuto imparar qualche cosa intorno l’arte di metter pace fra i popoli. È in esso un re, il quale, permettendo a’ generali suoi di bombardare Città nel mentre che patteggiavan la resa, promette all’ Italia dominatori in compara­zione de’quali gl’ Imperatori delle età pagane sem­breranno essere stati di ben mite coscienza. Caligola non potea destare grandi timori se non per cagione de’suoi amici e di qualche altero capo che pur ri­maneva; egli ottenne il favor dell’armata, come poi Nerone quello del popolo. Claudio fu un dabben uomo/nè per propria colpa diventò Signor della terra. Nerone si piacque della gloria dell'intelletto e degli spettacoli singolari, incorò l’arti, abbellì Roma, detestò i Cristiani, e fè disegno di esterminare le loro superstizioni e liberarne lo Imperio. Finalmente, benché sprezzatore della divinità, (co­mune distintivo dei tiranni) Contemptor Divum Mazentius non si gloriava però di essere un empio.
Nerone, quell’infame, parricida, istrione èra un dominatore di tal fatta quale dovea uscire dal Paganesimo. Era Sovrano Pontefice, Dio egli me­desimo come Augusto e tutti gli Imperatori : avea templi, sacerdoti, sacrifìci, era il più rispettato degli Dei, ed anche degli Dei Imperatori.
E l’età che vide Iddìi siffatti non fu la bar­bara ; chè anzi godevasi l’incivilimento il più per­fetto che il mondo avesse avuto giammai; incivi­limento addottrinalo, leggiadro, squisito, pieno di ogni dilicatura in fatto di lusso e di arte, e for­nito di si eccellente amministrazione, che tutto era indarno di potersi sottrarre al vigilantissimo sguar­do della Polizia. Il Romano accusato di lesa maestà, avess’ anche potuto escir fuori dell’ Imperio, repu­tava miglior senno escir della vita. Cesare consi­gliava un personaggio molesto o discaro ad ucci­dersi, e quegli si uccideva, dopo aver fatto testa­mento in favore di Cesare. Che cosa può imma­ginarsi più bella quanto a pubblica sicurezza ? Egli ben vero che gli uomini si andavano uccidendo di per sè medesimi, senza che Cesare li avesse di ciò dimandati, ma unicamente per non avere più a sopportare la vita, benché, certo, non difettassero passatempi. Sotto Nerone l’arte dell’apprestar le vivande fe’ progressi notabilissimi ; e divenne cosa possibile spendere 600,000 Franchi in un solo ban­chetto. Agli uomini toccava il ticchio delle peregrine cose, e chi bramavaie pagava 1,200 Franchi due piccole tazze d’un vetro nuovo, e 336,000 Franchi un sol vaso di mirra. Pacuvio avea banchettando divorata la Siria ; e quando gli schiavi suoi lo to­glievano via dalla mensa, tutto ebbro, i convitati cantavano: Egli ha vissuto ! Gli attori da commedia erano stimati gente di gran conto ; il tragico Esopo si fece ricco di quattro milioni, dopo di avere scan­dalizzato il popolo, durante l’intera vita, per le sue prodigalità. Ora, questi pochi cenni non fanno te­stimonianza di un illustre incivilimento?
Le intellettuali e letterarie dottrine erano, anch’ esse, pervenute al sommo. Gli Imperatori ne porgean l’esempio. Quelle amene lettere, la cui conoscenza ed il cui uso rendono, dicesi, l’uomo migliore furono mai alcuna volta meglio sapute che non sotto i primi Cesari, e trovarono esse mai discepoli più costanti ? Augusto scriveva nobilmente in prosa e in verso, avea composto tragedie, avea fin anche avuta la perspicacia di conoscere non essere buono recitarle; Tiberio era correttissimo della favella e primo grammatico nell’ Impero; Caligola scrivea farse; Claudio era archeologo, eru­dito , uom di lettere, ellenista squisito. Nerone, dotto in ogni arte, cantore, mimo, architetto, poeta, mori recitando un verso di Omero.
Con tutto ciò le conseguenze im manchevoli dell’ignorare e dello sprezzare la verità veniano crescendo ed annientavan i singoli uomini e la civil compagnia. Roma moriasi di paura e di noja: il suicidio la divorava ; per timore di vivere s’incontrava la morte. Il più temuto degl’iddii fu Cesare; il Dio più invocato la morte. Tolies invocata morie ut nullum frequentilis sit votum, scrisse Plinio , e Lucano compiangeva gli Dei perchè aveano vita perenne.
In fatto di costumi, le matrone scendevan nel circo, e conducevano a Cesare le prostitute che poteano sapergli buone. Quanto alla famiglia, Tertulliano diceva ai magistrati : Chi è tra voi il quale non abbia ucciso un proprio suo figliuolo?
Piacciavi di ben considerare, o lettor mio, che quell’incivilimento, sì forte sì illuminato, sì corrotto, il quale largiva a sè stesso sollazzi si prodigiosi e moriva di noja tanto strana, e il quale avea tollerato un Caligola, e s’era lasciato dare un Claudio, e sopportava un Nerone, e non dissi­mulava la propria onta, e il quale, alla morte di cosiffatti dominatori, confessava che avrebbe forse avuto di che novellamente desiderarli; quell’inci­vilimento, io diceva, pervenuto ad ogni perfezione, ad ogni vitupero, ad ogni affanno, godeva delle tre libertà di Lutero. Libertà della carne, e quando ve n’ebbe maggiore? Dove mai i vincoli di famiglia furono meno molesti? Libertà di coscienza ; l’Impe­ratore era Pontefice e Dio, ma ben anche poco mo­lesto per la coscienza altrui siccome Dio e siccome Pontefice. Libertà di spirito ; certo il Romano che volea starsi contento ad adorare « in ispirito e ve­rità » non era molestato dall’obbligo del culto ester­no ! Fra le centinaja di divinità cui Varrone annove­rava nel romano Olimpo, l’uomo avea onde scerre, avea modo di spàndere l’amor suo e il suo disprezzo.
Tale fu Roma quando il primo Pontefice vi portò Gesù Cristo, cioè a dire la Fede la Speranza e la Carità. Tale fu la discendenza di Cicerone, di Virgilio, d’Orazio. Già da lunga ora la Grecia era morta insieme con Omero. Nè Omero, nè Cicerone, nè Virgilio, nè Orazio, fecero per la eterna Città ciò che non avea potuto fare Augusto, signore di lei e cui esso obbedì più lungamente e mansue­tamente che ad ogni altro : eglino non valsero a darle gente animosa; nè fu mai che bastasse a tanto quello spirito struggitore della civil compa­gnia ch’ella stessa porta nel proprio seno. Se il Cristo avesse indugialo alcuni secoli, non solo le arti, non solo l’incivilimento, ma l’uomo, l’uomo animale, sarebbe perito. La guerra, la tirannide, il circo, il suicidio, la dissolutezza stavano per estin­guere l’umana specie. Gesù Cristo, per le mani della sua Chiesa, salvonne l’anime e i corpi.
 Il Pagano incivilimento possedè, in ben più larga copia di quella che la moderna Europa potrebbe pensarsi giammai, que’ beni tutti cui la stolta e bassa invidia dell’Europa medesima oggi vediamo agognare. Essa ritorna troppo vergognosamente alle leggi, alle arti, ed alla letteratura del romano Imperio, e vagheggia quella unità mate­riale nella quale esso si affievolì, e per la quale si condusse a morte. La Chiesa avea fatto dimen­ticare lutto ciò, o, a meglio dire, avealo purifi­cato ed ordinato. Venne il Protestantésimo e violò le tombe dei Santi e dei Martiri, gittò al vento le loro ceneri vittoriose all’intendimento di rin­venire sotto di sé le pagane materiali reliquie e informarle novellamente del solo spirito del Paga­nesimo. E al dì d’oggi, sollecitata, quant’altri mai, a compiere l’incominciata impresa, e far tornare a vita la morte, la Rivoluzione, figlia del Protestantismo, propone all’umana follia di strappar dalle radici quell’albero di salute, piantato dalla mano di Dio sopra la terra perchè dia perpetui frutti rinnovellantisi, i quali soli possono salvare dalla rovina il civile consorzio, ed ogni singolo uomo dalla morte.
Se Dio permettesse che noi tutti pronuncias­simo quell’abiura stupidamente ingrata e sacrilega, se il Papa partisse di questo mondo in cui entrò sotto Nerone, ahimè, che in quel giorno lo spi­rito del male tuttoquanto ripiglierebbe il governo del mondo e tornerebbe a formarne la storia, ri­congiugnendosi a quel punto in cui esso spirito fu costretto di abbandonar l’uno e l’altra ai tempi di Nerone; e l’umano genere, decimato con bem compartita vece, immerso nel sangue e nel lezzo appiè di quell’ are vituperose, si dorrebbe di soc­combere troppo a rilento.
La conseguenza inevitabile e pronta della distruzione del regale Pontificato sarà il restaura- mento del sacerdozio, dirò meglio, della divinità imperiale ; e quel sacerdozio e quella divinità vor­ranno farsi universali, non altrimenti che fu universale quella Suprema Eccellenza, cui la stoltezza degli uomini avrà allora allora atterrata, e cui si darà ogni studio di esterminare per sempre, di proscrivere dagli ultimi confini del mondo, di sra­dicare dall’ estremo rifugio al quale avea riparato, vò dire, da quello delle coscienze.
In quel breve spazio di terra cui regge il civile Principato del Vicario di Gesù Cristo, ed è consa­crato a rappresentare poveramente quaggiù il reame del Capo dell’ecclesiastiche membra , il quale è Re dei regi, e Redentore degli uomini tutti (1), quel breve spazio, io diceva, non è già solamente il trono del Dominatore, è altresì la prigion del nemico. Là il Principe degli Apostoli tien cattivo un gigante, l’avversario tremendo dell’uomo e della libertà di lui, Io Spirito che conforta i miseri mortali a farsi Dei, ed al quale è concessa virtù di far piegare il ginocchio dell’uomo dinanzi a quell’idolo.
Un Pontefice rilegato in qualche palazzo d’una Città d’Italia o d’altro luogo, suddito a un Principe che oggi sarà Vittorio Emanuele, domani Garibaldi o Mazzini od alcun altro, che potrà es­sere di più nobile aspetto senza valere di più; un tal Pontefice tributario o ramingo, soggetto ad ogni re o straniero ad ogni re, non avrà mano baste- volmente forte per tener in catene un vinto for­midabile, nè voce abbastanza possente per tener guardati dalle seduzioni quanti sono uomini; e Dio, la cui giustizia debbe trionfare eziandio in que­st’albergo del pianto, noi permetterà. Potrà il mondo apparecchiarsi a vedere quinci a poco, un simbolo dell’Anticristo, terribilissimo avvenimento fra quanti mai riempirono di orrore e di stragi la terra.
Il mondo è già maturò per un dispotismo senza pari, più barbaro forse del dispotismo an­tico. Vedesi già per tutto dissolversi ogni patria, disparir le frontiere, livellarsi la terra per lasciar liberissimo il passo al carro d’un trionfatore. Qual mai ostacolo vi faranno i re? Non vi sono più re, e quelli che ancor ne portano il nome non si adoperano che a romper guerra fra loro.
La Chiesa avea statuiti i Monarchi a difesa della verità ed a protezione dei miseri. In tal do­vere stava il loro diritto. La Rivoluzione, facen­doli venir meno al dovere, ha pur tolto ad essi il sentimento del diritto. Ov’.è mai al dì d’oggi quel Dominante, il quale si paia al tutto sicuro del proprio diritto di re, e il quale onori e cu­stodisca gli altrui diritti a gran rischio d’incon­trar pericolo egli stesso? Re siffatto io lo veggo a Roma, e là solamente. Da poco tempo, tre grandi sovrani s’erano ragunati per deliberare in­torno le cose a doversi compiere in congiunture di tanto rilievo. La prima sera, convennero tutti e tre al Teatro, e là videro rappresentarsi una farsa e un leggiadro ballo. Eccoli dunque là ra­dunati ; ecco il gran momento ! Per vero dire, quei Monarchi i quali aveano a comporre la pace del mondo e toglier di mezzo il comune pericolo delle corone, non aveano altro edificio, salvo il Teatro, dentro il quale potessero tutti trovarsi d’una sen­tenza. Non si poteano congregare nel tempio di Dio, perocché ciascuno di essi ha il proprio Cristo. Altro è quello di Prussia, altro quello di Russia, altro quello d'Austria... Ma poi quali accordi?... quali deliberazioni? quali effetti?...
Da Dio è ogni patria, e noi sentiamo, a pien diritto, la carità di patria. Essa è un nobile/sen­timento, ma il quale può degenerare in orgoglio, in asprezza, in inimicizia contro lo straniero. Mercè del catolicismo fu sorella ogni patria. Il Protestantesimo ha tornato a vita la dura patria degli antichi' giorni, e ciascheduna nazione si è partita dalle altre. L’Inghilterra è il modello di co­siffatta barbara nazionalità. A modo che Ismaele, essa pianta con alterigia la propria tenda contro di ogni popolo, nel mentre che parla incessante­mente di francarli da servitù.
La Rivoluzione vuol fare una parodia della fratellanza Cristiana. Edificando quartieri per soldati ove che sia, chiede per ogni dove l’annien­tamento delle frontiere. Per creare l’unità, vuole render nulla la patria, al modo stesso che per lar­gire la libertà volle distruggere la famiglia,. Mes- saggiero di un tal disegno è Garibaldi ; iì quale ben veggendo essere i conflitti esizialissimi ai po­poli poverelli, fa proposta ai regnanti di fare di tutti i popoli un popol solo. E con chi più la guerra quando non v’ abbia più gente nemica ? Abbagliato da tanta bellezza di pensiero, Garibaldi non vede la eventualità delle lotte intestine, per campar dalle quali quell’unico popolo non si terrà dal procacciarsi un unico Signore, e la forza di un Signore dì tal guisa sarà rispondente all’.estension dell’Imperio. Egli avrà denti, muscoli, unghie, avrà ogni cosa bene acconcia per serbar cheto e rispettoso il genere umano, che gli dirà - Non licet!
Garibaldi parla, senza dubbio, ridevolmente; ma non è già a ridersi di ciò eh’ egli parla ! Mille principii, sentenze, assiomi, che arrecan morte, e che a’ tempi nostri han seggio, erano, or fa venti anni, degni argomenti di comune beffa; che av­verrà egli mai quando la luce del vero si sarà indebolita ognor più, o più non risplenderà che nelle Catacombe? Togliete via il Papa, spegnete quel fulgore, fate scomparir quel confine, e vedrete ciò che potrà la ragione, ciò che diventeranno i baluardi dei popoli ! L’ universal dispotismo li per­forerà, sto per dire, dall’una banda all’altra, non altrimenti che un carro, trascinato da corsieri ardentissimi, passa baldanzosamente attraverso di elevati mucchi di polvere. Non più amor della patria, anzi non più patria, non più asilo di libertà.
Ma, la mercè di Dio, il quale, nella miseri- cordia sua infinita, degnerà di non lasciarsi vin­cere, il Papato non fia mai che soccomba. Nascoso nel centro della terra, la quale sarà tornata ai tempi ed all’opere di Nerone, ricomincierà esso i tempi e 1’ opere di S. Pietro. E quando i pos­senti ed i beati di questo cieco mondo non discer­neranno più il bene dal male, l’errore dalla ve­rità , o si diletteranno nel dir bene il male ed erro- re la verità, al cospetto della forza brutale stupen­damente ordinata e fatta Signora di ogni cosa, la virtù del Papato starà. Ànnunzierà ella il Van­gelo ai poveri ed agli ignoranti, il cui numero sarà senza fine; consolerà i vinti e serberà inconcus­si i veri supremi fin sotto la scure ed i motteggi dei vincitori. Ella non lascierà di parlare carità, giustizia, misericordia; non lascierà d’insegnare che libertà senza autorità è cosa tanto impossibile quan­to autorità senza libertà, e che l’una e l’altra han­no radice in quell’ ordine che pone ogni cosa ed ogni singolo uomo al posto che loro compete e so­pra ogni uomo e sopra ogni cosa Iddio. Ella non lascierà di ammaestrare che l’unità non pro­cede da uno stupido annientamento delle diverse parti onde vogliamo comporla, nè la libertà di ciascun uomo dalla confusione delle gerarchie. Non lascierà di far conoscere che se il civile consorzio è ripiombalo in quell’abisso onde la virtù della Cristiana fede avealo Ira Ito fuori, si è per­chè ha voluto separare le diverse membra del cor­po sociale, col disciorne que’ vincoli, coi quali la soavissima carità di Gesù l’avea nella pienezza del1’ amore congiunto.
Certo, la famiglia dei mortali è straziata di dolore , ed ohimè di qual dolore ! Sostiene la ter­ribile pena del disgregamento della unità, e ciascun atld de’suoi delirine porge testimonianza. La ri­voluzione conosce a meraviglia la natura di que­sto male ond’essa è l’autrice, e lo governa coll’ordinario suo accorgimento, lo accorgimento di Satana. Nel 1793, ella sollevava i popoli, ed uccideva gli uomini in nome della libertà dei sin­goli uomini. Al dì d’ oggi, ella li solleva, li di­vide, li uccide in nome dell’unità : ed avendo per­duto la vera nozione di quel collegamento verace, il quale nel materiale mondò non può sortire l’effet­to se non per opera delle idee; i popoli, sopra fede della Ribellione, avvisano che potranno campare dall’ individuale disordine, adeguando tutte le con­dizioni e riducendo in uno le terre diverse ! Ma eglino ad altro non riusciranno che ad acconciar uomini e terre pel trionfai dominio del dispotismo. Questa crassa ignoranza però mette in aperto il goffo errore in che sono caduti i governi Essi di­menticano una piccola cosa, cioè che l’uomo ha un’anima. Quinci deriva la loro assoluta ineffica­cia a metter pace fra l’ordine e la libertà, fra l’individuale svolgimento e lo svolgimento di tutto il civile consorzio. Giusta la lóro scienza l’uomo non ha che il corpo e gli appetiti; tu quindi li vedi non prendersi briga nessuna dell’ anima immorta­le dell’ uomo, e dei doveri suoi verso Dio. Ecco perchè quella scienza che vorrebbe, da senno, il regno dell’ordine ad altro non vale che a produrre Rivolte, e poco andrà eh’essa non vedrà nè la- scierà più che altri vegga un riparo all’ infernale addentellato dei Rivolgimenti, se non del dispotismo, divenuto sì fiero e così sprezzante i diritti del ge­nere umano, come lo è sempre stata la Rivoluzione.
Le Leggi governatrici il consorzio civile, non meno che i singoli uomini, esser non possono giuste, e stabili conseguentemente, ove non sieno instituite in conformità dell’attenenza che hanno i figliuoli di Adamo col supremo Monarca del tutto.
Quel dì, forse men lontano che non si pensi, nel quale avranno le nazioni compreso novella- mente queste dottrine del Papato; quel dì com­prenderanno eziandio che ai Veri, ne’ quali trova il proprio scudo la comune libertà, non è serbato altro luogo di asilo e di sicurezza, contro le pas­sioni e gli accecamenti degli uomini, che sotto lo scettro del Sacerdote-Re.
E il Papato ripiglierà nel mondo il suo seg­gio di onore, fatto più grande dai Papi - Martiri.




(1) Et ipse est caput Ecclesiae ( Col. 1-18 ) Prioceps regum tcrrae, qu dilexit nos, et lavit nos a peccatis nostnis in sanguino suo ( Apoc. 1-5 )

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