Alterazione radicale della Rivelazione - Card. Siri

Estratto dal libro Getsemani
Scaricabile nel sito Totus Tuus


Sin dall'inizio, l'abbiamo già detto, la realtà divina di Cristo è stata contestata. Era inevitabile, perché se il Figlio di Dio fosse accettato senza contestazione, sarebbe il segno che lo scopo dell'Incarnazione, in questa carne dell'uomo nella storia che ha fatto seguito ad Adamo, sarebbe stato raggiunto, prima dell'Incarnazione.
Il cammino della verità rivelata si è compiuto, si compie e si compirà ad immagine della vita di Cristo: venuta direttamente da Dio, nascosta, pubblica, contestata, calunniata, integrale, sacrificante, colma di amore, misteriosa e limpida, divina e umana. In tal modo la Verità è apparsa alla superficie della vasta Chiesa e a poco a poco è stata espressa nelle formule e nelle definizioni della fede della Chiesa.
Lo storicismo filosofico e sociale, in quanto fissazione della coscienza dell'uomo su fini temporanei e ultimi, ma circoscritti nell'interminabile e storico tempo e movimento, ha suscitato nella coscienza cristiana, nei tempi detti moderni, con innumerevoli argomenti fittizi per mezzo di criteri razionalisti ma irrazionali, una contestazione diretta o indiretta, nascosta o ammessa, dell'integrale realtà del Figlio di Dio.
Tutta la vasta effervescenza critica degli ultimi secoli, la rimessa in discussione di tutti i fondamenti d'informazione storica sulla realtà di Cristo, sulla realtà della Chiesa, sulla realtà e la comprensione dei testi considerati come espressione scritturale delle verità rivelate, tutti gli sforzi di erronea e corruttrice analisi del linguaggio dell'uomo hanno avuto, coscientemente o incoscientemente, come bersaglio centrale l'Incarnazione del Verbo di Dio. La fede dell'uomo in questa verità, però, è l'unico fondamento della sua liberazione nella vita eterna.
È umanamente impossibile enumerare tutte le manifestazioni di quel che n'è conseguito. Spesso gli uomini, invece di essere innamorati della verità e di cercarla in se stessa, ossia di seguire le vie dischiuse dalla Rivelazione ed illuminate dalla Rivelazione, sono presi dal piacere della ricerca e dalla china storicista della speranza, e si smarriscono in meandri senza fine, in vie sempre nuove che non hanno via d'uscita.
Se veramente si volessero enumerare ed affrontare, una dopo l'altra, tutte le manifestazioni dello storicismo razionalista e irrazionale, sarebbe come se si volesse svuotare il mar mediterraneo con un cucchiaio. L'immagine può sembrare esagerata, ma è veridica. La possibilità, infatti, di cogitazione e di argomentazione, distolte da un ordine iniziale oggettivamente eterno e rivelato, è senza fine. Tutto può essere detto. Si possono accumulare montagne di considerazioni su argomenti arbitrari e talvolta molto fantasiosi, senza alcun reale riferimento, senza alcuna prova, alcuna corrispondenza con le reali aspirazioni dell'uomo.
Spesso ci si lascia prendere, da un argomento arbitrario dopo l'altro, fino a dimenticare il punto di partenza e lo scopo della nostra ricerca, il nostro appello da parte di Dio.
Se il nostro giovane aprendo un libro sulla filosofia antica, trovasse scritto nella prima pagina che Aristotele non aveva ben capito il senso con il quale Platone utilizzava alcuni termini, mentre l'autore del libro pretende di averlo capito meglio dopo 24 secoli, il giovane penserebbe che l'autore del libro non doveva essere serio. Egli si direbbe:
- Certamente Aristotele, ex-discepolo di Platone poteva non condividere con Platone molte opinioni e molte nozioni. Conosceva, però, meglio della maggior parte dei suoi contemporanei il senso che Platone attribuiva ai termini, indipendentemente dal fatto che lui, Aristotele, non condividesse questi significati di Platone.
Se il giovane aprisse un libro di storia della medicina e leggesse, nell'ultima pagina del capitolo su Pasteur, che il suo primo e più fedele assistente non aveva ben capito il senso che lo stesso Pasteur attribuiva ai termini «bacillo», «microbo», «cocco», mentre l'autore pretende, cento anni dopo, di averlo capito meglio, il giovane resterebbe colpito da questa pretesa, soprattutto perché l'autore non avrebbe, per pretendere questo, alcun punto di appoggio, alcuna prova, ma soltanto la sua immaginazione, o in fondo il proprio desiderio di giustificare le sue idee personali.
Lo stesso stupore e lo stesso dubbio sulla serietà dell'autore sopravverrebbero se il giovane leggesse, in un libro di economia politica o di sociologia, che Engels non aveva ben capito il senso che Marx attribuiva ai termini della sua analisi del processo economico nel "Capitale", mentre l'autore affermerebbe di aver capito meglio di Engels il senso che Marx attribuiva ai termini utilizzati.
Questi esempi possono sembrare costruzioni della mente. Esprimono però, d'altronde molto fievolmente, le incredibili conseguenze dello sviluppo della critica razionalista e della mentalità storicista in genere. È facile, con finzioni terminologiche incontrollabili, creare un alone dottrinale e culturale, senza mai permettersi, né permettere agli altri, di ricondurre gli argomenti alla loro essenziale e profonda semplicità.
Per questo il nostro giovane, nella sua carità, sarà molto perplesso di fronte ad innumerevolissimi casi come, per esempio i seguenti:
1. Nel libro "La nuova ermeneutica" di James M. Robinson e Ernst Fuchs (302) nella prima pagina si legge:
«La glossolalia, in realtà, non consisteva nel parlare lingue straniere, come sembra intenderla Luca». (303)
Il giovane, sul principio, non avrebbe sicuramente capito la portata di questa affermazione. Ma nel prenderne coscienza, rimarrebbe costernato di fronte all'enormità della frase. Robinson si riferisce contemporaneamente a San Paolo e a San Luca, per quanto concerne il fatto di «parlare in lingue» e in particolare si riferisce alla Prima Lettera ai Corinzi dove San Paolo parla d'«interpretazione delle lingue». (304)
San Luca, negli "Atti" impiega le espressioni «parlare in altre lingue» (305) e «parlare in lingue».(306) San Luca è stato compagno e collaboratore di San Paolo. È più che normale pensare che San Luca sapesse meglio di molti altri suoi contemporanei cosa San Paolo intendesse con alcuni termini ed espressioni, forse fin troppo sintetiche. Indipendentemente, però, dall'espressione di San Paolo «parlare in lingue», il fatto significato da questa espressione, era accaduto più volte dopo la Pentecoste. E San Luca non poteva scrivere con leggerezza su un fatto straordinario, dal momento in cui - come egli stesso lo dice all'inizio del suo vangelo - ha scritto dopo aver fatto «ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi» (307). D'altra parte è inconcepibile che abbia capito il fatto di parlare in lingue in modo diverso da San Paolo. Poter affermare che noi capiamo meglio di San Luca quel che aveva saputo sugli eventi e quel che San Paolo intendesse con l'espressione «parlare in lingue», mostra in quale alterazione del giudizio sia sfociato il lungo logorio dei criteri e dei riferimenti ad opera della crescente pletora di considerazioni della critica razionalista, nella mentalità storici sta ed esistenziale.
2. Il professore Rudolf Schnackenburg (308), in uno studio sulla «cristologia del Nuovo Testamento» scrive a riguardo della confessione di San Pietro a Cesarea di Filippo:
«Inizio storico della fede in Cristo la risurrezione di Gesù lo è proprio nel senso che, soltanto partendo di là, si può parlare realmente di fede in Gesù, il Cristo e Figlio di Dio. - Ci si richiama soprattutto alla confessione di Simon Pietro a Cesarea di Filippo: 'Tu sei il Figlio del Dio vivente'. L'indagine evangelica recente ci ha tuttavia insegnato a non prendere tali asserzioni semplicemente in un senso storico. - Matteo voleva, in questo punto, introdurre la sua tradizione speciale circa la promessa di Gesù di costruire su Pietro la roccia, la sua comunità e la confessione di fede di questo discepolo esaltato da Gesù la formulò in una maniera che non corrispondeva in vero alla situazione storica di allora, ma alla sua piena fede posteriore». (309) 
Questa indagine sui Vangeli della quale parla il professore Schnackenburg avrebbe provato che gli Apostoli non intendevano stendere una relazione dei fatti storici, ma una relazione della loro fede, una relazione che «presenta i fatti della storia di Cristo alla luce della loro fede pasquale». (310) Ossia gli Evangelisti avrebbero espresso la loro fede tale quale essi l'avrebbero avuta e modellata dopo la Resurrezione, con relazioni storicamente non vere. Gli Apostoli e gli Evangelisti avrebbero illustrato, con fatti e parole immaginarie, quel che avrebbero creduto, a fatto compiuto.
Schnackenburg, per spiegare cosa intende con l'espressione «indagine sui Vangeli», si riferisce alla «Storia delle forme», alla «Storia delle tradizioni e delle redazioni». Questo significa, secondo considerazioni letterarie, cioè considerazioni filologiche e morfologiche, sulla base di ipotesi riguardanti i gruppi della Chiesa dei primi tempi, che questi gruppi avrebbero modellato quel che è stato ricevuto come messaggio e come storia di Cristo; modellato in tal maniera che i «testimoni scritti», i Vangeli e l'intero Nuovo Testamento non possono servire come riferimento storico della realtà di Cristo. Infatti dopo la Resurrezione e dopo la Pentecoste, la realtà e il messaggio di Cristo sarebbero già stati troppo adattati e quindi trasformati dai sentimenti, dai pensieri e dalle credenze, perché si possa trovare nella vita della Chiesa, nei testi sacri e nelle testimonianze apostoliche e patristiche, la verità intatta sulla Persona del Cristo e sul suo messaggio.
Di fronte ad un tale cumulo di ipotesi e di considerazioni arbitrarie basate su queste ipotesi, il giovane potrebbe credere che sta sognando. Si chiederebbe, infatti:
- Se San Matteo può riferire un fatto immaginario e parole immaginarie unicamente per «pia» tattica apostolica e avendo come scusa, la fede che San Pietro ha avuto dopo la Pentecoste, chi può, allora, garantire la sacralità e la veracità dei Vangeli? Il fatto stesso di continuarlo a proporre come il vero libro del cristianesimo non costituisce automaticamente un'opera di disgregazione della fede cristiana?
- Questa abitudine di dare a questo cumulo d'inter­ipotesi il nome di scienza non provoca automaticamente una disgregazione della nozione tanto profonda quanto pratica di scienza? È scienza attribuire all'improvviso ad una persona, considerata come «autore sacro» narrazioni tendenziose relazionanti fatti inesistenti, e questo per confutare, con un lunga serie di tali ipotesi negative, il fondo del messaggio dell'autore sacro e della natura trascendente della storicità della Chiesa di Cristo, e dunque del messaggio ricevuto e dell'insegnamento della Chiesa?
E Schnackenburg continua sostenendo che l'Evangelista San Matteo ha sempre proceduto in tal modo, cioè riportando fatti fittizi per confermare a posteriori la fede così come è stata elaborata dalla e nella comunità cristiana:
«Un altro passo conferma questo modo di procedere del primo evangelista. Alla fine del cammino sulle acque da parte di Gesù egli scrive a proposito dei discepoli: 'E quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti, esclamando: "Tu veramente sei Figlio di Dio". (311) Se questo fosse un racconto storico preciso, in che cosa Simon Pietro a Cesarea sarebbe stato superiore ai suoi condiscepoli?». (312)
E quindi, Schnackenburg si richiama a San Marco che riporta il fatto di quella notte del cammino di Gesù sulle acque, parlando soltanto dello spavento e dell'incomprensione dei discepoli, perché non avevano capito il fatto dei pani (della moltiplicazione che era stata narrata prima) e perché il loro cuore era indurito». (313)
Schnackenburg vuole mettere qui in contraddizione San Matteo con se stesso e con San Marco. Se San Pietro, secondo Schnackenburg, avesse dichiarato a Cesarea che Gesù era il Cristo, il Figlio di Dio, dopo che i discepoli spaventati sulla loro barca avevano detto meravigliati: «Tu sei veramente il Figlio di Dio», San Pietro non avrebbe detto qualcosa di eccezionale per meritare le parole di Cristo: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli!».(314)
E dopo questa «contraddizione» di San Matteo con se stesso, ci sarebbe, sempre stando a Schnackenburg, una «contraddizione» rispetto alla narrazione di San Marco che non dice nulla su questa confessione degli Apostoli sulla barca, terminando la sua narrazione con lo spavento dei discepoli e con la loro pesantezza di cuore di fronte al miracolo dei pani. E Schnackenburg si sente del tutto giustificato nello spiegare questo tipo di diversità delle narrazioni con tutto un capovolgimento dell'ordine morale, spirituale e sacro della parola di testimoni oculari.
Inoltre Schnackenburg nota che San Marco, quando riporta la confessione di San Pietro a Cesarea di Filippo, scrive che San Pietro ha risposto a Gesù: «Tu sei il Cristo!».(315) E Schnackenburg conclude che c'è contraddizione tra San Matteo e San Marco, perché in San Matteo, il Cristo conferma la confessione di San Pietro, dicendogli che ad illuminarlo è l'eterno Padre, mentre in San Marco, per prima cosa San Pietro dice soltanto «Tu sei il Cristo», e poi la narrazione finisce senza la lode a Pietro, ma soltanto con la severa consegna di Cristo di non parlare ancora a nessuno del mistero della sua Realtà. (316)
E il nostro giovane avrà pensato certamente: perché tale capovolgimento? E semmai i discepoli avessero accolto nei loro cuori tutta l'azione miracolosa di Gesù e tutta la sua parola semplice e densa, colma del mistero della sua origine e della sua missione, semmai le avessero accolte, prendendo poco a poco coscienza di quel che stavano vivendo, e al momento dello spavento e dello stupore, nonostante la pesantezza dei loro cuori dinanzi al precedente miracolo della moltiplicazione dei pani, essi si fossero messi in ginocchio e avessero detto o uno di loro avesse detto spaventato e strabiliato: «Tu sei veramente il Figlio di Dio»?
E semmai Gesù, conoscendo come e quanto fosse ricevuto nel cuore degli Apostoli, che avevano abbandonato tutto e lo seguivano dovunque, sapendo che la loro fede si era sempre più ampliata, approfondita e soprannaturalizzata, sapendo che la nozione di «Figlio di Dio» ritornava sulle loro labbra e nella loro meditazione con più o meno timore e stupore, e semmai Gesù avesse trovato il momento propizio per porre chiaramente la domanda capitale sulla sua Persona: «La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo? ­ Voi chi dite che io sia?». (317) Semmai?
Semmai San Marco, discepolo di San Pietro, seguendo i consigli e i desideri dell'umile tra gli umili che, persino al momento della sua crocifissione, ha mostrato su quale tipo di roccia il Cristo aveva promesso di fondare la sua Chiesa, semmai San Marco avesse sobriamente riportato la confessione di San Pietro, e la consegna del silenzio che sarebbe venuta dopo la risposta di Cristo a San Pietro e la promessa di edificare la Chiesa sulla pietra che era San Pietro?
E semmai San Matteo non avesse fatto altro che riferire semplicemente la consegna del silenzio dopo aver riportato la gloriosa promessa di Gesù a San Pietro, e se invece di esserci una contraddizione, ci sia una meravigliosa armonia di fatti e d'intenzioni, di mente e di cuore, parlando dell'inconcepibile mistero e dell'inconcepibile amore dell'Uomo-Dio?
3. San Matteo cita il famoso passo d'Isaia (318) per mostrare il compimento della profezia con l'Incarnazione verginale di Gesù Cristo. Si serve del versetto dei Settanta: «Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio». Il giovane sarebbe certamente preso da vertigini, se seguisse, una dopo l'altra, tutte le considerazioni pro e contro la traduzione della parola ebrea «almah» con «vergine».
Per San Girolamo, secondo il "Dizionario della Bibbia" di Migne,(319) «almah» significa «vergine» e «betulah», «ragazza». Il "Dizionario universale di filologia sacra" traduce «almah» con: «una ragazza da maritare, di conseguenza vergine, nel senso rigoroso di questa parola». (320) Il Padre Giuseppe Girotti, nel suo commento all'Antico Testamento, traduce la parola «almah» con «vergine», e qualifica ogni traduzione contraria come la conseguenza di un'esegesi «parziale» che non corrisponde ad un reale studio scientifico del testo. (321) Angelo Penna, nel suo commento al libro di Isaia, traduce «almah» con «vergine» e dice che questa parola «vergine» è «il punto più discusso della traduzione, che, come sempre, è anche un po' interpretazione». (322)
Dennefeld, nel "Dizionario di teologia cattolica", (323) come molti altri, come Josef Schmid, nel suo commento ai Vangeli di San Matteo e di San Luca, (324) traducono dapprima la parola «almah» con «vergine» e poi trovano che non è possibile che il profeta Isaia, rivolgendosi a tutto Israele, a tutta la casa di David, abbia di mira un'altra donna vergine che non sia quella rivelata in lui da Dio, la Santissima Vergine Maria. E specialmente Josef Schmid scrive, tra l'altro:
«Sia Matteo (1, 18-25; cfr. anche l, 16) che Luca (1, 26-38) attestano chiaramente e decisamente che Giuseppe non era il vero padre di Gesù. - Matteo per i suoi lettori giudeo-cristiani appoggia espressamente il fatto da lui narrato col rinvio alla profezia dell'Emmanuele (Is. 7, 14) ».
«Il tentativo compiuto da A. Harnack e da altri di cancellare nell'importante paragrafo di Lc. 1, 26-38 i due versi decisivi 34 s. e nel v. 27 la parola "vergine", ripetuta due volte, come pure in (sempre in S. Luca) 3, 23 le parole (in merito a San Giuseppe considerato dalla gente come il padre di Gesù) "come si credeva", come aggiunte posteriori, non è solo, dal punto di vista della critica testuale, completamente arbitrario ma è addirittura impossibile in base al contesto. Perché in tal modo si eliminerebbe precisamente il nocciolo dell'intero paragrafo». (325)
Non è certo difficile rendersi conto del movente che ha fatto sorgere una generale contestazione nei confronti del riferimento di San Matteo ad un versetto di Isaia, e nei confronti della traduzione della parola «almah» con «vergine». Questo non è difficile, ma rimane incredibile.
Nell'«Introduzione alla Bibbia» sotto la direzione di Henri Cazelles, è scritto che l'esegesi di questo passo di Isaia sarebbe meno «complessa» se si escludesse nello studio del testo, ogni «cristiana preoccupazione». (326)
Nel «Grande commentario biblico», è scritto che l'annuncio della nascita di un bambino, di Emmanuele, si riferirebbe al figlio di Achaz, Ezechia, manifestando così la continuità della stirpe di David; (327) e che San Matteo ha citato il versetto di Isaia, mettendo l'accento piuttosto sulla nascita del bambino salvatore, che sulla parola «vergine». (328)
Nel «Mysterium salutis», si legge che non è impossibile che Isaia si sia servito di un mito conosciuto all'epoca per parlare della «giovane donna». (329) Questa «giovane donna» potrebbe essere la dea Anat, dea della vegetazione, che come la vegetazione muore e ricresce ogni anno, così, nonostante «il suo santo matrimonio» che si celebra ogni anno, è ancora vergine. (330)
Stando a D. Guthrie e J.A. Motyer, nel loro "Commentario biblico" i Settanta hanno tradotto la parola «almah» con il termine greco *** per ragioni ancora poco chiare». (331)
Nel "Grande lessico del Nuovo Testamento» di Gerhard Kittel, si legge che l'etimologia della parola greca *** è incerta. Lo sviluppo semantico non potrebbe essere dedotto se non dall'uso letterario. E si legge questa incredibile "informazione":
«Palesemente il vocabolo *** indica in primo luogo una giovane donna matura». (332)
Cita, però, anche Plutarco che dice a proposito della Pizia che era «vergine nella sua anima». Inoltre il "grande dizionario della lingua greca" cita Aristofane, Omero, Esiodo, Senofonte, Sofocle, Erodoto, Euripide, presso i quali la parola «***» è utilizzata per significare «una giovane donna che non conosce affatto uomo». (333) Per questo la definizione della parola «vergine», «***» di Kittel stupisce e lascia perplessi.
A proposito del passo di Isaia 7,14, in Kittel si legge che il profeta parla di una donna ben precisa: o della moglie del profeta, o di quella di Ezechia o di una donna sconosciuta tra la folla o sconosciuta anche ad Isaia o a «tutte le giovani donne di Israele che erano allora incinte». (334)
Ci sono casi che provano quanto un certo atteggiamento interiore, di fronte a testimonianze scritturali e tradizionali del Mistero di Cristo, tolga la luce e il discernimento, talvolta negli uomini più dotati. Hugo Gressmann (335), amico e contemporaneo di Gunkel, ha reputato che Isaia non poteva che riferirsi ad una tradizione che sarebbe una sopravvivenza della credenza politeista alle dee-madri. Per Gressmann, il fatto che il profeta non dica «una vergine», ma «la vergine» prova che Isaia si riferisce a nozioni conosciute. Il profeta avrebbe parlato come se conoscesse già questa vergine. Per questo, sempre stando a Gressmann, Isaia non poteva avere di mira sua moglie, né la moglie del re Achaz, né nessun'altra donna conosciuta della storia che sarebbe stata in quel momento incinta. Infatti - e questo è il punto più strano di questo ragionamento - «come avrebbe potuto dire con una tale sicurezza che partorirebbe un figlio piuttosto che una figlia». (336)
In numerosi commenti e articoli di dizionari teologici e biblici, sono contestati la citazione di Isaia, 7,14, fatta da San Matteo, l'intenzione di San Matteo nel citare questo passo di Isaia, il vero significato della parola «almah» nel testo ebreo, il significato messianico del versetto e sono messi in discussione, in modo che almeno un dubbio avvolga la testimonianza evangelica di San Matteo.
Tuttavia ci sono fatti e considerazioni che testimoniano l'assenza di ogni valida argomentazione, in tutta questa critica e questa svalutazione. Per esempio, c'è un fatto che dovrebbe far riflettere tutti coloro che hanno preteso che la traduzione nei Settanta della parola «almah» con la parola greca «***» era ingiustificata. Questo fatto è che il famoso rabbino Akiba, che ha vissuto nel II secolo, fondamentalmente anticristiano, intendeva la parola «almah» con il significato di «vergine». (337)
D'altronde la Bibbia di Gerusalemme che traduce nel testo la parola «almah» con «ragazza» specifica in nota la sua concezione:
«Il testo dei LXX è un testimone prezioso dell'interpretazione giudaica antica che sarà consacrata dal Vangelo». (338)
Da dove proverrebbe, allora, questa multipla e ostinata interpretazione forzata dei testi e dei fatti? Non è inutile, né lungi dalla verità, ricordare che unico è lo scopo, cosciente o incosciente, della contestazione, della critica e della negazione: far vacillare, se non togliere dalla coscienza dei cristiani, la certezza della verità apportata nel mondo dal Cristo, e poi dai suoi Apostoli e dai suoi testimoni, sul mistero della Sua divina realtà. Per questo, occorreva far vacillare, prima di ogni altra cosa, la certezza sull'Incarnazione del Verbo di Dio.
Occorreva far vacillare la testimonianza del Vangelo e della Tradizione della Chiesa. Per questo Josef Schmid, nel suo commentario dei Vangeli di San Matteo e di San Luca, in merito alla concezione verginale così si esprime:
«Matteo fa naufragare ogni tentativo di cancellare la concezione verginale della vergine, perché tutto il paragrafo 1, 18-25 serve solo a provare questo fatto. La sua eliminazione dall'opera di Luca avverrebbe unicamente per ragioni di preconcetti, ossia per la negazione della possibilità di miracoli e quindi anche della concezione verginale». (339)
***
La critica storica è da molto tempo diventata il modo generale di pensare, per ogni cosa. E' una spiccatissima e molto specifica manifestazione della mentalità storicista. Nel clima filosofico e teologico dei tempi moderni, si è creato tutto un vasto mondo di postulati arbitrari, un mondo in movimento, che tende a sconvolgere ogni certezza tanto storica quanto teologica e spirituale.
Questo vasto universo si è sviluppato con un poderoso slancio d'indipendenza. Sarebbe ormai temerario voler separare quel che è stato positivo per il cammino degli uomini verso la verità e nella verità, da quel che è stato negativo. In ogni attività, ci sono elementi positivi ed elementi negativi, a causa dell'imperfezione del nostro stato d'essere nella vita della terra.
A caratterizzare una vera via positiva di verità, è la stabile fissità dell'uomo, anche nei suoi tentennamenti, ad un amore fondamentale di questa verità; e questa è la garanzia dell'esito finale del suo cammino. Certamente sulla via di Damasco, si è manifestato un diretto intervento di Dio, un intervento talmente radicale ed efficace che San Paolo è uscito da questa prova, si può dire di luce e di grazia, un uomo nuovo, un servo assoluto della Verità assoluta. Spesso, però, si dimentica che San Paolo, prima di conoscere tanto direttamente la Verità, l'aveva appassionatamente amata, e questa Verità si è presentata a lui e l'ha inondato.
Questo, certo, non vuol dire che tale grazia non sia stata realmente grazia, che non sia stata veramente un dono gratuito, ma questo dono, imperioso che sia, è stato liberamente e totalmente ricevuto con amore. San Paolo è uno tra i più grandi esempi dell'armonia quasi impalpabile, ma fondamentalmente oggettiva tra la decisione irrevocabile di Dio e la libertà dell'uomo nel suo amore per la verità.
Tale amore è evidente anche quando si cammina su strade sbagliate; e la sua assenza è anche evidente quando si cammina su strade che, dal punto di vista strettamente concettuale, possono considerarsi giuste.
E proporzionalmente a questo amore trascendente della verità, prima che venga riconosciuta dall'intendimento, l'uomo può nello studio del passato e del presente, nello studio delle correnti, delle dottrine e dei metodi, può più o meno discernere quel che è positivo, in quanto fondato sulla verità eterna; e discernere quel che è negativo, in quanto fondato sulla volontà personale autonoma.
Nello sviluppo della critica storica dei testi, di tutti i metodi e considerazioni dottrinali che costituiscono oggi l'attività esegetica e l'ermeneutica in genere, vi sono principi e orientamenti intellettuali e spirituali molto positivi, positivi perché in seno a questo sviluppo ed anche in base ai nuovi dati, l'uomo ha potuto sentire confermate, nel suo intendimento e nel suo cuore, con sempre maggiore intensità, ampiezza e intimità, le grandi verità rivelate dall'Incarnazione di Cristo e dal suo messaggio trasmesso in modo vissuto, e consegnato anche per iscritto nella Chiesa.
Ci sono stati anche dei deterioramenti, e degli orientamenti del pensiero tali da degradare e persino rifiutare i criteri fondati sulle verità rivelate. Spesso così, da ogni lato, sia nella coscienza di coloro che erano ancorati in forme svuotate dallo spirito ma rimaste tradizionali, come nella coscienza di coloro che erano trascinati dalla frenesia di un incontrollato rinnovamento, senza reale legame con la verità rivelata, c'è un deterioramento più o meno radicale della Persona del Cristo, della sua azione ontologicamente redentrice e del suo messaggio di redenzione per l'uomo.
La massa di lavori critici, l'estensione sociale dei nuovi principi e dei nuovi metodi di approccio della verità e di ricerca della verità, hanno creato quasi un mondo di essere e di pensare nuovo. In questo mondo, quegli stessi che avevano la giusta visione e l'amore chiaro e libero della verità sono stati trascinati ad impiegare il linguaggio, a seguire i metodi e a procedere con modi di giudizio alieni dai principi che li avevano animati, quando avevano sentito l'appello di Dio. Tale è stato il logorio dei principi e dei criteri nello sviluppo della mentalità storicista e nell'estensione del relativismo esistenziale.
Indubbiamente quel che è positivo rimane in sé sempre positivo. Quel che è lettera pietrificata rimane e rimarrà lettera morta. Quel che però, è falsamente vivente e che non è se non mondanamente «dinamico», si estende come un'immensa bruma che penetra ovunque e che tutto avvolge. La prima cosa della quale ci si deve rendere conto, è che non si può stipare in sacchi la bruma; occorre uscirne; occorre mantenere accesa la propria lampada, camminare con prudenza nell'attesa che la bruma sia dissipata da un gran vento della grazia, orientandoci sempre verso le altezze.
Il sommergere l'uomo in una speranza diversa da quella che il Cristo gli ha dato e che gli Apostoli hanno tramandato, lo speculare senza riferimento fondamentale e impegnativo nei confronti della Rivelazione, cioè nei confronti dell'Incarnazione del Verbo eterno e dell'azione redentrice dell'Uomo-Dio e nei confronti del suo messaggio vissuto ed orale per gli uomini, hanno condotto da un argomento all'altro, il pensiero teologico e la vita spirituale di molte persone fino ad una rottura interna, cosciente o incosciente, con la Rivelazione e con il Mistero trascendente della Chiesa. Non s'intendono qui gli atti esterni degli uomini; s'intende la manifestazione del loro pensiero e del loro implicito o esplicito insegnamento.
Non sarebbe di alcuna reale ed edificante utilità cercare di aggiungere ancora un itinerario da Sant'Agostino fino a Lutero e da Lutero, passando attraverso il dottor Astruc (340) e tutta la foresta dei critici moderni protestanti e cattolici, fino a Bultmann e ai critici dei nostri giorni, per spiegare, con analisi e riferimenti nuovi, il risultato di una certa critica storicista, di un probabilismo senza limiti e di un relativismo esistenziale, nel pensiero teologico e nella sensibilità cristiana.
Sarebbe sufficiente per il giovane soffermare il suo sguardo su alcuni casi, tra gli innumerevoli casi che l'assalgono da ogni lato.
1. - Abbiamo visto (a pagina 274) che Rahner considera che l'insegnamento di San Paolo ha alterato l'iniziale «cristologia dell'ascesa», trasformandola nella dottrina dell'Incarnazione del Verbo-Figlio preesistente.
Nello stesso libro, Rahner scrive che la cristologia di San Paolo e di San Giovanni è già una «teologia», cioè una riflessione fatta dopo la Risurrezione sulla coscienza che Gesù Cristo storico aveva di se stesso e aggiunge:
«Una cristologia sistematica odierna non può tuttavia prendere il suo naturale punto di partenza in questa comprensione teologica di Gesù Cristo; questo in fondo vale anche per le affermazioni cristologiche della Scrittura più antiche, pre-paoline». (341)
Ci sarebbe, dunque, una documentazione scritturale seria più antica, antecedente a San Paolo, che sarebbe più autentica e che sarebbe stata alterata con riflessioni, fatte certo con pietà da San Giovanni e da San Paolo dopo la Risurrezione, e questa cristologia di San Paolo e di San Giovanni non deve essere la base per una teologia su Cristo, dunque per una cristologia attuale. Ma, neanche questa supposta cristologia autentica pre-paolina deve essere presa dalla cristologia attuale come base e punto di partenza, per raggiungere la vera realtà di Cristo e del suo messaggio.
Prima di meditare su tutto questo quadro dottrinale di Rahner, sarebbe bene soffermare il proprio sguardo su altre considerazioni presentate da E.R. Brown, I. A. Fitzmyer, R.E. Murphy, nel "Grande Commentario biblico":
a) - «L'interesse ontologico della Chiesa posteriore si può vedere nel contrasto tra la confessione di fede di Paolo, 'Dio in Cristo si riconciliava il mondo' (2Cor 5, 19) e la confessione, proclamata a Nicea, di Gesù Cristo, 'Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre'». (342)
Ed il “Commentario” continua:
b) - «La confessione di Paolo assicura gli uomini che Dio era loro presente in Gesù; la confessione di Nicea assicura gli uomini che Gesù era Dio. Un'affermazione conduce, in ultima analisi, all'altra - ma dall'una all'altra c'è sviluppo di dottrina». (342)
Ora stando al "Commentario", ci sarebbe contraddizione tra la cristologia di San Paolo e il Concilio di Nicea; ossia tra la concezione di San Paolo, secondo la quale il Cristo non sarebbe Dio, ma Dio sarebbe presente in lui, e la concezione del Concilio di Nicea, secondo la quale il Cristo era Dio generato e non creato, della stessa sostanza del Padre.
Per Rahner, invece, la concezione di San Paolo così come quella di San Giovanni sarebbe in contraddizione con la cristologia "originaria"(?), trasformata nel Nuovo Testamento nella dottrina enunciata in seguito dal Concilio di Nicea, ossia del Figlio-Logos preesistente.
Entrambi, Rahner e il "Commentario", nonostante i loro divari di opinioni sulla cristologia di San Paolo, convergono nella comune prospettiva: il Cristo non era Dio e quindi l'Annunciazione è una leggenda sorta dalla pietà dopo la Risurrezione, conformemente alla corrente che ha deviato la verità per sfociare alla fine nel Credo del Concilio di Nicea.
Per prima cosa, il giovane cercherebbe di reperire i documenti e i testimoni di questa cristologia pre-paolina che sarebbe stata alterata nel quadro del Nuovo Testamento, alterazione che si sarebbe aperta un varco nella Chiesa, si sarebbe cristallizzata nei Concili di Nicea e di Calcedonia, avrebbe solcato i secoli e sarebbe pervenuta fino a noi. Poi si renderebbe conto dell'enormità delle proposizioni, si sentirebbe profondamente afflitto, giacché si accorgerebbe che, in tutto questo linguaggio e in tutti questi ragionamenti, c'è una totale assenza di base.
Dove trovare la cristologia pre-paolina e pre-giovannea? Cosa vuol dire l'espressione «nel quadro del Nuovo Testamento»? Chi ha dimostrato che la predicazione originaria tradisce, trasforma, altera, «supera» l'auto-coscienza e l'auto-rivelazione di Cristo?
Cosa rimane della nozione di Chiesa, per uomini che si suppone che recitino tutte le domeniche il Credo durante la Santa Messa, mentre lo confutano, in mille maniere, e soprattutto sul punto capitale della Redenzione, l'Incarnazione del Verbo eterno di Dio?
A che serve di parlare e di ritornare con una continua insistenza alla Risurrezione? Chi sarebbe il Risorto in questa novella cristologia, per esempio di Rahner e del "Commentario"? Sarebbe l'uomo, che con il suo sviluppo e la sua ascensione spirituale, si sarebbe fatto avanti per ricevere l'«auto-comunicazione» di Dio che veniva a lui. Non sarebbe l'Uomo-Dio dell'insegnamento della Chiesa. La Chiesa non sarebbe la continuazione dell'opera redentrice di Dio. Essa non sarebbe altro che un'arena di confronto, di ricerca, senza l'immutabile «zavorra» dottrinale del Mistero della Redenzione.
Quel che, però, per molti è il più importante, è di abbattere nelle coscienze, nella speranza e nel culto, l'Incarnazione.
Per questo sul Mistero della Santissima Vergine Madre di Dio è caduto l'oscuramento. Nessuna esagerazione di un pietismo semplicistico popolare, e nessun riferimento o invocazione a Lei, meccanica, formalista e puramente intellettuale, potrebbero mai giustificare un tale ostruzionismo e una tale illogicità di fronte ai reali dati della Scrittura e della Tradizione.
Questa mentalità storicista ha deteriorato tutti i termini, per esempio il termine antropologia, del tutto innocente e positivo, è diventato il canale della deviazione. Non è senza ragione né per abitudine che la Chiesa porta come supremo segno esterno il Crocifisso. Tutto il Mistero della Redenzione è esattamente fondato sul fatto che il Figlio eterno di Dio è diventato anche Figlio dell'uomo. Allora l'antropologia, nel senso dell'Incarnazione del Verbo di Dio, costituisce una base, si potrebbe dire un luogo teologico, per tutta la speculazione teologica e per tutta la comprensione dei testi e della Tradizione. Non è però, in tal senso che l'ermeneutica storicista esistenziale usa e propone la teologia antropologica o l'antropologia teologica. Con innumerevoli espedienti linguistici s'introduce nella coscienza e nel pensiero il concetto di una teologia basata sul principio che il Cristo sarebbe un uomo elevato fino alla prossimità («vicinanza assoluta») di Dio. Il Figlio di Dio sarebbe l'uomo che avrebbe ricevuto pienamente la Parola divina, e già per molti questa immagine è troppo esaltata.
Il giovane penserà, di certo, che occorre riferirsi alla vita di Cristo così come il Nuovo Testamento ce l'ha trasmessa, nonostante le alterazioni che la teologia contestatrice vi scopre; penserà a come i dottori hanno trattato il Cristo e capirà com'è ancora trattato oggi. Come spiegare differentemente queste ipotesi presentate dai «teologi»?
I testimoni oculari avrebbero «interpretato» la realtà e il messaggio di Cristo, come San Matteo, per tattica, diciamola sacra, e due mila anni dopo, per mezzo della chiave magica della critica storica e «la storia delle forme», si sarebbe in grado di scoprire le intenzioni di San Matteo e di San Luca e di San Marco ed anche di San Paolo e di San Giovanni, e persino quali potrebbero essere le parole storicamente autentiche e quali parole sarebbero state impiegate per ragioni di predicazione. E quando si dice «parole di predicazione», questo significa sempre, per questo filone esegetico, alterazione del messaggio originario.
Infatti, secondo una certa branca della critica, non si potrebbe mai predicare senza alterare; alterare ogni realtà, con aggiunte di fede e di pietà personali o con il desiderio d'imprimere nelle coscienze tale accezione personale del messaggio iniziale. 
Tutte le parole-chiave sarebbero tardive e aggiunte dopo. Fatti-chiave della narrazione evangelica sarebbero inventati di sana pianta per mettere in evidenza insegnamenti astratti o accezioni personali, scaturiti dalla fede o dalla polemica apologetica. Ci si è spesso eretti a esperti degli stili e dei generi letterari e si pretenderebbe di essere capaci di scovare tutti i congegni psicologici e intellettuali di tutti i personaggi che sono stati i grandi testimoni e i grandi Apostoli di Cristo.
Tutte le parole, come le parole della Santa Cena, tutte le confessioni, tutti i maggiori fatti come l'Annunciazione, sono reputati sia come aggiunte tardive sia come scritti con pie intenzioni, alteranti però, la realtà originaria. Dalla critica storica è derivata una branca, possiamo dire speciale, di formale contestazione di ogni affermazione o fatto della Rivelazione, del messaggio e della storia di Cristo e della Chiesa, che contiene, implicitamente o esplicitamente, il messaggio della speranza di vita eterna; speranza che trascende tutte le aspettative temporali della storia.
2. - Ci sono postulati ermeneutici che contengono l'annichilimento della nozione di verità, della nozione di logica, della nozione della parola e della nozione della reale evoluzione nella storia degli uomini. Ci sono postulati che trascinano l'uomo verso uno stato di pensare e di sentire che si può denominare stato di perenne instabilità esistenziale. L'uomo, infatti, nel suo amore per la Verità eterna, si sviluppa e si dilata infinitamente a misura che la sua stabilità interiore aumenta. Questa stabilità è una stabilità di conoscenza e di criterio, cosa che permette che egli sia sempre in più grande armonia con le verità rivelate ed anche con l'intimo ordine del cosmo.
I postulati, dei quali stiamo parlando, contengono la distruzione di ogni stabilità di criterio e di ogni responsabilità nei confronti della verità rivelata da Dio e di ogni conoscenza sempre nei confronti della conoscenza accordata da Dio, mediante l'ordine naturale delle cose.
La mentalità storicista esistenziale ha determinato, tramite l'attività e i problemi dell'ermeneutica, una propensione della volontà ed anche una propensione intellettuale verso l'instabilità e l'incertezza, che talvolta domina e si trasforma quasi in una specie di fissa compiacenza intellettuale: non aver alcun metodo, alcun riferimento, né alcuna conoscenza stabile, quindi nessun criterio immutabile di verità rivelata.
Nel "Dizionario di teologia biblica", si legge questa conclusione all'articolo su Gesù Cristo di Xavier Léon­Dufour:
«Le presentazioni del mistero di Gesù di Nazareth divenuto Signore e Cristo non possono essere ridotte a un unico sistema. - Dopo il Nuovo Testamento, l'ermeneutica prosegue il suo movimento; arriva, per esempio, a parlare di «coscienza» di Gesù, di «natura» e di persona, senza pretendere di fissare l'interpretazione per sempre; ancor oggi, deve essere praticata nelle diverse culture nelle quali si esprime la fede in Gesù Cristo» (343)
Questo postulato afferma per prima cosa che la comprensione di quel che significa l'espressione «coscienza» di Gesù deve essere sempre incerta e ci si deve aspettare sempre una nuova interpretazione. Orbene, interpretazione non significa espressione, illustrazione di un concetto o di un'idea. Se si deve modificare l'interpretazione, questo significa che la prima non sarebbe più valida; e poi stando a questo postulato, questa ermeneutica deve essere praticata in diversi ambienti, nei quali secondo l'autore viene espressa la fede in Gesù Cristo. Cosa, però, deve fare l'ermeneutica in seno a queste differenti culture? Perché l'interpretazione dipenderebbe dalla cultura dell'ambiente? Servirsi dei mezzi linguistici e dei dati locali per intendersi con le persone non è un problema di ermeneutica né di nuova interpretazione. E' la stessa interpretazione che occorre trasmettere ovunque, servendosi dei mezzi e delle diverse forme, a seconda delle necessità.
Il postulato così come è formulato, non può indicare nient'altro che questo: l'ermeneutica deve dare interpretazioni sempre nuove, a seconda delle culture. Cioè: è come se l'interpretazione fosse lo strumento che deve suonare le musiche locali. Non consiste nello sforzo per mettere alla portata di tutti la grande ed immutabile Verità, infatti in questo caso l'interpretazione sarebbe immutabile nonostante le espressioni più o meno relative. Si tratterebbe soltanto di reperire i mezzi linguistici, i parallelismi e gli esempi, per trasmettere questa medesima ed unica interpretazione, in seno a differenti culture.
Una più completa interpretazione della Verità del Cristo significherebbe che si sarebbe completato qualcosa che illustrerebbe la stabilità della conoscenza. Dire, però, che «non si deve mai pretendere di fissare l'interpretazione» è illudersi e giocare, in tal modo, sulle parole.
Il problema è ben più grave di quel che si possa, all'inizio, pensare perché, in nome della perenne interpretazione, si abolisce il riferimento stabile della Rivelazione e l'universalità di una comprensione fondamentale. L'ermeneutica, secondo questa tendenza, diviene «problematica dell'intendimento». Non si tratterebbe più d'interpretare delle realtà, infatti non ci sarebbe più, stando a questi postulati, realtà stabile da interpretare. Si tratterebbe dunque soltanto di un adattamento perpetuo a situazioni e a dati culturali mutevoli.
In tal modo si spiega l'impiego abusivo di una parola sana e semplice, che è diventata la parola-chiave di ogni contestazione delle certezze rivelate e delle certezze veramente teologiche: il kerigma, ***.
Il kerigma viene opposto, come l'antimateria, alla verità stabile umanamente formulata, il dogma. Così si spiega il Padre Piet Smulders nei confronti della dottrina su Gesù Cristo formulata nei dogmi dei Concili di Nicea, di Efeso, di Calcedonia e di Costantinopoli III:
«Non soltanto i cattolici romani e le Chiese orientali ortodosse accettano queste definizioni, bensì anche la maggior parte delle Chiese della riforma. 'Una persona in due nature' - così si professa continuamente secondo una sintesi sommaria della dottrina del concilio di Calcedonia: così anche nell'istruzione dei fedeli, ogni giorno. Ciononostante, in nessuna parte ci tormenta tanto dolorosamente il problema e lo scandalo della distanza tra kerigma e dogma come appunto qui». (344)
Secondo il Padre Smulders, e certo secondo molti altri, ci sarebbe una «scandalosa» distanza tra kerigma e dogma. Queste affermazioni, però, così taglienti fanno sorgere nel nostro giovane, molte nuove domande, nella sua patetica ricerca della verità.
Il kerigma, che significa proclamazione e, per estensione, predicazione, starebbe qui ad indicare il contenuto della fede o, diciamo, il contenuto dottrinale o semplicemente la dottrina proclamata dagli Apostoli immediatamente dopo la Pentecoste. Dove si troverebbe allora consegnata integralmente, senza omissione e senza addizione, questa dottrina proclamata, questo kerigma?
Bisognerebbe, infatti, essere giunti a trovare questa proclamazione consegnata tale e quale, ossia questo kerigma apostolico tale e quale , per confrontarlo con il dogma cristologico dei Concili. I soli testimoni, che abbiamo della dottrina consegnata agli Apostoli dal Cristo sono il Nuovo Testamento e la Tradizione orale e di vita della Chiesa.
Bisognerebbe, dunque ammettere dapprima che il Nuovo Testamento non è una proclamazione apostolica, che contiene gravi alterazioni della dottrina a proposito dell'identità di Cristo proclamata dagli Apostoli, e che questa dottrina cristologica del Nuovo Testamento, come l'abbiamo detto sopra in merito agli scritti di Rahner, sarebbe sfociata nella solenne formulazione di questa alterazione cristologica, in dogmi di fede della Chiesa.
È anche quanto Smulders sostiene, in seguito alla sua affermazione sullo scandalo dell'opposizione tra kerigma e dogma. In special modo afferma di dubitare che nella Chiesa «postapostolica avesse ancor valore la cristologia dell'ascesa», la cristologia secondo la quale l'uomo nato naturalmente sarebbe stato elevato fino ad «incontrare» Dio. E contemporaneamente si chiede se questa «buona» cristologia dell'ascesa degli Apostoli, non avrebbe preso, al tempo della predicazione postapostolica, una «forma sottosviluppata la quale fu poi superata dai ragionamenti di Paolo e di Giovanni». (345) Questo significa che in tutti i casi, sarebbe stata la dottrina dell'ascesa quella degli Apostoli del primo tempo, perché secondo queste teorie, ci sarebbero gli Apostoli del secondo tempo, San Paolo e San Giovanni, che avrebbero alterato la cristologia degli Apostoli del primo tempo.
Il giovane si dirà allora:
- Se San Paolo e San Giovanni esprimono già la predicazione postapostolica, che avrebbe abbandonato la «cristologia dell'ascesa», non bisognerebbe concludere che c'è stata una scissione, una deviazione tra gli Apostoli? E inoltre che la proclamazione degli Apostoli sarebbe smarrita in quanto tale? E ancora non bisognerebbe concludere che la Chiesa, dal Nuovo Testamento, non solo cammina tra le perturbazioni interne ed esterne, ma su una falsa pista dottrinale a proposito di un problema fondamentale che concerne il suo fondamento, ossia l'identità del suo fondatore?
Smulders conclude il suo studio costatando che dopo il Concilio di Costantinopoli III (680-681) non c'è stato sviluppo nella cristologia. C'è stata una calma per la durata di secoli che «può significare che gli antichi concili hanno fissato un ambito per il pensiero cristologico entro il quale senza grande fatica poterono essere evitate deviazioni e soppressi errori». (346)
Smulders, però immediatamente dopo questa costatazione sulla lunga tranquillità dottrinale nella Chiesa su questo punto, enuncia un pensiero che, se corrispondesse alla verità, esprimerebbe una terribile realtà, perché la Chiesa non sarebbe altro che una mistificazione secolare. Dice:
«Questa calma (calma secolare cristologica nella Chiesa) ha anche qualche cosa che desta preoccupazione. Sarebbe essa stata possibile (questa calma) se la predicazione e il pensiero teologico avesse veramente inserito il mistero dell'uomo-Dio nel cuore della fede?». (346)
Perché questa calma sarebbe preoccupante? Sarebbe preoccupante soltanto se questa calma esprimesse un torpore del popolo cristiano, dei teologi, dei predicatori, dei pastori compresi; o se esprimesse un secolare compromesso dei teologi e dei predicatori, che, benché non avessero la fede nel senso dell'Incarnazione, avrebbero predicato ugualmente il dogma di Nicea; o se la predicazione non avesse messo al centro della dottrina predicata il «Mistero dell'uomo-Dio» e il popolo sarebbe vissuto senza preoccupazione cristologica. Oppure perché la calma sarebbe inquietante? Potrebbe essere inquietante per i «ridestati» di un tempo posteriore, soltanto se esprimesse una lunga e falsa situazione, una ferita in profondità e di lunghissima durata della Chiesa.
Smulders pone una domanda che include una risposta sia a proposito della calma come a proposito della cristologia in genere. Secondo Smulders la calma nella Chiesa non sarebbe stata possibile se i teologi e i predicatori avessero insegnato una dottrina contraria a quella dei concili; non ci sarebbe stata calma, se la predicazione e la teologia si fossero contrapposte alla dottrina solenne del Magistero. E inoltre, questo contrasto si sarebbe verificato qualora la vera dottrina sul «Mistero dell'uomo-Dio» fosse stata inserita nella predicazione sulla fede, «nel cuore della fede». La calma, dunque per lunghi secoli dopo il Concilio di Costantinopoli III fino all'attuale «risveglio» dei tempi recenti, sarebbe dovuta al fatto che tutti sarebbero stati sottomessi allo stesso errore, alla «falsa» dottrina dell'Incarnazione.
Perciò, questi stessi problemi posti da Smulders significano in ogni modo due cose: primariamente, che in questo lungo periodo, la Chiesa avrebbe vissuto praticamente il dogma dell'Incarnazione sia con un monofisismo, sia con un nestorianesimo, perché - da quanto emerge - il dogma dell'Incarnazione sarebbe in fondo inconcepibile e impossibile. Secondariamente, che il «Mistero dell'uomo-Dio non sarebbe stato veramente inserito» come fondamento della dottrina della fede predicata, e sarebbe questo fatto, questa assenza tanto nel dogma quanto nella predicazione della Chiesa, della «vera» dottrina sul Cristo, che avrebbe mantenuto la calma. Questa vera dottrina del Mistero dell'uomo­Dio, «soffocata» dal Magistero, dai teologi e dai predicatori per lunghi secoli, sarebbe dunque la dottrina dell'ascesa e non la dottrina del dogma dell'Incarnazione.
E Smulders concludendo, per spiegare probabilmente il risveglio, così collega:
«Il mondo ellenistico e quello bizantino degli inizi, in cui il dogma cristologico ha raggiunto la sua forma, sono tramontati ormai da secoli; le loro concezioni, i loro concetti, le loro categorie e schemi mentali, sono diventati estranei all'umanità». (347)
Il giovane, stordito di fronte a tutte le affermazioni di questi teologi, avrà preso così nota di quanto si è reso conto:
a) Dopo la critica storica e la teologia fondata su questa, la Chiesa, sin da San Paolo, vive in un errore capitale: il mistero dell' Annunciazione e dunque dell'Incarnazione del Verbo di Dio.
b) Tutta la fede definita in base al mistero dell'Annunciazione, sin da Nicea fino al 1950, ossia fino alla proclamazione del dogma dell'Assunzione, sarebbe stata fondata, si sarebbe sviluppata e avrebbe vissuto su una credenza erronea: la cristologia dell'Incarnazione.
c) Attualmente si predica come possibile una conservazione dei termini della fede da parte della Chiesa, pur dando loro poco a poco un nuovo contenuto, una cristologia del tutto contraria. Ossia: chiamare Incarnazione la dottrina dell'ascesa di un uomo verso un punto culminante dove ci sarebbe l'incontro con un Dio «discendente» al fine di comunicare Se stesso; chiamare cristologia la teologia dell'ascesa dell'uomo; chiamare Figlio di Dio l'uomo perfezionato, l'uomo «umanizzato» secondo Kung; (348) chiamare Chiesa di Dio l'associazione degli uomini sotto l'ispirazione dell'uomo perfettamente umanizzato. E così di seguito a proposito di ogni nozione e di ogni esperienza e di ogni rivelazione.
d) Non ci sarebbe nessun documento sufficientemente oggettivo che avrebbe trasmesso alla Chiesa del tempo di San Paolo e di San Giovanni le basi fondamentali della realtà e del messaggio di Cristo, e questo, perché già una predicazione al tempo di San Pietro, sarebbe stata alterata dalla predicazione, sempre al tempo di San Pietro, poiché già gli scritti di San Paolo e di San Giovanni porterebbero le conseguenze di questa alterazione.
e) Non avremmo l'integrale testimonianza di nessun testimonio oculare, poiché San Matteo, che era tra i Dodici, avrebbe riportato fatti e parole non corrispondenti alla realtà.
f) I Padri dei primi secoli, come Sant'lreneo, per esempio (349), non avrebbero avuto una vera conoscenza della lingua dei Settanta né di certo di quella ebraica, poiché costoro avrebbero visto e letto in Isaia 7,14 l'annuncio dell'Annunciazione. Sant'Ireneo specificamente, avrebbe avuto un gran torto nel dichiarare così fermamente e così nettamente:
«Fu, dunque, Dio a farsi uomo e il Signore in persona ci salvò, egli che ci diede il segno della Vergine (Is. 7,14). Non è perciò vera l'interpretazione di alcuni che osano tradurre la Scrittura così: 'Ecco, una giovane porterà nel seno e partorirà un figlio'. - Gli apostoli, infatti, che sono anteriori a costoro, convengono con la predetta versione (quella dei LXX) e la nostra versione concorda con quella degli apostoli. Pietro e Giovanni, Matteo e Paolo, gli altri ancora e i loro discepoli annunziarono tutte le cose profetate nel modo che è contenuto nella versione degli anziani (i 'Settanta') ». (350)
g) L'idea di preesistenza dell'entità eterna (Verbo di Dio) in San Paolo e San Giovanni e nell'Epistola agli Ebrei non proverrebbe da Cristo. Dapprima perché tutte le parole di Cristo sulla sua preesistenza sarebbero il risultato di una cogitazione teologica tardiva e non sarebbero state veramente pronunciate dal Cristo e d'altronde sarebbe senza importanza sapere se il Cristo ha pronunciato qualche titolo cristologico. (351)
h) Non si potrebbe fondare una cristologia attuale né sulla teologia di San Paolo né su quella di San Giovanni e neanche - come nettamente lo dice Rahner - sulla cristologia anteriore a San Paolo (della quale, per altro, non si ha alcun documento, salvo interpretazioni arbitrarie che si potrebbero fare oggi su passaggi dei testi degli stessi San Paolo e San Giovanni e degli Atti degli Apostoli ed anche di tutto il Nuovo Testamento in genere).
i) Queste considerazioni non sono isolate in qualche scritto di uno o due o tre o quattro o cinque persone. È il tenore degli scritti di numerosi autori, di professori, d'insegnanti, ed anche di pastori, oltrepassando talvolta ogni frontiera ed ogni limite di dottrina, di storia e di logica, con più o meno chiarezza nell'espressione o nei concetti. Si tratta di una disgregazione non soltanto cristologica, ma necessariamente ecclesiologica. Se il Cristo è uomo e soltanto uomo, la Chiesa è soltanto umana. L'identità di Cristo è la base di ogni teologia veridica per il cristianesimo.
Tutto questo lungo errore della Chiesa nei confronti dell'identità di Cristo, della vera proclamazione della dottrina e sulla realtà della Chiesa stessa «sarebbe messo particolarmente in evidenza» con la comparsa, all'inizio del nostro secolo, del fiore della critica rappresentata dalle opere di Dibelius, di Bultmann, di Schmidt, di Bertram. (352) È la teoria del «metodo della storia delle forme» (Formgeschichtliche Methode). È il tempo del gran mito: del mito della demitizzazione.
***
La teoria della «storia delle forme», cioè la teoria che vuole dapprima porre degli archetipi di forme letterarie come categorie alle quali bisognerebbe ricondurre tutti gli scritti del Nuovo Testamento, in base alla più meccanica delle critiche storiche, è un'invenzione che, indipendentemente dal ruolo che ha giocato in seno alla Chiesa e al cristianesimo in genere, non corrisponde in sé ad una legge o ad un'esperienza generale delle scienze umane. Non corrisponde neanche a quel che l'uomo può concepire seriamente come nozioni e principi della Scienza in genere.
Ogni cosa contiene una qualche verità, o piuttosto corrisponde da un qualche lato, relativo che sia, ad una realtà. A riguardo del «metodo della storia delle forme», si può dire senza timore di sbagliare che sia il caso di applicare questo apoftegma di martire:
O voi uomini, in nome delle mie piccole oscurità, volete soffocare la mia grande verità, e in nome dei vostri piccoli barlumi, volete coprire le vostre grandi tenebre.
La critica per mezzo del «metodo delle forme» è una falsa via di ritorno al passato e di «ricostituzione della storia» sia per quanto riguarda i fatti e i testi di cui essa si è occupata, sia per quanto riguarda la reale esperienza degli uomini a proposito dell'informazione, della trasmissione delle cose viste e udite.
Soprattutto è una grande illusione sotto l'aspetto della conoscenza oggettiva del passato. Il grave errore consiste nell'inseguimento di un miraggio: «perforare il tempo e captare il passato con un'oggettività assoluta». È la morte dell'oggettività concessa all'uomo dal Creatore. Questo vale in ogni campo della vita, dell'esperienza e del sapere umano.
La critica in base alle forme letterarie del Nuovo Testamento non ha messo più in evidenza alcune differenze tra i testi e certi «vuoti» non facilmente spiegabili nel Nuovo Testamento, di quel che non l'avessero notato, conosciuto e profondamente vissuto i primi Padri e tutti i Dottori della Chiesa.
La sola differenza sta nel clima intellettuale e spirituale nel quale ci si è messi a spiegare ad ogni costo, con riferimenti e parallelismi arbitrari, i punti oscuri e le differenze tra stili, forme, parole, ordini di relazione dei fatti. E questo, con l'illusione ancor più profonda di credere che il «critico attuale» può essere in sé più oggettivo degli autori del Nuovo Testamento, più oggettivo dei pastori della Chiesa dei primi tempi, che ricevevano e trasmettevano, per via orale e di vita, il messaggio globale della Persona e dell'insegnamento di Cristo. Questa, illusione si è resa possibile persino in persone in buonissima fede, a causa della storicizzazione della mentalità, e quindi dei criteri.
Il giovane potrebbe chiedere ad un fervente discepolo e maestro della critica storica del «metodo della storia delle forme»:
- Tramite quali criteri si può esser sicuri dell'assoluta oggettività di una delle molteplici storie della Rivoluzione francese o del Risorgimento, considerate le «omissioni», le «addizioni» e le relazioni comuni a tutti i libri di storia?
- Come si può esser sicuri dell'oggettività delle esposizioni su fatti molto più recenti, come la storia della Rivoluzione russa dell'ottobre 1917 e di quel che è venuto dopo? Secondo quali criteri si può trovare il libro di verità oggettiva?
- Qual è il criterio per trovare la verità oggettiva di fatti ancor più recenti, come per esempio la storia del Concilio Vaticano II? Qual è il criterio che, per cogliere il vero «Fatto Conciliare», mi permette di scegliere tra lo spirito dei testi di Karl Rahner e lo spirito dei testi di Urs von Balthasar?
Egli potrebbe allungare indefinitamente la lista delle sue domande, senza mai ricevere una risposta adeguata dal critico, discepolo della «Formgeschichtliche Methode».
Non è qui il luogo di protrarsi sul vasto problema dell'oggettività della conoscenza e dell'informazione. Appena, però, si esce da questo «incantesimo» dei parallelismi, delle precisazioni a priori di una fonte o di due fonti, che subito ci si rende conto del soffocamento della grande verità, in nome delle piccole oscurità e dei «vuoti», senza immediata spiegazione pratica. Il giovane capirà anche che seguire i molteplici sentieri già aperti e quotidianamente aperti da ogni specie di cogitazione esegetica, equivale a perdere la via regale dello studio, del confronto dei testi con la vita profonda dell'uomo, e perdere così il vero volto e il vero messaggio del Cristo; cioè perdere la vera Storia.
E si renderà così conto della vera essenza e del vero aspetto del problema della conoscenza della verità storica. Si renderà conto del come e del perché la Chiesa nonostante le contraddizioni apparentemente insolubili per la ragione ordinaria e nonostante la ristrettezza talvolta desolante di alcuni suoi figli, ha potuto cogliere in quanto insieme e per mezzo delle migliori intelligenze dell'umanità, la realtà storica e il mistero storico di Cristo, attraverso la realtà storica e il mistero storico del Nuovo Testamento e della Tradizione.
E si renderà conto che la Chiesa ha potuto afferrare questa profonda realtà in mezzo alle continue crisi di tutti i popoli ed anche, sin dall'inizio nel proprio seno.
Il giovane intuirà allora i criteri e il metodo del vero pensiero e della vera coscienza scientifica. E capirà molte cose semplici, profonde e immense:
- Capirà che nessuno dei nostri sapienti critici attuali potrebbe essere un testimonio più oggettivo e veridico di San Matteo, di San Luca, di San Marco, di San Giovanni, di San Paolo, né più oggettivo re latore e continuatore del messaggio apostolico che non lo siano stati i Padri apostolici, nel ricevere e continuare la Tradizione scaturita dall'essere stesso e dal verbo di Cristo.
- Capirà quanto sia semplice non fare un'artificiale distinzione tra Nuovo Testamento-documento storico e Nuovo Testamento-documento religioso. lnfatti è proprio il carattere luminoso della testimonianza apostolica, diretta e indiretta, ad essere altamente religioso perché profondamente storico e altamente storico perché profondamente religioso.
- Capirà che l'oggettività dei fatti che concernono l'uomo e Dio non è mai neutra, perché la verità non è mai neutra. Essa è sempre di Dio. E senza Dio, nessuna realtà dei rapporti dell'uomo e di Dio può essere colta e trasmessa oggettivamente.
- Capirà che il riferimento all'anonima «comunità primitiva» per quanto riguarda la testimonianza e il messaggio dal più elevato significato per la redenzione dell'uomo giacente nella sua relatività temporale, è un non-senso. È forzare l'ordine logico delle cose, sfigurare la più elementare realtà dei rapporti dello spirito e del verbo, tanto più che si tratta di un unico essere, del Cristo.
- Capirà che è disonesto spezzettare e ricomporre i testi e cercare di reperire ad ogni costo fonti diverse, purché la fonte non sia colui che il Cristo ha inviato come Apostolo e colui al quale l'Apostolo ha trasmesso l'immensa esperienza di aver accettato totalmente ed ontologicamente il Cristo.
- Capirà che non sono i divari delle narrazioni a poter infirmare sia la storicità come la veridicità sacra del Nuovo Testamento. Per tutti questi casi, si rammenterà le parole di San Pietro in relazione agli iscritti di San Paolo:
«Come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto - in esse (nelle sue lettere) ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per la loro rovina». (353)
- Capirà che è profondamente rattristante vedere fino a qual punto si può arrivare, purché sia annullata la testimonianza della preesistenza della divinità di Cristo; come per esempio l'invenzione di Bultmann a proposito del Prologo del Vangelo di San Giovanni, caratterizzandolo come un «inno gnostico proveniente da circoli del Battista» (354); o come fa Schnackenburg che accetta ogni soluzione purché San Giovanni non ne sia l'autore. E il giovane imparerà come si può giungere fino a pretendere, come Schnackenburg per esempio, che il Prologo di San Giovanni è «un inno cantato dalla comunità» che l'Evangelista ha raccolto e adattato al suo Vangelo. (355)
- Capirà che il clima spirituale e intellettuale, che crea questa ostinata negazione di ogni affermazione importante e di ogni evento miracoloso del Vangelo, come spesso fa Bultmann, clima pesante, pieno di dubbi e di sospetti, è una prova immediata che lo spirito e il metodo di critica, di analisi e di spiegazione non provengono da Dio.
- Capirà che quella che la Chiesa chiama Tradizione, fonte e via d'informazione veritiera sulla realtà di Cristo e sul messaggio di Cristo, è una realtà storica, e non un'invenzione.
- E avrà capito che nessun metodo come «la storia delle forme» o come quello della «storia delle tradizioni» e della «storia delle redazioni» potrà confermare e infirmare una testimonianza. Capirà perché la più perfetta prova di vera testimonianza non può venire dall'esterno, ma dalle stesse testimonianze. Quando la prova è immanente alla testimonianza, nessun paragone, nessun confronto può alterare la sua trascendente veracità. È la verità immanente alla testimonianza che giudica i mezzi e gli strumenti di ricerca. Non sono i mezzi e gli strumenti di ricerca a giudicare della trascendenza della testimonianza.


Post più popolari