DRAMMA DELL'ESEGESI MODERNA 2






Estratto dal libro 

MITI E REALTA'

del Servo di Dio Mons. PIER CARLO LANDUCCI(una nota biografica del Servo di Dio in fondo a questo documento)

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IL VANGELO DELL'INFANZIA



UN ARBITRARIO GENERE LETTERARIO

     Nel quadro generale del problema critico della storicità dei Vangeli, è sorto il problema particolare della storicità del così detto Vangelo della infanzia di Gesù, ossia dei primi due capitoli di S. Matteo e di S. Luca, che narrano la storia dell'infanzia del Signore. Particolarmente chiamato in causa è Luca, più diffuso e circostanziato. In Francia una recente vita di Gesù ha saltato a piè pari la storia dell'infanzia. A Roma un illustre esegeta proclamava solennemente che gli studi fervono ancora in proposito: la cosa quindi è ancora sub iudice, la Chiesa non si è pronunciata. Un altro biblista riferendosi, in particolare, all'ultima Istruzione della Pont. Comm. Bibl. sulla verità storica dei Vangeli (21 aprile 1964), ha affermato che essa non aveva ritenuto opportuno esprimersi sulla storicità dei dettagli dei racconti dell'infanzia, il che andrebbe interpretato - secondo tale biblista, che è passato tranquillamente dal silenzio alla negazione - come ammonimento a non dare peso a quei particolari storici.
     
Non faccio nomi perché dovrei elencarne troppi. Dirò solo, quasi a modo di sintesi, che anche per Karl Rahner «possiamo senza timore tener conto che nella storia dell'infanzia è contenuto un pezzo di Midrash, l'illustrazione trasfigurante [ossia romanzesca] dell'inizio del Messia» (in Concilium, 3, 1968, p. 45).

    Si vorrebbe un pronunciamento autorevole, positivo, sui racconti della infanzia? Perché? Non si possono pretendere continue decisioni della Chiesa su tutti i punti particolari, mentre esistono e sono sufficienti quelle generali, tante volte ripetute sull'inerranzia biblica, anche nel settore storico.
     Ricordiamone alcune. «L'ispirazione divina è incompatibile con qualsiasi errore... Coloro che ritenessero che nei passi autentici dei libri sacri possa contenersi qualche cosa di falso... farebbe Dio stesso autore dello errore» (Leone XIII, Providentissimus, 18 nov. 1893). «Sbaglieranno miseramente... quei recenti che... restringono... l'immunità da errore e la verità assoluta all'elemento primario o religioso» (Benedetto XV, Spiritus Paraclitus, 15 sett. 1920). «Questa dunque è la dottrina che il nostro predecessore Leone XIII con tanta gravità ha esposto, e che noi... inculchiamo perché sia da tutti scrupolosamente mantenuta» (Pio XII, Divino afflante Spiritu, 30 sett. 1943). «Con audacia alcuni pervertono il senso delle parole del Concilio Vaticano, con cui si definisce che Dio è l'autore della S. Scrittura; e rinnovano la sentenza, già più volte condannata, secondo cui l'inerranza della S. Scrittura si estenderebbe soltanto a ciò che riguarda Dio stesso o la religione o la morale» (Pio XII, Humani generis, 12 agosto 1950). La stessa suddetta Istruzione della Pont. Comm. Bibl. ribadisce, in particolare, contro coloro che mettono «in dubbio la verità dei detti e dei fatti contenuti nei Vangeli», che questi «furono scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, il quale ne preserva gli autori da ogni errore» (Instructio de historica Evangeliorum veritate, 21 apr. 1964); il che fu confermato da Paolo VI, secondo cui tale Istruzione «difende in modo speciale con calma e vigorosa chiarezza la verità storica dei santi Vangeli» (Discorso ai partecipanti alla XVII settimana biblica, 26 sett. 1964).
    Anche il Vaticano II ha riaffermato «senza alcuna esitazione la storicità» dei Vangeli, i quali hanno bensì scelto «alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o anche in iscritto... sempre però in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità» (R 19: deh. 901); il che rientra nella riaffermazione generale dello stesso Concilio, della divina ispirazione di tutta la Sacra Scrittura, la quale riporta «tutte e soltanto quelle cose che Dio voleva fossero scritte», insegnando «con certezza, fedelmente e senza errore la verità, che Dio per la nostra salvezza [scopo di tutta la Scrittura] volle fosse consegnata nelle sacre lettere» (R 11: deh. 890).
     Dispiace il tentativo di chiudere la bocca al profano con la prospettiva dei misteriosi «studi che fervono ancora in proposito». Che ele­menti nuovi si spera di trarne, se, agli effetti del nostro problema, è ormai tutto noto? Vogliono scoprire il manoscritto di S. Luca? Sarebbero, quanto al nostro problema, allo stesso punto di prima!

    In realtà si vorrebbe giustificare e, in pratica, si crede già di aver giustificato criticamente, il diritto d'interpretare il Vangelo dell'infanzia di Gesù come un genere letterario di annunzio teologico, valorizzato didatticamente da una veste narrativa più o meno immaginaria.
    Ma proprio qui sta l'errore critico, sia di esegesi, sia di teologia, sia anche di pratica pastorale.
    Esegeticamente, si sa come sia necessario, per un solido studio, di approfondire il genere letterario delle rispettive narrazioni (cfr. R. 13: deh. 892). Un genere puramente didattico di una narrativa biblica può perfettamente armonizzare con la inerranza biblica; ma esso può essere affermato solo quando vi siano proporzionati argomenti per farlo (si consideri, per es., la storia di Giona, secondo l'opinione, anche se molto discutibile, di non pochi esegeti). Nel caso invece dei due primi capitoli di S. Luca (e similmente dei due primi di S. Matteo) la circostanziata narrazione storica fa strettamente corpo con la storicità del supremo fatto dogmatico che è l'incarnazione del Verbo, creandone l'armonico contesto e la necessaria base. Dire che quel che conta è la sostanza del fatto (ispirazione divina alla Madonna e concepimento del Salvatore per opera di Spirito Santo) è come dire di una cattedrale che quel che conta è la costruzione esterna, distruggendone però le fondamenta. Le solide fondamenta storiche del supremo divino evento sono precisamente costituite dalla verità di tutte le altre prodigiose circostanze, pienamente armoniche alla straordinari età divina dell'evento e segno dell'accurata ricerca storica dello scrittore. Quanto cioè all'autenticità della narrazione lucana, se si dovesse dubitare di quelle precise circostanze si potrebbe analogamente dubitare dell'autenticità dell'evento principale. E si noti la differenza con altre narrazioni sintetiche del Vangelo, che possono prendersi a senso: qui invece si tratta di circostanze straordinarie, accuratamente precisate. In questi casi è illusorio quindi distinguere i «dati storici da una parte e gli elementi destinati a coglierne il significato dall'altra parte» (cfr. J. Daniélou, Les Évangiles de l'Enfance, Paris, 7), e di pretendere anzi in tal modo di cogliere «la profondità della realtà storica» (ivi 9): la sicurezza di questa dipende infatti dalla verità di quelle circostanze.
    Teologicamente inoltre è incongruente appellarsi all'importanza del solo evento sostanziale, sia perché le altre circostanze lo illuminano e inquadrano convenientemente, sia perché - come dicevo - esse ne concretizzano la base storica. Si può, d'altra parte, estendere agli eventi dell'infanzia quanto la suddetta Istruzione della Pont. Comm. Bibl. dice della vita pubblica: «la fede si fondava su ciò che Gesù aveva [realmente] fatto e insegnato». Particolarmente inesatta è poi l'analogia tratta dall'ispirazione data dallo Spirito Santo agli Apostoli, a integrazione della rivelazione, dopo la dipartita di Gesù, fino alla morte dello ultimo Apostolo; come cioè se Luca avesse, per divina ispirazione, potuto usare pure una certa libertà di narrazione. Quella ispirazione agli Apostoli infatti riguarda la dottrina e il completamento della verità, mentre questo ipotetico rivestimento favoloso che Luca avrebbe dato al suo racconto riguarderebbe dei puri fatti irreali, strettamente e sconvenientemente mescolati alla realtà del fatto principale, svalutandone l'autenticità.
    Pastoralmente infine il solo gettare il dubbio su quelle celebri descrizioni contrasta all'ammonimento della predetta Istruzione del 1964 (eco di tanti altri simili ammonimenti della Chiesa): «[I divulgatori] si facciano scrupolo di non dipartirsi mai dalla comune dottrina o dalla tradizione della Chiesa neanche in minime cose».

    Impressionante è poi l'inconsistenza delle difficoltà addotte dai negatori della piena storicità. - La differenza delle narrazioni di Luca e Matteo? Sarebbe come dubitare della unicità di un individuo perché un cronista dice che è alto tanto e un altro dice che è biondo. I due evangelisti hanno semplicemente narrato lati diversi della stessa realtà sto­rica. E' anzi una bellissima conferma di autenticità la perfetta complementarietà delle due narrazioni. Si noti, per es., l'identità del carattere pensoso e interiore di Maria che, sotto aspetti diversi, emerge dalle due narrazioni.
     Il contenuto estraneo alla primitiva predicazione apostolica? Era naturale che questa facesse perno soprattutto sul dramma finale di Gesù a tutti noto; ma niente di più naturale che Matteo e Luca siano voluti risalire all'inizio, essi che, infatti, hanno anche riportato le famose genealogie (Mat. 1, 1-17; Lc. 3, 23-38).
   La lunghezza eccessiva dei primi due capitoli di Luca, contrastante con la restante concisione del suo vangelo? Ciò è dovuto al dichiarato proposito di San Luca di attendere con particolare impegno alla storia dell'infanzia, proprio, probabilmente, perché meno nota e non usata nella comune, primitiva predicazione: «ho investigato accuratamente ogni cosa sin dall'inizio» (Lc. 1, 3).
   L'impossibilità di conoscere quei particolari segreti? C'era la Madonna, alla quale Luca ha avuto la comoda possibilità di rivolgersi. Gli aramaismi e l'impronta semitica che caratterizzano i primi due capitoli, nei confronti dei seguenti, confermano tale fonte, di prima mano, di Luca.
   Il concentrarsi di tutti gli inni in questi due capitoli (come di tante profezie nei primi due di Matteo)? Lo portava la natura degli eventi.
   La rassomiglianza con la storia della nascita e dell'infanzia di altri grandi personaggi biblici, come Isacco, Mosè, Sansone, Samuele? Niente di più naturale di un procedere analogo di Dio a riguardo di altri personaggi che avevano una speciale missione, tanto più che il V.T. è ombra e figura del N.T. Comunque alle analogie si aggiungono per Gesù essenziali e sublimi differenze.
   Stranezza di un puro spirito angelico che si presenta in forma umana e possibilità d'interpretare, senza inutile miracolismo, l'annuncio come una pura ispirazione interiore? Nessuna difficoltà che l'angelo possa miracolosamente assumere apparenze umane per entrare in colloquio con gli uomini, come tante volte è narrato nella Bibbia (nel N. T.: ai pa­stori, al sepolcrd, all'ascensione). Nessuna amplificazione miracolistica eccessiva, nel quadro coerente del più strabiliante miracolo, quale l'incarnazione del Verbo. Solo così, d'altra parte, poté aversi il dialogo con l'angelo (si noti la differenza con S. Giuseppe) che è essenziale per lo inserimento libero di Maria nel mistero dell'opera divina di redenzione. Anche il dialogo con Zaccaria consentì preziosi insegnamenti. Comun­que i particolari della descrizione non lasciano ragionevoli dubbi in proposito.

    Un grande giornalista italiano mi diceva che queste a lui sembravano discussioni inutili.
    Gli era sufficiente considetare lo stile spersonalizzato, scheletrico, freddo, di Luca, senza alcuna glorificazione pubblica dell'eroe (descrivendo anzi, dopo i fugaci bagliori del canto angelico e dei Magi, estrema povertà, persecuzione e morte) con l'attenzione volta solo a riportare fatti e precise parole, come proprio se Luca le avesse colte e annotate dalle labbra di Maria. V'è lo stile del sincero cronista.
    Avrebbe voluto far proclamare Luca patrono dei giornalisti, per la obiettività della sua informazione.

ALLA RICERCA DEL SIGNIFICATO PROFONDO

    Un libretto, edito dalla Paideia di Brescia (1966), sul Vangelo dell'In­fanzia - tra i tanti scritti sul delicato argomento - costituisce un'utile occasione di approfondimento del problema particolare e di critica generale a un moderno tipo, alquanto sbrigativo, di esegesi biblica.
    Essendo edito a Brescia, mi aspettavo che il libretto portasse l'Imprimatur di là. Tale recente Introduzione ai Vangeli dell'Infanzia, del dotto biblista Cappuccino Prof. Ortensio da Spinetoli, ha scelto invece l'Imprimatur di Loreto. Persona seria mi ha detto che a Brescia esso non gli sarebbe stato concesso. Ciò, se fosse vero, farebbe onore a quel revisore, soprattutto per il fatto che l'argomento stesso e l'agile edizione ne fanno prevedere una rapida e disorientante diffusione nei Seminari e tra il Clero. Dopo la lettura ripenso con sorpresa alla lusinghiera presentazione dell'Osservatore Romano (le cui recensioni di S. Scrittura avevano la fama di essere molto ponderate e sicure) e della Settimana del Clero (ma questa veramente senza molta sorpresa) (11).

   Arditezze stimolanti. - L'Editore, ad apertura del libro, spiega i criteri che animano la sua collana biblica: «Novità di impostazione... arditezza delle soluzioni vogliono solo stimolare il benevolo Lettore a un ripensamento personale... delle soluzioni prospettate... invito alla ricerca...». Quanto alla benevolenza del lettore - che egli onora con la lettera maiuscola - ne sia pur sicuro perché oggi é di moda il conformismo dell'antitradizionalismo. Quanto al vezzo invece di chiamare ardite le soluzioni che con disinvolta superficialità (come farò vedere) fanno un fascio delle più solide dottrine, mi chiedo se non abbiano più diritto di chiamarsi tali le soluzioni che sanno invece approfondire e sviluppare la sana dottrina tradizionale, con coraggiosa e leale adesione al magistero ecclesiastico. Sono queste che esprimono il vero anticonformismo e ripensamento personale, contro la moda di allinearsi ai così detti progressisti, i quali spesso non fanno che copiarsi e citarsi tra loro, che riesumare antiche difficoltà e antichi errori tante volte confutati, che preoccuparsi di «togliere dalla nostra fede quanto il pensiero moderno, privo spesso di luce razionale, non comprende e non gradisce» (Paolo VI a Fatima, 13 giugno 1967). Certo non possono chiamarsi nobilmente ardite «persone e pubblicazioni, che avrebbero la missione d'insegnare e di difendere la fede [e che] non mancano purtroppo anche da noi di far eco a quelle voci sovvertitrici, per la celebrità più che per il valore scientifico dei loro fautori; la moda fa legge più della verità» (Paolo VI, alla riunione plenaria Episcopale Italiana, 8 aprile 1967).

   Arricchimento del Vangelo. - Anche l'Autore mette le mani avanti. E' una caratteristica costante in questi scrittori: prevenire la reazione dei lettori e velare le reali distruzioni che essi compiono, con espressioni di grande ossequio e fede in ciò che colpiscono e con prospettive di approfondimento, dove non si trova invece che svuotamento. Sono espressioni continuamente capovolte (12). Eccone dei saggi.

   «Sono le pagine più edificanti di tutto il N. T.... delizia dei nostri primi anni... indelebili... intramontabili» (7). - Romanticismo inutile, che nasconde l'urgente quesito: Tali pagine sono vere o no? Perché non sappiamo che farcene di pagine «intramontabili» false.

   «I primi a essere colpiti dalla soavità del mistero natalizio furono... i narratori evangelici. I fatti... erano troppo grandi per essere trasmessi come semplici note di cronaca... Attraverso i continui ripensamenti... il profondo significato... si è venuto svelando. Le scene hanno preso pian piano... ad arricchirsi... di riflessioni teologiche, di note polemiche e apologetiche... Mentre la tradizione apostolica si arrestava a questa approfondita, ma sobria ricomposizione degli avvenimenti, la predicazione... devozionale (gli Apocrifi) continuava ad arricchire il quadro» (7-8). ­ In parole povere l'arricchimento e l'approfondimento consisterebbero nella adulterazione dei fatti, i quali, mentre sono da Matteo e Luca presentati con spiccato tono di impersonale obiettività (sottolineata dalla scarna semplicità della descrizione e dalla esplicita assicurazione di S. Luca di avere «investigato accuratamente ogni cosa sin dall'inizio», di volerne «scrivere per ordine», per fornire «esatta cognizione dei fatti»: Lc 1, 3-4), risulterebbero invece una mescolanza, praticamente inestricabile e priva quindi di autenticità documentaria, di fatti obiettivi e di invenzioni didascaliche dei narratori. Va anche notato che queste ultime sono poste nella stessa linea degli Apocrifi, i quali avrebbero soltanto proseguito ad «arricchire il quadro». Tutto ciò soprattutto equivale praticamente a dimenticare che gli agiografi si trovavano nella privilegiata posizione di autori infallibilmente ispirati, così da trasmettere, come ha ribadito il Vaticano II, «con certezza, fedelmente e senza errore la verità» (R, 11: deh. 890), e precisamente, nei Vangeli, trasmettere «fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò...» «in modo tale da riferire su Gesù con sincerità e verità» [senza distinzione di parti e quindi anche la fondamentale fase dell'infanzia] (R, 19: deh. 901).

   «La nostra preoccupazione è quella di leggere i racconti della infanzia senza lasciarci fuorviare dalle sue segnalazioni superficiali, ma anche senza perdere nulla del suo profondo contenuto» (8), «a meglio comprendere, non a distruggere il contenuto del Vangelo dell'infanzia» (63). - Nell'ingannevole linguaggio di questi illustri scrittori, i pochi, ma circostanziati episodi narrati per es. da S. Luca, dopo «accurata investigazione» (proprio quelli che danno alla narrazione dei fatti fondamentali la concretezza, illuminano i fatti stessi, svelano i meravigliosi disegni e interventi di Dio, e costituiscono il sigillo caratteristico della veridicità del narratore) sono catalogati tra le «segnalazioni superficiali». E' invece catalogata come costituente il «profondo contenuto» del quale non si deve «perdere nulla» la pura sostanza del fatto dogmatico, mentre in realtà questa risulta enormemente impoverita e anzi obiettivamente perduta, sia perché non si sa dove cominci questa sostanza, variamente interpretata, a sentimento, dai vari autori, sia perché essa viene privata della sicurezza storica. In cambio viene proposto tutto un complesso di ipotetiche interpretazioni delle presunte amplificazioni dello Evangelista, estremamente incerte: esse vengono irragionevolmente preferite alla certezza dei dati storici.

   «Accanto ai testi della passione, i racconti dell'infanzia sono le parti più omogenee e più distanti dal resto del vangelo di cui fanno parte... Il primitivo annunzio evangelico... si apriva... con la presentazione del Battista» (11). - Tutto ciò è naturale conseguenza della natura di tali racconti. Le fonti accuratamente ricercate da S. Luca, di prima mano - avendo attinto, probabilmente, alla Madonna stessa - spiegano anche benissimo le particolarità filologiche e stilistiche. Era anche naturale che nella prima predicazione fosse presentata la parte pubblica della vita di Gesù, a tutti nota (cfr. At 1, 22; 2, 22; Me 1, 2).

L'INFANZIA IN S. MATTEO

   A p. 19 del libretto di P. O. troviamo un riassunto degli argomenti che porrebbero «in termini seri il problema del genere narrativo di Mt 1-2 ». Ivi si troverebbero «tratti che non si addicono a un'opera strettamente storica». - Nel prossimo paragrafo vedremo, anche per S. Luca, vari altri sorprendenti rilievi. Ecco ora gli argomenti sinteticamente presentati dal ch.mo Autore contro la piena storicità di questi due primi cap. di S. Matteo. Si tratta cioè di alcune caratteristiche di questa narrazione che in firmerebbero tale storicità. Dopo i singoli enunciati porrò immediatamente le facili risposte.

    «Colorito aneddotico». - E' la prima difficoltà, addotta da P. O. Ma chi ha mai detto che il genere aneddotico suggerisca poca obiettività? Quando specialmente gli aneddoti si riferiscono a persone o eventi di grande importanza essi mirano a caratterizzare tali persone e cose, e proprio per questo il narratore coscienzioso (anche a prescindere dalla ispirazione) cerca con cura di evitare ogni inesattezza.
   Comunque il carattere aneddotico o episodico è comune a tutti i Vangeli. Esso riflette bensì una certa disorganicità e rudimentalità di metodo storico; ma non inganno. Anzi tale rudimentalità sottolinea la spontaneità della stesura e accresce la garanzia di veridicità.

   «Abbondanza di meraviglioso (sogni, apparizioni angeliche)». ­ Questa è un'obiezione degna del modernismo razionalista di A. Loisy (ripetutamente citato da P. O.) e dei moderni esegeti «indipendenti» (come P. O. chiama i non cattolici, quasi che essi non abbiano la stretta dipendenza dalla loro pregiudiziale anticattolica) e demitizzatori. Non si tratta, in realtà, che di una cornice di circostanze mirabili, opportunamente volute dalla Provvidenza per il ben più meraviglioso quadro dell'incarnazione del Verbo.
   Anche le analogie, su alcuni punti, con altri avvenimenti vetero testamentari, suggerivano per questo culminante divino evento (non più in qualche modo prefigurato, ma reale) il rinnovamento e l'amplificazione di quelle circostanze prodigiose (tali analogie sono una conferma, anziché una difficoltà, come vorrebbero questi esegeti).
   Apparisce inoltre l'opportunità che la congiunzione tra cielo e terra, avvenuta nell'Incarnazione, fosse incorniciata da incontri premonitori, anch'essi tra cielo e terra; e ciò, convenientemente, secondo gradi diversi. Essi avvennero infatti nel sonno per S. Giuseppe. Avvennero invece in apparizione angelica visibile per Zaccaria, essendo capitato durante la sua azione sacerdotale, e in apparizione pure visibile per Maria, in vista della sua dignità di preordinata Madre di Dio, e anche (come per Zaccaria) per permettere il dialogo.

   «Inverosimiglianze (soprattutto nel racconto dei Magi)». - Tra queste inverosimiglianze il ch.mo P. O. elencherà, in seguito, per es. il contegno di Erode, ma soprattutto la stella, la cui apparizione rientrerebbe nella suddetta, criticata «abbondanza di meraviglioso». Ma abbondante sembra che sia piuttosto la solita incoerenza della obiezione: dovrebbero infatti ritenere tanto più inverosimile l'Incarnazione di un Dio (13). E' vero quanto osserva P. O., che anche nelle manifestazioni miracolose Iddio segue sapienti criteri di discrezione. Ma chi può pretendere, antecedentemente ai fatti, di stabilire la giusta misura di discrezione? Se non si vuol cadere in una esegesi acritica e puramente guidata da elastiche e arbitrarie intuizioni personali, bisogna partire dal dato scritturale per scoprire tale misura giusta. Questi autori invece partono da una personale valutazione di essa per mettere in forse il dato scritturale.

   Quanto, in particolare, alla stella, è ovvio che non va intesa come una vera stella del cielo, bensì come un fenomeno miracoloso, che abbia avuto tale apparenza, ma che sia avvenuto a non molta altezza dalla terra, così da poter guidare i Magi.
   Tale genere di miracolo rientra, d'altra parte, ottimamente nel simbolismo scritturale (cfr. Nm 24, 17), essendo stato il Messia profetizzato come luce che sorge (cfr. Is 42, 6; 49,6; 60, 1-3; Gv 1, 5). Gesù stesso si è chiamato «stella splendida e mattutina» (Ap 22, 16). Nella scrittura cuneiforme il re e la divinità sono espressi con una stella. Anche la cultura pagana guardava ai segni dal cielo. Comunque - e questo è il rilievo più importante - questo tipo di difficoltà non nasce minimamente da nuovi apporti critici dell'esegesi, ma da considerazioni generali già accuratamente vagliate dagli antichi esegeti, che le avevano ottimamente superate. Solo la moderna, preconcetta ripugnanza al soprannaturale le ripropone. Ma questa ripugnanza, essendo preconcetta, tradisce la ristrettezza di vedute di questo tipo di esegesi di moda.

   «Scarsezza di segnalazioni storico-topografiche». - Ciò conferma la spontaneità della narrazione, fedele alle fonti d'informazione, in una concezione della storia, quanto all'inquadramento narrativo, conforme ai tempi.
   Sono istantanee episodiche: la fotografia non riproduce nomi e inquadramenti topografici.

   «Preoccupazioni apologetiche (ogni avvenimento accade in ordine alle profezie del V. T.)». - Non è che la conferma teologica, scritturale e profetica della verità storica, che doverosamente lo storico ha voluto sottolineare.

   «Assenza di intento informativo (la stessa nascita del Salvatore è appena affermata, v. 18 o solo interpretata, v. 20-25). Il v. 18, per es. dice: Ora la nascita di Gesù avvenne così. La Madre di lui, Maria, ecc.». - E questa non è informazione? Come si sa tuttavia i Vangeli non sono una storia organicamente e completamente svolta, avendo un carattere prevalentemente episodico. Ma da ciò si può solo logicamente dedurre che proprio su tali circostanziati episodi si è concentrato l'impegno di esattezza obiettiva del narratore.
   Questa obiezione è un tipico saggio delle evanescenti considerazioni, apparentemente sottili, ma in realtà insignificanti, con cui spesso questi esegeti pretendono infirmare il «genere letterario» pienamente storico del Vangelo, con noncuranza della vecchia e fondamentale norma di S. Agostino, riportata nella Enc. Providentissimus: «a litterali et veluti obvio sensu minime discedendum, nisi qua eum vel ratio tenere prohibeat vel necessitas cogat dimittere» (EB 112; cfr. 328, 525).

   «Infine totale divergenza da Lc. 1-2». - L'affermazione è grave e riflette la suddetta caratteristica di questo tipo di esegesi progressista, di riesumare cioè ed accogliere vecchie difficoltà, già tante volte risolte.
   Anziché divergenza, ogni lettore imparziale non può non rilevare tra Matteo e Luca, pur così diversi, una mirabile complementarietà, che trasforma la diversità da apparente difficoltà in mirabile conferma e sicurezza di obiettività. Se infatti i due racconti si affiancassero nella narrazione dei medesimi episodi, combaciando perfettamente, ciò farebbe pensare ad una unica fonte d'informazione, riducendo il valore della duplice testimonianza ad una sola. Notandosi invece che un racconto segue una trama e l'altro un'altra, ma che le due trame, sovrapposte, armonizzano perfettamente, una integrando l'altra, così da fornire un coerente succedersi degli eventi, si ha un doppio segno di obiettività delle rispettive narrazioni e un doppio valore di autenticità. Le diverse fonti testimoniali che le hanno ispirate non possono infatti armonizzare così tra loro se non perché entrambe combaciano con la realtà. La ragione del perché un evangelista ha preso un itinerario e l'altro un'altro è del tutto secondaria e non crea alcuna difficoltà in un genere di narrazioni come quelle evangeliche, nessuna delle quali ha la pretesa della completezza, limitandosi ognuna a descrizioni episodiche. Il caso massimo è quello di S. Giovanni che ha inteso integrare le narrazioni dei sinottici. Nei vangeli dell'infanzia si nota che S. Luca ha integrato S. Matteo, sviluppando gli aspetti più intimi e mariani, avendo Matteo presentato invece gli aspetti più esteriori e giuseppini. La delicatezza degli aspetti toccati da Luca, che altrimenti sarebbero restati nascosti, è, d'altra parte, quanto mai conforme all'intento di chi «ha investigato accuratamente ogni cosa fin dall'inizio» (Lc  l, 3). Darò ora qualche esempio di questa complementarità di narrazioni.

   Quanto al verginale concepimento, da Mt 1, 18 si sa solo il fatto: «Si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo». Tutto quanto poi Matteo ulteriormente dice in 1, 18-25 è a garanzia del fatto: «prima che venissero a stare insieme»; ansie di S. Giuseppe e assicurazione dell'angelo: «ciò che in lei è stato concepito è opera dello Spirito Santo»; «non la conosceva finché diede alla luce un figlio». Niente però Matteo dice dello svolgimento storico circostanziato. Ora ecco che Lc 1, 5-80.2, 6-7 dà il prezioso e particolareggiato racconto inedito di tali circostanze, a cominciare dal Precursore.
    Quanto alla sorprendente nascita a Betlemme (tanto sorprendente che tale luogo sembrerà poi nei Vangeli dimenticato), Mt 2, l presenta ancora il fatto, incidentalmente. Lc 2, 1-6 ne dà la particolareggiata motivazione storica.
    Quanto al modo e alle circostanze relative alla nascita e ai primi quaranta giorni della vita di Gesù, Matteo non aggiunge parola, passando subito alla narrazione degli eventi avvenuti molti mesi (oltre un anno) dopo, a cominciare dalla venuta dei Magi fino al ritorno dall'Egitto e alla sistemazione definitiva a Nazaret (Mt 2, 1-23). Lc 2, 7-38 descrive invece particolareggiatamente proprio gli avvenimenti dei primi quaranta giorni. Luca omette poi tutti gli avvenimenti successivi fino alla dimora di Nazaret, riassumendo tutto quell'ulteriore periodo, analizzato da S. Matteo, con la semplice affermazione: «ritornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret» (Lc 2, 39).
     Quanto alla vita nascosta a Nazaret, Matteo non dice niente, riprendendo la narrazione con la predicazione del Battista (3, l ss.). Le. 2, 40-­52, coerentemente al suo intento, ne dà invece poche, ma preziose, intime notizie.

    Suggestivi sono pure i confronti dei particolari episodici e di carattere. Per es. in entrambi v'è l'intervento angelico, che si proporziona tuttavia rispettivamente alla personalità di Giuseppe (in sogno, Mt) e di Maria (visibilmente, Lc). La pensosità della vergine che tace con S. Giuseppe (adeguatamente corrisposta, in Mt stesso, da quella di Giuseppe) e la sua fede nel rimettere la soluzione del dramma alla Provvidenza (Mt), corrispondono alla medesima pensosità del suo colloquio con l'angelo e del suo ascolto di Gesù dodicenne e alla sua fede nel grande annuncio, glorificata da Elisabetta (Lc). La prontezza della fuga in Egitto (Mt) corrisponde alla prontezza della visita a S. Elisabetta (Lc). E così via.
    Dov'è dunque la «totale divergenza»? Apparisce solo una meravigliosa armonia.

   Questa Introduzione ai Vangeli dell'Infanzia del P. Ortensio da Spinetoli per le proprie affermazioni e per le numerose citazioni, è ricca inoltre di ben altri motivi di riflessione. Restiamo ancora nei primi due capitoli di Matteo.
   Genere «storico-artistico-midrashico». - Ecco come viene scoperto il genere letterario non storico, ma «storico-artistico-midrashico» [cioè di libera investigazione - secondo il significato del vocabolo ebraico «midrash» - meditazione e interpretazione dei fatti, come facevano i rabbini per l'A. T.] (22). (Come al solito i sottolineati sono miei).
   «Se per storia si intende una narrazione impersonale, disinteressata, in questo senso obiettiva dei fatti, i racconti di Mt 1-2 non appartengono al genere storico... le mire polemiche e apologetiche... parenetiche trapelano di tanto in tanto... è un libro di fede» (22). - Se l'obiezione fosse giusta se ne dedurrebbe questa incredibile dottrina: un testimone che, alla luce dei fatti personalmente constatati, abbia aderito pienamente a Gesù e senta tutto l'ardore e tutta la responsabilità di comunicare agli altri quei fatti stessi per far conoscere la verità di Gesù, un tale testimone, dico, anche se, come nel caso degli evangelisti, sottolinei la sua imparzialità con la scarna modestia della narrazione (che, in definitiva, anche P. O. riconosce: 23) tutt'altro che caldamente parenetica, sarebbe nell'impossibilità di fare una storia obiettiva! Invano egli potrebbe dire come S. Giovanni: «Quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che abbiamo osservato e toccato con le nostre mani... lo annunziamo anche a voi, affinché anche voi siate in comunione con noi» (l Gv l, 1-3). Anzi, proprio col dare questa assicurazione, egli rivelerebbe «mire apologetiche» e quindi non sarebbe un obiettivo narratore e, più o meno, ingannerebbe i lettori!
     L'affermazione è sorprendente, anche prescindendo del tutto dalla garanzia di obiettività data dalla ispirazione dello Spirito Santo.

    P. O. incalza e spiega: «Se uno storico ha bisogno di fatti e di obiettività, un apologeta,... un pastore ha bisogno di... pathos, di immaginazione... tratti commoventi e sconvolgenti al posto della precisione episodica. La preoccupazione principale di un evangelista non è quella di cercare i particolari più obiettivi quanto quelli più idonei a... stimolare...» (ivi). CosÌ pensano, pur con diverse gradazioni, gli esegeti che non ammettono la piena storicità dei Vangeli, assimilandone, più o meno, il «genere letterario» a quello realmente ammissibile (per ben diversi motivi) in certe narrazioni dell'A. T.
    Ma l'errore di tale concezione sta proprio in quella assimilazione d'un evangelista a un qualunque approssimativo predicatore e «pastore» (alle cui inesattezze si può indulgere, anche se non si possono lodare nemmeno in lui). Il predicatore parla di cose già storicamente, nella loro sostanza, garantite; l'evangelista invece le garantisce con la sua testimonianza, la quale traballerebbe tutta se non fosse tutta veritiera. I precisi episodi che l'evangelista adduce vogliono costituire ovviamente una garanzia della verità della narrazione, proprio in quanto particolareggiati e obiettivi. D'altra parte quel modo dimesso di esporli esclude qualsiasi ragionevole sospetto che siano stati narrati per ottenere il colpo di effetto.

   Il genere artistico tuttavia risulterebbe - spiega P. Ortensio: 25 ss. - dalla scoperta di una preordinata disposizione dei fatti, collegati ad altrettanti testi dell'A. T.: genealogia, nascita verginale, nascita a Betlemme, fuga in Egitto, strage degli innocenti, ritorno a Nazaret, con i rispettivi richiami profetici dell'A. T.: Mt 1, 22-23; 2, 5-6. 15.17-18. 23. Questo sarebbe il segno di qualcosa di artificioso, al di fuori della pura obiettività storica.
   E perché? Niente invece di più naturale che in una narrazione episodica pienamente obiettiva, ma molto ristretta, il narratore scelga e ordini le sue descrizioni e, sapendo che l'A. T. è preparazione del Nuovo, cerchi in esso il preannuncio profetico dei nuovi eventi e, trovatolo, lo enunci.

   Il carattere midrashico - così chiamato dal suddetto vocabolo ebraico «midrash» che esprime il concetto di «investigare» e si riferisce al ripensamento della Scrittura, fatto dai rabbini, con libere analogie, interpretazioni e amplificazioni, a scopo di ammaestramento - risulterebbe infine dalle analogie con i fatti dell'A. T. e con i relativi commenti rabbinici (29 ss.). Per es. i sogni di Giuseppe trovano riscontro nei patriarchi del V. T., la venuta dei Magi ricorda quella della regina di Saba a Gerusalemme, i drammatici eventi che ne seguirono ricordano quelli dell'Esodo, ecc. (e tutto ciò tanto più nei commenti rabbini ci midrashici).
   Ma questo modo di ragionare riflette la vecchia tentazione sempli­ficatrice dell'esegesi, di identificare le cose rassomiglianti. Chi è che non può trovare, volendo, grandi rassomiglianze tra personalità ed eventi pur diversissimi? Tanto più è da attendersi che vi siano analogie tra gli eventi dell'A. T. e del N. T., di cui l'Antico è preparazione e figura. Insieme comunque alle analogie vi sono spiccate differenze, ben concretizzate nelle circostanziate descrizioni.
   Ogni sospetto quindi sulla natura fittizia delle narrazioni evangeliche, come se fossero fatte a modello prestabilito, risulta privo di fondamento.
  Circa le obiezioni per le pretese inverosimiglianze e per la sovrabbondanza del meraviglioso, già ne vedemmo l'infondatezza e l'incoerenza.

   Questi esegeti si preoccupano però - come è noto - di avvertire che da tutto ciò non segue alcun danno per la sicurezza del messaggio evangelico. Esso anzi ci guadagnerebbe. Ma questa non è che una involuzione logica, la quale costituisce l'aspetto più drammatico e penoso di tale tipo di esegesi moderna. Non si tratta solo di P. O., ma di tutti gli autori, non di minor grido, che egli largamente cita.
   Si stia tranquilli - essi dicono -: le integrazioni immaginate dall'evangelista hanno il solo scopo di far risaltare l'«avvenimento storico fondamentale» (23). Matteo è «quindi sostanzialmente storico. Alla base dei racconti vi è un nucleo... che non può essere messo seriamente in discussione... Perfino il racconto dei Magi... non viene rigettato, almeno in blocco» (ivi). Si tratta di una «storia che nelle sue linee essenziali è intrinsecamente probabile» (24). «Storia vera, senza dubbio, ma popolare e religiosa... gli abbellimenti... pseudo-soprannaturali (sogni e apparizioni) ecc. .. non compromettono l'essenza dei fatti» (ivi). E' vero, «la fuga in Egitto e il ritorno in patria fanno pensare alla fuga di Mosè dalla presenza del Faraone... richiamano avvenimenti ancora più antichi... la partenza in massa del popolo dell'Esodo... [e le tradizioni, ossia invenzioni edificanti midrashiche] che illustrano ulteriormente il racconto di S. Matteo [così la immaginaria persecuzione di Labano a Giacobbe può avere ispirato la figura di Erode che perseguita Gesù, ecc.]... Così il fondo di Matteo 1-2 va spostandosi dalla vita di Mosè agli avvenimenti... di Israele [con il risultato di] arricchire, approfondire la portata dei fatti che apparentemente non eccedono le dimensioni di un comune aneddoto... acquistando le proporzioni dell'intera fase preparatoria della salute... La preoccupazione dell'autore... è che l'episodio si accosti ai modelli preesistenti oltre e più che alla realtà [ricollegandosi] alla esegesi edificante, omiletica, teologica, folcloristica degli scrittori ascetici, degli oratori sacri, dei Padri, dei maestri medievali, come con le ricostruzioni dei narratori popolari... [il che] non contrasta con la dignità del libro sacro e non compromette la realtà dei fatti annunziati» (37 ss.). 
     «Questa introspezione del fondo di Mt 1-2 sorprenderà più di uno, ma non può essere... rigettata a priori, soprattutto perché si è ancora ai primi tentativi. [Ma, come è logico, il metodo non può restare riser­vato a questi due soli primi capitoli). Anche nel resto del vangelo di S. Matteo si hanno esempi del genere (cfr. il racconto delle tentazioni, della trasfigurazione, della morte di Giuda, del sogno della moglie di Pilato, ecc.)» (42).
    Certo non se ne sorprende il ch.mo Léon Dufour, citato in nota dal P. O. (p. 42), il quale, circa i racconti di Mt 1-2, con disinvolta sicurezza afferma: «senza dubbio... appartengono a questo genere edificante ed esplicativo, strettamente riallacciato alla Scrittura»; «senza timore di errare si può affermare che il midrash di Mosè ha suscitato un reale influsso sulla fonte del racconto di Matteo».

    A me sorprende invece soprattutto un fatto: che questi studiosi facciano mostra di non accorgersi che con tali criteri - a parte il loro con­trasto con la bene intesa ispirazione biblica - quella famosa base, quel famoso fondo, quel famoso nucleo della narrazione evangelica si dissolvono, in realtà, nella indeterminatezza di valutazioni elastiche e incerte quanto elastiche e incerte sono le presunte intenzioni, i presunti spunti scritturali o favolosi, che l'uno o l'altro esegeta, in modo diverso, sulla scorta di pure analogie e di personali intuizioni e preferenze, crede di potere attribuire all'agiografo. Con questi criteri, come si può sicuramente affermare che in un certo punto finisce l'amplificazione favolosa e comparisce il nucleo storico? Perché, più coerentemente, non affermare che il tutto rientra nel genere letterario mitico? Perché mai, infatti, per es., ritener favoloso l'intervento angelico e non la maternità verginale (che infatti il nuovo catechismo olandese non ha voluto proclamare), o non, addirittura, la incarnazione del Verbo?
    Non è quindi ragionevole qualificare come approfondimenti e arricchi­menti esegetici queste analisi disgregatrici. E si dimostrano di ben facile accontentatura quei critici che, chiamati «comuni aneddoti» da svalutare (cfr. 41) le poche, ma precise e preziose circostanze dell'infanzia di Gesù, si appagano poi d'un fondo storico essenziale soltanto «intrinsecamente probabile» (24) e argomentano su così grandi eventi soprannaturali in base a evasivi concetti come quelli di «inverosimiglianza» o «verosimiglianza» (36, 48, 49, ecc.).

    Ma terminerò il paragrafo con qualche saggio particolare di questi  esegeti. Il citato M. Iglesias (37) non potendo ammettere che la stella dei Magi sia stata «una vera costellazione che si sposta da una parte all'altra del cielo» ne deduce senz'altro che l'«astro è un elemento immaginario, un simbolo». Metodo molto sbrigativo. Ci voleva tanto a supporre invece che si sia trattato di un fenomeno miracoloso presentatosi vicino alla terra, che aveva l'apparenza di una stella?
    Léon Dufour, pure citato in nota da P. O., per difendere la verità essenziale dei fatti osserva che per negare la storicità di un racconto bisognerebbe dimostrare che esso è storicamente impossibile e che sia stato inventato integralmente dall'autore. Benissimo. Ma perché ciò dovrebbe valere solo per il racconto integralmente considerato e non ano che per le circostanze così accuratamente descritte? Almeno si limitasse a dubitare della non autenticità di queste circostanze! Macché! Egli abbandona al riguardo ogni moderazione critica, e dice: «senza dubbio», «senza timore di errare» (42).

    Ecco ora un saggio critico di P. O., a riguardo del «racconto della concezione e nascita del Salvatore» (44 s.). Egli vuol dimostrare che la drammatizzazione, ossia l'adornamento fittizio, non può aver «creato di sana pianta l'intero racconto». Il famoso fondo storico sembra dunque potersi ridurre a una piccola radichetta (essendo esclusa solo la «sana pianta» fittizia). Di fatto però questa radichetta corrisponderebbe a tutto «il fatto centrale», ossia a «la genesi miracolosa del Messia», sulla quale «nessun dubbio è possibile». Tale dubbio sarebbe invece possibile quanto ai «contorni descrittivi» (come «la crisi di Giuseppe, il sogno, l'apparizione angelica, ecc.») dei quali si potrebbe escludere la storicità. Questo significa che la certezza storica può essere esclusa da tutta l'ampia descrizione, eccetto l'affermazione primaria del v. 1, 18. Ma tutta la descrizione non rientra organicamente in un chiaro intento di precisazio­ne, espresso dall'evangelista con queste esplicite parole: «la nascita di Gesù avvenne così»? Esclusa l'autenticità per quei «contorni descrittivi», perché essa andrebbe invece affermata per quel «fatto centrale»? Quali sono le misteriose ragioni per affermare la privilegiata autenticità di quel «fatto centrale»?
    Sarebbero due. La prima è che l'evangelista «ribadisce la notizia [della miracolosa nascita] ripetute volte (1, 16. 18. 20. 23. 25)»: ma non si capisce perché il ribadire la notizia, mescolandola con fantasiosi racconti, aggiunga valore alla notizia stessa, anziché infirmarla. La seconda è costituita dalle «prove» addotte, tra cui, in prima linea, la particolareggiata «esperienza di Giuseppe» (45): proprio quella esperienza la cui autenticità P. O. afferma di potersi mettere in serio dubbio! Sicché la prova principale del fatto nascerebbe da una invenzione!
    P. O. insiste tuttavia su questo punto. L'evangelista - dice P. O. - vuole effettivamente dimostrare la soprannaturale nascita di Gesù, senza preoccuparsi della verità del racconto circa S. Giuseppe. Il fatto è garantito «dalle affermazioni dell'evangelista» e non da quelle di San Giuseppe e d'altra parte «una dimostrazione può basarsi anche... su fatti fittizi». Questi, nel caso, servirebbero solo a confermare l'«afferma­zione dell'evangelista». Similmente la verità storica della «caduta dei progenitori... non perde nulla... se è basata su una ricostruzione immaginaria».
    Qui le confusioni si accavallano alle confusioni. L'analogia con la narrazione della caduta è infondata. A parte che quella narrazione non viene fatta - a differenza dei Vangeli - da testimoni diretti o quasi diretti (da cui è ovvio che si debba aspettare la precisione dei particolari), un ipotetico simbolismo di alcune circostanze della caduta originale non sarebbe che un modo popolare per affermare semplicemente il fatto, senza alcun valore di prova del fatto stesso. L'«esperienza di Giuseppe» invece è presentata con il carattere di una probante con­ferma della verità del concepimento verginale, sicché una sua ipotetica finzione costituirebbe un gravissimo inganno per il lettore. Si tratta cioè di sapere se il miracoloso concepimento può appoggiarsi o meno sulla importantissima esperienza e testimonianza di S. Giuseppe. In caso affer­mativo, questa rientra in maniera fondamentale nei piani della Provvidenza per la sicura rivelazione al mondo della Incarnazione del Verbo e fa indissolubile blocco con il fatto essenziale stesso; in caso negativo, la sua affermazione sarebbe un gravissimo falso. E un tale ipotetico gravissimo falso distruggerebbe ogni ragionevole fiducia nella veridicità del narratore e quindi nell'autenticità del fatto stesso essenziale: l'«affermazione dell'evangelista», a riguardo del fatto stesso essenziale, non avrebbe cioè più alcun peso di valida «dimostrazione».

    Inutile d'altra parte sarebbe, in sede critica, rivendicare la validità dell'essenziale affermazione dell'evangelista, in base alla infallibile tradizione e all'infallibile ispirazione. E' ciò che questi esegeti sembra che stentino a comprendere.
     L'accettazione di tale infallibile tradizione e ispirazione suppone, infatti, in sede critica, l'antecedente dimostrazione della verità dell'Uomo-Dio Gesù, della sua rivelazione e della sua Chiesa, intesa, quest'ultima, come infallibile trasmettitrice della rivelazione, e come capace di definire l'infallibilità della ispirazione biblica. Ma la verità storica di Cristo, dalla quale tutto dipende, suppone la veridicità dei testimoni e dei biografi, sintomaticamente garantita dall'obiettività dell'inquadramen­to circostanziato degli eventi. Se un testimone, diretto o quasi, narrasse un fatto senza alcun inquadramento circostanziato, potrebbe ancora meri­tare fede, pur dando minore segno della sua testimonianza di prima mano; ma se lo narra con un inquadramento circostanziato essenzialmente falso, criticamente, non merita più fede.

L'INFANZIA IN S. LUCA

     Il dramma della esegesi moderna, puntualizzato. - Tale dramma non consiste nella mancanza di buona esegesi e di maestri di sicurissima dottrina (altro che ci sono!); ma nel fatto della crescente diffusione di una disgregatrice esegesi progressista, alimentata, con le migliori intenzioni, da una catena di dotti biblisti che scrivono molto, che si citano a catena, che si presentano come gli unici «à la page». Il dramma consiste soprattutto nel fatto che tale esegesi sta trovando sempre maggior credito nel campo cattolico, che ha la massima responsabilità, di fronte a Dio e agli uomini, per la difesa della verità scritturale.
    Questo sintomatico libretto del Rev.mo P. Ortensio affronta, da p. 66, con criteri perfettamente uguali a quelli usati per i primi due capitoli di S. Matteo, la valutazione della portata storica dei primi due di S. Luca. Potrei ripetere tante cose già dette per Matteo.

     Ma innanzi tutto interessano le pp. 67-69, nelle quali P. O. nel trattare di Lc 1-2 inquadra tutto il problema della esegesi moderna, ricapitolandone e puntualizzandone il dramma: egli infatti ricapitola e giustifica le posizioni di questa nuova esegesi. Secondo il suo riassunto, nel secolo scorso esplose la radicale critica razionalista hegeliana dello Strauss (1808-1874) e degli altri indipendenti (come P. O. chiama pur tanti che furono schiavi della pregiudiziale anticattolica e antireligiosa), critica che rifiutò ogni contenuto soprannaturale del Vangelo, ritenuto come inve­rosimile e leggendario, a cominciare, naturalmente, dal Vangelo della Infanzia. «Nonostante la faziosità e gli estremismi» tale «critica indipendente» aveva «scoperto un problema reale sino allora sconosciuto» circa il «concetto di storicità evangelica». Ma purtroppo il problema restò ancora chiuso per un secolo ai cattolici, incapaci di vera «obietti­vità» [gratuita accusa al campo cattolico!] perché, anziché trarre insegnamento dall'impostazione critica degli «indipendenti» [essi obiettivi!], restarono «arroccati» nelle posizioni tradizionali, seguitando ingenuamente [Lagrange compreso] ad attenersi al «senso ovvio dei racconti evangelici». Ma finalmente anche i cattolici acquistarono «maggiore obiettività», facendo attenzione alle «questioni di forma» e considerando [per es. in Lc 1-2) gli schematismi artificiosi della trattazione, il ricco substrato biblico veterotestamentario, le inverosimiglianze di pura finalità didascalica, gli intenti apologetici di Lc 1-2. A distanza di un secolo dalla non bene risolta, ma utile problematica del razionalista Strauss, finalmente cattolici e indipendenti cominciarono, da alcune de­cine di anni, a camminare a braccetto, «quasi di comune accordo», nella strada della nuova esegesi critica, mirando a cogliere sempre meglio la verità di «fondo», nascosta sotto la forma verbale, materiale, esteriore, ossia a scoprire «l'esattezza cronistorica e cronologica delle notizie e delle affermazioni dell'evangelista» (112).
    Non fa alcuna meraviglia la consueta ultima affermazione. Questi volonterosi esegeti, quanto più svuotano e rendono incerto il contenuto evangelico, tanto più parlano di approfondimento, di arricchimento, di esattezza. Eufemismi? Difetto logico? Insincerità? Basta ricordare quanto notai per S. Matteo; e altro vedremo per S. Luca.

   Cattolici e miscredenti. - Il dramma è tutto svelato, alle sue radici, in quel procedere insieme - «quasi di comune accordo» - credenti e miscredenti. Ciò significa avere ceduto alle obiezioni della miscredenza di un secolo fa. Oggi infatti è quasi inutile, specialmente nelle introduzioni bibliche, guardare se il libro porta l'Imprimatur, perché cattolici e non cattolici li vediamo in gran parte confluire nelle medesime tesi antitradizionali.
   Ci si guardi bene dallo svalutare lo shldio del «genere letterario» della narrazione evangelica, la cui importanza è stata felicemente messa in evidenza nell'esegesi moderna: esso è infatti indispensabile per comprendere quello che l'agiografo ha voluto dire (ed è stato perciò novamente raccomandato dal Concilio: R, 12: deh. 892). Neanche si deve negare l'apporto documentario e problematico che può venire anche da studiosi miscredenti.
   Ma è impossibile, in via ordinaria, procedere affiancati nei risultati esegetici. E ciò proprio supposto l'impiego dei medesimi rigorosi criteri d'indagine, come già notai nel primo cap. di questa parte (cfr. 181 s.).

   Infatti - per fare qualche esempio - l'inverosimile andra bensì, da tutti, criticamente scartato. Ma il razionalista, negatore, a priori, di ogni realtà soprannaturale, considererà come inverosimile ogni miracoloso intervento divino; il cattolico invece sarà libero di affermarlo o negarlo secondo i casi e, nel contesto scritturale di supremi avvenimenti divini (l'Incarnazione) circostanziatamente descritti, dovrà logicamente essere tutt'altro che facile ad ammetterlo.
   Le analogie con le narrazioni veterotestamentarie potrebbero indubbiamente anche tradire delle artificiose elaborazioni devozionali e didascaliche. Ma, mentre il razionalista è praticamente obbligato ad affermarlo, il cattolico può invece scoprirvi un riflesso della provvidenziale colleganza e unità del Vecchio e del Nuovo Testamento, essendo il primo preparazione al secondo.
    Il ripetersi di rassomiglianti schemi narrativi delle due annunciazioni può spiegarsi sia come artificioso montaggio, sia come armonia di fatti reali, sapientemente così regolati da Dio, per due eventi tra loro strettamente congiunti. Il razionalista non può ammettere che la prima soluzione, mentre il cattolico ha buone ragioni per preferire la seconda.
    Un succedersi di circostanze narrative dimostrative e convalidatrici del fatto principale, potrebbe certo far criticamente prospettare l'ipotesi che ciò costituisca un artificioso espediente apologetico. Il razionalista preferirà senz'altro tale ipotesi, mentre il cattolico troverà invece molto ragionevole che la Provvidenza abbia obiettivamente fatto maturare gli eventi in un quadro dimostrativo che li garantisca.

      Ma, più in generale, la disparità di valutazione tra credenti e miscredenti si avrà inevitabilmente quanto alla basilare determinazione del genere letterario. L'ipotesi, per il Vangelo dell'Infanzia, di un genere che sia storico soltanto quanto al fondo e non quanto alle circostanze esteriori, infirma, in realtà, tutto il valore della narrazione. Infatti, come già feci notare, nessuno potrà mai dire con sicurezza dove termina l'esteriore e dove comincia il fondo; inoltre, e principalmente, in una narrazione testimoniale come quella dell'infanzia, scritta da chi «ha investigato accuratamente ogni cosa fin dall'inizio» (Lc 1, 3), la verità dei vari circostanziati episodi è l'unica solida garanzia della verità della sostanza. A differenza pertanto del miscredente, che non avrà difficoltà ad ammettere tale invalidazione della testimonianza evangelica, l'esegeta cattolico non può supporre che alla base della rivelazione storica di Gesù vi sia una tale imponderabile e incoerente documentazione; né può supporre che lo Spirito Santo abbia ispirato una così inefficace narrazione documentaria.
    Lo Spirito Santo, rispettando le caratteristiche personali e culturali dell'Agiografo e dei tempi, non ha fatto scrivere certamente una storia documentaria, minutamente e rigorosamente circostanziata e inquadrata, nel tempo, nei luoghi, nelle cose e nelle persone, secondo il raffinato stile moderno. Ma non può aver fatto scrivere nemmeno una storia così mescolata alla fantasia da distruggere se stessa, annullando la sua essenziale funzione documentaria e testimoniale.

   Antico e Nuovo Testamento. - Nessun confronto può essere fatto con la storia, per es., dell'Esamerone e dei primi capitoli del Genesi, che è informativa, ma non testimoniale. In essa la strutturazione artistica e la parte simbolica non costituiscono alcun inganno e non infirmano l'insegnamento, bensì costituiscono solo un modo di presentazione popolare. Nella storia dell'infanzia invece le supposte artificiosità si risolverebbero in inganno, e infirmerebbero la validità di tutto il racconto, il che è incompatibile con la infallibile verità della ispirazione biblica. D'altra parte il modo di narrazione di S. Luca ed i suoi intenti esplicitamente dichiarati non giustificano affatto tali supposizioni.
     Si rifletta anche, nel confronto con i primi capitoli del Genesi, al significativo diverso linguaggio del Magistero. Pio XII nella Hum. Gen.) a proposito dei «primi undici capitoli del Genesi», afferma che «appartengono al genere storico in un vero senso», precisando però che, con un «parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di un popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono fondamentali per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell'origine del genere umano e del popolo eletto» (39). Quanto ai Vangeli invece il Vaticano II ha ribadito «senza alcuna esitanza la storicità» e nello spiegare di che genere di storia si tratti, ha puramente precisato che essi «trasmettono fedelmente quanto Gesù Cristo Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza» (R, 19: deh. 901; cfr. 890). Nessun accenno a un «parlare semplice e metaforico... popolare, ecc.». Né si può cavillare su una pretesa distin­zione tra Vangelo dell'infanzia e restante Vangelo, anche se nel primo vi sono caratteristiche proprie spiegabili con l'oggetto della narrazione. Il testo conciliare infatti ignora totalmente tale distinzione, parlando soltanto e integralmente dei «Quattro Vangeli». D'altra parte la natività rientra come principale atto nella «vita di Gesù tra gli uomini»; e tra le cose che egli «operò» vi sono quelle compiute fin dal seno materno, descritte da Luca.

   Gravità del dramma. - La gravissima portata di queste posizioni di buona parte dell'esegesi moderna emerge riflettendo al conseguente crollo della granitica sicurezza della veridicità del libro ispirato. A tale sicurezza si sostituisce la dissolvente illusione di raggiungere lo strato veramente sicuro di «fondo», strato che essendo invece investigato con un tipo di analisi estremamente elastico e mutabile e con diversissime valutazioni - fatte a intuizione e a sentimento dai diversi studiosi ­ non può che restare incerto. Ed è un'analisi, come si sa, che viene estesa a tutto il Vangelo.
   Quando poi i cattolici rifiutano tale elastica analisi solo quanto ai testi essenziali attinenti ai dommi definiti (come quelli, per es., relativi alla Eucaristia), si condannano all'incoerenza. Se coerentemente l'applicassero anche a quei testi li dissolverebbero. E non pochi purtroppo, proprio per coerenza al metodo esegetico ormai adottato, varcano il fosso. Quando, poco dopo che era uscito, lessi l'articolo del brillante biblista F. J. Schierse S.J., in Bibel und Leben del dic. 1960, sul Vangelo dell'Infanzia, tutto ispirato a questi princìpi, segnai in nota: «con questa dottrina crolla la fede». Alcuni mesi dopo purtroppo il P. S., invano richiamato dai superiori, gettò l'abito. E si sa in questi ultimi anni quanti illustri nomi lo hanno seguito. Un giovane, brillante professore, dichiarò apertamente: «Mi hanno tolto la fede».

   Scardinata la storicità sostanziale di Lc l, 2. - Ecco, per es., a cosa si ridurrebbe la verità di «fondo» dei primi due capitoli di S. Luca. Seguo, rapidamente, il libretto di P. Ortensio.
   Egli parte da una premessa che vorrebbe essere rassicurante: «La storicità sostanziale di Luca 1, 2 non può essere messa in serio dubbio» (71). Si ha in realtà subito l'impressione che l'assicurazione non sia sufficientemente recisa. Che vuol dire: sostanziale? E poi un qualche dubbio (bensì: non serio) sembra ammesso. Ma passi.
   A p. seguente però sembra già crollar tutto. Tale narrazione infatti non sarebbe «una cronaca oggettiva... senza artificiosità, sovrastrutture, abbellimenti». Ora, se manca l'oggettività non si vede davvero che valore abbia la riconferma che «non ne compromettono il carattere storico» (72): storicità significa oggettività.

   Le affermazioni effettivamente scardinatrici di ogni oggettività seguono poi, l'una dopo l'altra. Ne riporto alcune.
   «Le annotazioni cronologiche dei mesi e dei giorni... difficilmente, afferma Zerwick. .. rivelano una preoccupazione di esattezza cronologica o biografica» (77). - Così una caratteristica nota di concretezza e di obiet­tività viene arbitrariamente dissolta.
   Luca «nel raccontare le esperienze dei suoi protagonisti o nell'annunziare la loro missione [nel che consiste tutta la sostanza del Vangelo dell'Infanzia] invece di affidarsi ai soli... fatti [come aveva promesso in 1, 3] o alle risorse della propria fantasia [che già infirmerebbe ogni sicurezza di autenticità]... si ispira largamente anche alle narrazioni analoghe del V. T. [cioè a fatti diversi di quelli che Luca ha dichiarato di narrare] o della letteratura giudaica contemporanea [non storica]» (77). - Impossibile in questa ipotesi sceverare i fatti dalle invenzioni.
   «Secondo P. Benoit... l'annuncio della nascita di Giovanni [si modella] sui racconti giudaici del tempo... Per Audet, seguito da Iglesias... il modello... nell'annuncio della Vergine è il racconto della vocazione di Gedeone» (81). - Le narrazioni essenziali dunque sono artificiosamente modellate.
   «Il Magnificat (come dice lo stesso Laurentin) è posto sulle labbra della Madonna dall'agiografo... rivela la medesima cultura del resto del vangelo... si presenta come un prodotto del medesimo ambiente... in cui è nato il racconto dell'Infanzia... è un midrash» (85). - Il tutto cioè è una libera meditazione esegetica edificante (85).
   Luca «cerca una coincidenza più profonda tra la storia passata e la recente... e poiché i modelli antichi sono irreformabili, l'evangelista è costretto ad adattare i fatti recenti che ha in mano» (89). - Mirabile coincidenza davvero, come quella delle vittime del brigante Procuste, che venivano amputate o stirate fino a combaciare col prestabilito letto; la povera vittima sarebbe il deformato vangelo.
   Così, non sembrerebbero oggettivi, più o meno, la «fretta» di Maria, l'annunciazione conclusasi «prima» della visitazione (93103), l'«accorrere» dei pastori, il «grido» di giubilo di Maria «subito» dopo l'incontro, l'«incredulità e la punizione di Zaccaria», il «ritiro di cinque mesi» di Elisabetta (94), la «reale» apparizione dell'angelo (96), la «sterilità» di Elisabetta (97), il «proposito verginale» di Maria (97 s.), la profezia di Simeone fatta personalmente a Maria, essendo stata forse nominata Maria (P. Benoit) solo come «simbolo della comunità messianica» (104), e così via.
   Che resta di sicuro? E sono tutte affermazioni superficialmente dedotte da «inverosimiglianze» arbitrariamente affermate e da «analogie» spiegabilissime con la verità dei fatti. (Ne analizzerò alcune, particolareggiatamente, in seguito).

    Perché non chiamare allora senz'altro S. Luca un metodico ingannatore? Perché seguitare a presentare come un utile «espediente stilistico» la sua gravissima calunnia - che P. O. non manca di riconoscere tranquillamente come «sconveniente» (105) - di «tacciare d'incredulità» il povero Zaccaria, soltanto per mettere in risalto la fede di Maria? Con quale coerenza affermare (come la fede impone) che «la verginità di Maria è un fatto indiscusso» (98), dopo avere infirmato le caratteristiche essenziali del colloquio dell'annunciazione, dopo aver affermato che «nella trama del Vangelo tutto è funzionale» (100), dopo avere definito la «sterilità» di Elisabetta come «finzione letteraria» per sottolineare l'«opera esclusiva di Dio nel piano salvifico» (97)? Perché non far rientrare nella pura «finzione letteraria» per sottolineare più efficacemente tale «opera esclusiva di Dio», anche il concepimento di Gesù per sola opera dello Spirito Santo (cfr. Cat. Olandese); anzi perché non farvi rientrare addirittura (vero massimo sottolineamento) l'Incarnazione del Verbo?

   Eppure tutto ciò - seguitano a ripetere - «non compromette il carattere storico» del libro; «i fatti sottostanti [quali?] a Luca 1, 2 sono veri [perché?], ma l'autore li ha ricomposti con criteri personali» (72). - Come una macchina arbitrariamente e falsamente rimontata, tale racconto non funziona più.
   «Il contenuto dottrinale risulta determinato nel modo più sicuro» (91). - In realtà, dissolvendone il sicuro fondamento storico, esso perde ogni valore.
   Un «principio teologico» può essere ugualmente «dimostrato attraverso fatti reali» o «attraverso una finzione» (97). - Affermato, sì, dimostrato, no.
   «L'intento principale del Vangelo dell'Infanzia è... annunziare un alto messaggio cristologico» (102). - No, è annunciare il fatto dell'incarnazione, che andava garantito con obiettive circostanze.
   «La migliore teologia di Lc. 1, 2 è confinata nelle profondità [ossia nelle oscure, incertissime ed esteriori analogie] del sustrato veterotestamentario, nascosta oltre il suono materiale delle parole... e degli artifici stilistici» (107). - Dunque a questi si ridurrebbe «ogni cosa accuratamente investigata fin dall'inizio» (Lc 1, 3); dunque ciò che Luca chiaramente ha detto è falso, ciò che non ha detto, ma che oscuramente avrebbe additato, è vero. Frasi di questo genere sembrano una presa in giro del lettore.
   In questo modo «la figura e l'opera (del Salvatore) si precisano e si definiscono del modo più convincente» (109). - Dopo avere arbitrariamente dissolto ogni ragionevole fiducia nella obiettività storica della sua esistenza! (109).

   Punizione di Zaccaria. - L'analisi di questa pretesa inverosimiglianza è particolarmente istruttiva. «L'incredulità e la punizione di Zaccaria ­ afferma P. O. - rimangono difficilmente spiegabili se presi come dati obiettivi» (94). «Quando si pensa ai casi analoghi del Vecchio Testamento... non si vede perché non sia legittima la domanda di Zaccaria» (ivi). Inoltre «Maria chiede ugualmente una prova che la convinca ad accettare la divina proposta» (76 n. 35). Se la domanda fu legittima in lei, perché non in Zaccaria? E' dunque probabile che si tratti di un «espediente stilistico per esaltare la fede di Maria» (106 n. 87). Infatti «la poca fede del sacerdote fa meglio risaltare e ammirare la pronta accettazione della Madre di Gesù. Per accentuare questa superiorità... l'evangelista oltrepassa perfino i limiti della convenienza. Per esaltare la fede di Maria non teme di tacciare di incredulità Zaccaria» (105).
   Tutte queste riflessioni perdono in realtà ogni mordente davanti allo elementare rilievo che il credere o non credere di Zaccaria non dipende solo dalle sue parole, ma dagli interni sentimenti che le dettarono; e questi, per testimonianza dell'angelo, illuminato da Dio, furono di incredulità: «perché non hai creduto» (Lc 1, 20). Dunque non difficile, ma chiarissima spiegazione. L'episodio è rivelatore dello stato d'animo di Zaccaria e come tale va criticamente preso. Si potrebbe parlare di inverosimiglianza se qualsiasi ipotetica crisi di fede del santo sacerdote fosse da escludere, il che ovviamente non è. Il rigore critico non consente di rettificare il valore obiettivo della narrazione di S. Luca, in base a una presupposta e ipotetica piena rettitudine di Zaccaria, ma viceversa insegna a dedurre i sentimenti interni di Zaccaria in base alla narrazione. O così o Luca sarebbe un riprovevole calunniatore.

    Però anche le stesse parole di Zaccaria indicano abbastanza apertamente il dubbio: «Da cosa potrò conoscere questo?» (ivi 18). Le parole della Madonna invece non chiedono - come dice il P. Ortensio - «una prova che la convinca» (come Zaccaria), bensì chiedono il modo, in relazione alle iniziative da prendere, secondo il divino volere: «Come avverrà questo?» (ivi 34).
   Che ciò sia vero per la Madonna è confermato dal fatto che la pretesa «prova» sarebbe stata insignificante, giacché Maria avrebbe dovuto prima andare ad accertarsi del fatto da S. Elisabetta e poi tornare a dar l'assenso. Il ch.mo autore, in realtà, in piena coerenza con questa fantasiosa esegesi, non manca di prospettarsi la probabile inversione dei due episodi. Dio infatti non può avere «imposto a Maria un atto di fede irragionevole, cioè senza basi storiche adeguate» (103, n. 83); e queste le sarebbero state date proprio dalla visita a Elisabetta. Pertanto il «chiudere l'Annunciazione [subito] con l'Incarnazione» può essere stato un puro adattamento di Luca, affinché la visita a S. Elisabetta «ripetesse il tragitto dell'Arca verso Gerusalemme», il che richiedeva che «Maria fosse presentata già Madre di Dio» (93, n. 65), mentre in realtà lo sarebbe divenuta dopo. Così facendo però - ecco le mani avanti che questi illustri esegeti sogliono sempre mettere, con disinvoltura - S. Luca non «inventa, ma solo armonizza, dà una personale forma agli avvenimenti...» (ivi).

    Ma, di fatto, più invenzione di così! Si tratta infatti di una inversione che addirittura capovolgerebbe lo stato d'animo di Maria e la renderebbe oggetto infondato delle parole di elogio di Elisabetta.
    Ammessa invece l'obiettività del racconto, la ragionevolezza della risposta di Maria apparisce perfettamente fondata. Essa ebbe infatti l'evidenza della soprannaturale natura del messaggero celeste (che doveva essere chiara tuttavia anche a Zaccaria). Il merito della fede, a sua volta, è dato dall'immediata adesione alla inaspettata e strabiliante missione comunicatale (immediata adesione provata dalla richiesta del modo, che suppone la già avvenuta accettazione del fatto). Era infatti una missione così sublime e un evento così meraviglioso, che, nonostante la certezza della comunicazione angelica, non avrebbe potuto non suscitare in qualunque altro, in ordine pratico, un movimento per lo meno di sospensiva perplessità, per non dire di pratica incredulità. In questa era caduto infatti (e per tanto meno) Zaccaria, che perciò fu punito (v'è un'analogia con la punizione di Mosè che colpì ripetutamente per difetto di fiducia, la rupe dalla quale, per divina promessa, doveva scaturire l'acqua: cfr. Nm 20, 8-12), mentre non vi era caduta minimamente Maria. E fu fede eroica perché la missione implicava una maternità, in terra, dolorosissima, in relazione allo straziato figlio, vittima di Redenzione (convenientemente nota a Maria per le profezie e la speciale illuminazione che eventualmente ella dovette avere, affinché desse un responsabile assenso). Tutto nel racconto lucano si spiega dunque perfettamente.

    Perché, allora, fu comunicata a Maria la miracolosa maternità di Elisabetta? Non fu per dare una prova di ciò a cui Maria aveva già pienamente creduto; bensì per accostare tra loro i due meravigliosi interventi divini, i quali, essendo obiettivamente e strettamente congiunti, era bene che fossero entrambi conosciuti dalla Vergine. Ciò costituì anche un implicito invito a recarsi caritatevolmente «con premura» (come meglio si può tradurre il testo greco, anziché «con fretta»: cfr. Lc 1, 39) dalla parente.
    La sua carità sarebbe poi stata premiata dalle ben note fecondissime manifestazioni di grazia.

    Il ritiro di S. Blisabetta. - «Un altro rebus per gli esegeti - dice ancora P. O. in quel libretto - è questo ritiro improvviso e immotivato di Elisabetta dopo la concezione del bambino» (94, n. 69). Esso sarebbe «storicamente inspiegabile, al pari del prolungato ammutolimento eli Zaccaria» (106, n. 88). Probabilmente sarebbe un'invenzione dell'evangelista, che se ne serve per «tener celato il miracolo di Elisabetta fino alla prossima apparizione angelica [alla Madonna]»: e ciò allo scopo eli sottolineare «la funzionalità di segno che ha la gravidanza di Elisabetta» e di mettere «in rilievo la parte che ha Dio in tutta la storia» (ivi).
     Proprio così? Ma allora sarebbe stato alquanto malaccorto e contraddittorio il povero S. Luca. Egli infatti - secondo questa esegesi - per far rassomigliare il viaggio della Madonna a quello «dell'Arca verso Gerusalemme», avrebbe anticipato la risposta conclusiva della Vergine, ossia posticipato la visita a S. Elisabetta (93, n. 65). Ma con ciò veniva compromessa proprio quella «funzionalità di segno» che egli voleva sottolineare nella gravidanza di Elisabetta: essa infatti sarebbe stata controllata soltanto dopo l'assenso. Che fare? Rimettere l'assenso a dopo la visita? Sarebbe stata la via più semplice per valorizzare quella «funzionalità di segno», ma ne veniva compromessa la non meno amata equazione Madonna-Arca. Un vero supplizio di Tantalo. Allora pensò di mantenere quella posticipazione della visita, sottolineando però mediante quell'antecedente artificiosa clausura la scoperta fatta da Maria della maternità di Elisabetta. Ma non si accorse che questa clausura sarebbe comparsa ai lettori come «inspiegabile», e che quel famoso «segno» sarebbe restato ancora del tutto inoperante per la suddetta ragione di manifestarsi quando era stato già dato l'assenso. Quanto poi a quel voler anche mettere «in rilievo la parte che ha Dio in tutta la storia», Luca prese una vera gaffe perché «la parte di Dio» è fatta di cose vere, non inventate.

   Abbandonando invece queste pretese acutezze esegetiche e restando alla pura obiettività della narrazione, tutto risulta chiaro. Naturalmente non si potrà fare lo studio di questi episodi sulla sola base delle consuetudini e degli stati psicologici umani puramente naturali e comuni. Ciò sarebbe anticritico, perché si dimenticherebbero i fattori storici fondamentali, quali sono la natura dei personaggi e degli eventi.
  L'occultarsi pertanto di Elisabetta (opportunamente preceduto dal silenzio imposto a Zaccaria) anziché circostanza inspiegabile, costituisce, nel quadro concreto di questi divini avvenimenti, un prezioso sigillo di autenticità e di armonia tra le due narrazioni dell'Infanzia, di Matteo e Luca. Esso svela l'identica ispirazione dello Spirito Santo, che, mentre suggerì gli impenetrabili silenzi di Maria con S. Giuseppe (Matteo), sollecitò Elisabetta a sottrarsi all'altrui curiosità (Luca). In entrambi i casi si trattava di non anticipare minimamente i tempi voluti dallo Spirito Santo per la manifestazione di questi grandi avvenimenti: e ciò con tanto più premurosa cura in quanto erano appunto avvenimenti di divina manifestazione. In particolare lo Spirito Santo ispirando tale silenzio e ritiro a Maria e a Elisabetta, fece svolgere le cose in modo che nella visita della Madonna il Precursore, si manifestasse, per la prima volta, alla presenza del Salvatore, che egli aveva il compito di additare.
   Un elementare senso critico, del resto, avrebbe dovuto far riflettere che proprio la «inspiegabilità» di tali comportamenti, visti in chiave umana comune, esclude che siano stati artificiosamente inventati (chi mai avrebbe proposto situazioni inspiegabili?). Essi invece suggeriscono subito una profonda realtà, del tutto coerente con questi misteri divini.




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