Satis cognitum



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Leone XIII
Satis cognitum


L’unità della chiesa
29 giugno 1896
Vi è ben noto come non piccola parte dei nostri pensieri e delle nostre cure è rivolta ad ottenere con ogni studio il ritorno dei traviati all’ovile del sommo pastore delle anime, Gesù Cristo. Tenendo presente questo, credemmo opportuno con salutare consiglio e proposito che gioverebbe non poco disegnare l’immagine e i lineamenti della chiesa, tra i quali degnissima di speciale considerazione è l’unità, che il divino Autore in perpetuo le impresse come carattere di verità e di forza. La nativa bellezza della chiesa deve impressionare molto gli animi di chi la contempla: ne è inverosimile che basti la sua contemplazione a togliere di mezzo l’ignoranza e a sanare le false e preconcette opinioni, specialmente di coloro che senza loro colpa sono in errore: che anzi può destarsi negli uomini un amore verso la chiesa simile alla carità, con la quale Gesù Cristo, redimendola col suo sangue divino, la fece sua sposa: "Cristo ha amato la chiesa, e per essa ha dato se stesso" (Ef 5,25). A quanti faranno ritorno all’amantissima madre, finora non bene conosciuta, o malamente abbandonata, se questo ritorno non costerà loro il sangue, che pure fu il prezzo con il quale Cristo la conquistò, ma qualche fatica o molestia, molto più lieve a sopportarsi, questo almeno sia loro chiaro e palese, che non è un tale peso ad essi imposto dalla volontà dell’uomo, ma da un volere e comando divino; e di conseguenza, mediante la grazia celeste, facilmente conosceranno per esperienza quanto sia vera la sua affermazione: "Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero" (Mt 11,30). Per questo, avendo riposta grandissima speranza nel "Padre dei lumi", da cui discende "ogni bel dono e ogni regalo perfetto" (Gc 1,17), di tutto cuore lo supplichiamo, affinchè egli, "che solo fa crescere" (1Cor 3,6), voglia benignamente concederci la forza di persuadere.
Benché Dio possa per sé operare con la sua virtù quanto operano le nature create, tuttavia egli volle con benigno consiglio della sua provvidenza servirsi degli uomini per aiutare gli uomini; e come nell’ordine naturale si serve dell’opera e del contributo dell’uomo per comunicare alle cose la perfezione conveniente così pure si comporta per dare all’uomo la santità e la salute. Ora è chiaro che tra gli uomini non vi può essere comunicazione di sorta se non attraverso le cose esterne e sensibili. Per la qual cosa il Figlio di Dio assunse l’umana natura e "sussistendo nella natura di Dio ... spogliò se stesso, prendendo la natura di servo, divenendo simile agli uomini" (Fil 2,6-7), e così, dimorando in terra, personalmente insegnò la sua dottrina e i precetti della sua legge.
E poiché conveniva che la sua divina missione fosse perenne, perciò egli riunì intorno a sé dei discepoli della sua dottrina, e li fece partecipi del suo potere; e avendo su di essi chiamato dal cielo lo Spirito di verità, comandò loro di percorrere tutta la terra, predicando fedelmente quanto egli aveva insegnato e comandato, affinchè tutto il genere umano potesse conseguire la santità in terra e la felicità eterna nel cielo.
Per questa ragione e in virtù di questo principio fu generata la chiesa, la quale, se si considera l’ultimo fine a cui mira, e le cause prossime della santità, è certamente spirituale; ma se si considerano i membri che la compongono e i mezzi che conducono al conseguimento dei doni spirituali, è esterna e necessariamente visibile. Gli apostoli ricevettero la missione d’insegnare attraverso segni, che si percepiscono dalla vista e dall’udito, e non altrimenti essi l’eseguirono se non con detti e con fatti, che fanno impressione sui sensi. E così la loro voce, percuotendo esternamente gli orecchi, produsse la fede negli animi: "La fede viene dalla predicazione, e la predicazione si fa per mandato di Cristo" (Rm 10,17). E sebbene la stessa fede, o l’assenso alla prima e suprema verità, per sé sia contenuta nella mente, tuttavia occorre che si manifesti con un’esplicita professione: "Col cuore si crede per avere la giustizia, e con la bocca si professa la fede per ottenere la salvezza" (Rm 10,10). Così pure non vi è nulla per l’uomo di più interno della grazia celeste, che produce la santità, ma gli ordinari e principali strumenti per la partecipazione della medesima sono esterni: li chiamiamo sacramenti, che vengono amministrati con certi riti da persone, scelte appositamente a tale scopo. Comandò Gesù Cristo agli apostoli e ai loro successori in perpetuo che istruissero e dirigessero le genti, e comandò a queste che ne ricevessero la dottrina e fossero sottomesse e obbedienti al loro potere. Ma questi mutui diritti e doveri nel cristianesimo non avrebbero potuto non solo mantenersi, ma neppure iniziarsi, se non attraverso i sensi, interpreti e indicatori delle cose.
Ed è per questo che spesso le sacre Scritture chiamano la chiesa ora "corpo", ora "corpo di Cristo". "Ora voi siete il corpo di Cristo" (1Cor 12,27). Come corpo essa è visibile, e in quanto è di Cristo, è un corpo vivo, operoso e vitale, poiché Gesù Cristo la custodisce e la sostenta con l’immensa sua virtù, come la vite alimenta e rende fruttiferi i suoi tralci. Come negli animali il principio di vita è interno e del tutto nascosto, e tuttavia si rivela e si manifesta per il moto e l’atteggiamento delle membra, così pure nella chiesa il principio di vita soprannaturale si manifesta con evidenza per le sue stesse operazioni.
E da ciò deriva che sono in un grande e fatale errore coloro, i quali si foggiano in mente a proprio capriccio una chiesa quasi latente e per nulla visibile; come anche coloro che l’hanno in conto di umana istituzione con un certo ordinamento di disciplina e di riti esterni, ma senza la perenne comunicazione dei doni della grazia divina, e senza quelle cose che con aperta e quotidiana manifestazione attestino che la sua vita è derivata da Dio. Ora tanto ripugna che l’una o l’altra cosa sia la chiesa di Gesù Cristo, quanto che l’uomo sia solo corpo o solo spirito. L’insieme e l’unione di queste due parti è del tutto necessaria alla chiesa, come alla natura umana l’intima unione dell’anima e del corpo. Non è la chiesa come un corpo morto, ma è il corpo di Cristo informato di vita soprannaturale. E come Cristo, nostro Capo ed esemplare, non è tutto lui, se in lui si considera o la sola natura umana visibile, come fanno i fotiniani e i nestoriani, o solamente la divina natura invisibile, come sogliono fare i monofisiti, ma è uno solo per l’una e l’altra natura visibile e invisibile e nelle quali sussiste; così il suo corpo mistico non è vera chiesa se non per questo, che le sue parti visibili derivano forza e vita dai doni soprannaturali e dagli altri elementi da cui sgorga la loro ragione di essere e la loro natura propria. E poiché la chiesa è quello che è per volontà e istituzione divina, ha da rimanere tale in perpetuo; e se tale non rimanesse, non sarebbe certamente fondata in perpetuo, e il fine stesso, a cui essa tende, verrebbe circoscritto da determinati confini di tempo e di luogo: ma l’una e l’altra cosa ripugna alla verità. Questa unione dunque di cose visibili e invisibili, appunto perché naturale e congenita per divino volere nella chiesa, deve necessariamente perdurare, finché durerà la chiesa. Perciò il Crisostomo diceva: "Non allontanarti dalla chiesa, poiché nulla vi è più forte della chiesa. La tua speranza è la chiesa, la tua salute è la chiesa, il tuo rifugio è la chiesa. Essa è più alta del cielo, più vasta della terra. Non invecchia mai, ma è sempre giovane. Infatti per dimostrare la sua fermezza e stabilità la Scrittura la chiama monte". E Agostino: "Credono (i gentili) che la religione cristiana deve vivere in questo mondo fino a un certo tempo, e poi, non più. Fino a tanto che nasce e tramonta il sole, essa durerà come il sole, cioè, fino a tanto che durerà il volgere dei secoli, non verrà meno la chiesa di Dio, o il corpo di Cristo, sulla terra". La stessa cosa dice altrove: "Vacillerà la chiesa, se vacillerà il fondamento: ma come mai vacillerà Cristo? ... Non vacillando Cristo, neppure essa declinerà in eterno. Dove sono coloro che dicono che è perita nel mondo la chiesa, mentre essa neppure può inclinarsi?".
Di questi fondamenti deve servirsi chiunque cerca la verità. La chiesa fu istituita e formata da Cristo Signore: e perciò quando si cerca quale sia la sua natura, occorre anzitutto conoscere quello che Cristo ha voluto e ha fatto. Secondo questa norma si deve specialmente esaminare l’unità della chiesa, di cui ci parve bene dare in questa lettera un cenno a comune vantaggio.
Che la vera chiesa di Gesù Cristo sia una, è cosa a tutti così nota, per le chiare e molteplici testimonianze della sacra Scrittura, che nessun cristiano osa contraddirla. Però nel giudicare e stabilire la natura dell’unità, vari errori sviano molti dal retto sentiero. Non solo l’origine, ma tutta la costituzione della chiesa appartiene a quel genere di cose che liberamente si effettuano dagli uomini, e quindi tutto l’esame deve basarsi sui fatti, e si deve cercare non in che modo la chiesa possa essere una sola, ma come una sola l’ha voluta chi l’ha fondata.
Ora se si osserva ciò che fece, Gesù Cristo non formò la sua chiesa in modo che abbracciasse più comunità dello stesso genere, ma distinte e non collegate insieme con quei vincoli che formano una sola e individua chiesa, a quel modo che nel recitare il simbolo della fede noi diciamo "Credo la chiesa una...". "La chiesa ebbe in sorte una sola natura, ed essendo una, gli eretici vogliono scinderla in molte. Affermiamo dunque che è unica l’antica e cattolica chiesa nel suo essere e nella comune credenza, nel suo principio e per la sua eccellenza...".
Del resto anche l’eminenza della chiesa, come principio di costruzione, risulta dalla sua unità, superando ogni altra cosa, e nulla avendo di simile a sé o di uguale". E infatti Gesù Cristo, parlando di questo mistico edificio, non parla che di una chiesa, che egli chiama sua: "Edificherò la mia chiesa". Se ne pensi qualunque altra fuori di questa, non essendo fondata da Gesù Cristo, non può essere la vera chiesa di Cristo. E questo diventa ancor più evidente, se si considera l’intento del divino autore. Che cosa infatti egli ebbe di mira, che cosa volle nel fondare la chiesa? Trasmetterle l’ufficio e la missione che egli ebbe dal Padre, perché la continuasse. Questo egli aveva stabilito di fare, e questo fece: "Come il Padre ha mandato me, cosi io mando voi" (Gv 20,21). "Come tu hai mandato me nel mondo, così pure li ho mandati nel mondo" (Gv 17,18). Ora ufficio di Cristo è di salvare ciò che era perito, cioè non alcune genti e città, ma tutto il genere umano senza distinzione di tempi e di luoghi: "Venne il Figlio dell’uomo ... affinchè il mondo sia salvato per opera di lui" (Gv 3,17). "Infatti non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, per il quale noi possiamo essere salvi" (At 4,12). È pertanto dovere della chiesa diffondere largamente in tutti gli uomini e propagare in tutte le età la salute e insieme tutti i benefici che ne provengono. Per questo è necessario che sia unica, secondo il volere del suo Autore, in tutto il mondo e in tutti i tempi. Perché potesse essere più d’una, converrebbe che si estendesse fuori del mondo, e che s’immaginasse un nuovo e non mai udito genere umano.

Che la chiesa dovesse essere una, che in ogni tempo dovesse abbracciare quanti sono nel mondo, vide e vaticinò Isaia, quando in una visione del futuro egli la vide sotto l’apparenza di un monte di smisurata altezza, che esprimeva l’immagine, della casa del Signore, cioè della chiesa. "E avverrà negli ultimi giorni che il monte della casa del Signore si ergerà sulla sommità dei monti" (Is 2,2). Ora uno è il monte sovrastante gli altri monti, una la casa del Signore, a cui concorreranno tutte le genti per avere la norma del vivere. "E tutte le genti affluiranno ad esso ... e diranno: Venite, saliamo al monte del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci ammaestrerà intorno alle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri" (Is 2,2-3). Accennando a questo testo Ottato di Milevi dice: "Sta scritto nel profeta Isaia: Da Sion uscirà la legge, e la parola di Dio da Gerusalemme. Non nel monte Sion dunque Isaia vede la valle, ma nel monte santo, che è la chiesa, il qual monte per tutto l’orbe romano sotto ogni ciclo innalza il capo. È pertanto la chiesa quella Sion spirituale, nella quale Cristo è costituito Re dal Padre, che in tutto il mondo esiste, e in cui la chiesa cattolica è una". E Agostino dice: "Che vi è di più visibile di un monte? Eppure vi sono monti in qualche parte della terra a noi sconosciuti. ... Ma non così quel monte che ha di sé riempita tutta la superficie della terra, e di cui si dice che è fondato sulle vette dei monti". Inoltre il Figlio di Dio volle che la chiesa fosse il suo mistico corpo, a cui egli come capo si unisce a somiglianza del corpo umano che assunse. E come egli prese un unico corpo mortale, che offrì ai tormenti e alla morte per pagare il prezzo dell’umano riscatto, così pure egli ha un solo corpo mistico, nel quale e per il quale rende gli uomini capaci della santità e della salute eterna. "Lui (Cristo) costituì (Dio) capo sopra tutta la chiesa, che è il corpo di lui" (Ef 1.22-23).
Membra separate e disperse non possono aderire al capo per formare insieme un corpo. Ora Paolo dice: "Come tutte le membra del corpo, benché molte, formano tuttavia un solo corpo; così anche Cristo" (1Cor 12,12). E perciò dice di questo corpo mistico che è "connesso e collegato". "Il capo è Cristo, da cui tutto il corpo è ben connesso e solidamente collegato, per tutte le congiunture del rifornimento secondo l’attività proporzionata a ciascun membro" (Ef 4,15-16). Quindi, se qualche membro si divide e vaga disperso dagli altri, non può rimanere congiunto con lo stesso e unico capo. "Uno è Dio, dice san Cipriano, Cristo è uno, una la chiesa, una la sua fede, uno il suo popolo, congiunto col glutine della concordia in una solida unità di corpo. Non si può scindere l’unità, né sciogliere la compagine di un corpo per sé uno".

E per meglio rappresentare la chiesa una, la paragona al corpo animato, le cui membra non possono vivere altrimenti che congiunte col capo, da cui derivano la loro virtù vitale; separate che siano, necessariamente muoiono. "Non si possono (alla chiesa) lacerare e strappare le viscere, e non può essere fatta a pezzi. Tutto ciò che viene strappato dalla matrice non può avere per sé spirito e vita". Ora che somiglianza ha mai un corpo morto con uno vivo? E san Paolo dice: "Nessuno odia il suo corpo, ma lo nutre e lo custodisce, come Cristo fa con la chiesa, perché siamo membri del suo corpo, carne della sua carne, ossa delle sue ossa" (Ef 5,29-30). Se dunque si vuol formare un’altra chiesa, un altro corpo, gli si dia un altro capo, un altro Cristo. "Guardate bene, dice sant’Agostino, quello che dovete evitare, guardate quello che dovete osservare, guardate quello che dovete temere. Accade che nel corpo umano, anzi dal corpo umano, si tagli via qualche membro, una mano, un dito, un piede; forse che l’anima segue il membro reciso? Quand’esso era unito al corpo, viveva; tagliato, perde la vita. Non altrimenti l’uomo cristiano è cattolico in quanto vive nel corpo (della chiesa), tagliatene fuori, diviene eretico; ora lo spirito non segue un membro amputato". È dunque la chiesa di Cristo unica e perpetua. Chiunque se ne separa, devia dalla volontà e dal precetto di Cristo nostro Signore, e, abbandonata la via della salute, corre alla rovina. "Chiunque, dice san Cipriano, segregato dalla (vera) chiesa, si unisce alla adulterina, si allontana dalle promesse (fatte) alla chiesa, ne giungerà al premio di Cristo chi abbandona la chiesa di Cristo. Chi non mantiene questa unità, non osserva la legge di Dio, non ha la fede del Padre e del Figlio, non raggiunge la vita e la salvezza".
Ora colui che la fece unica, la fece una, cioè, tale che quanti fossero in essa, si mantenessero associati con strettissimi vincoli insieme in modo da formare un popolo, un regno, un corpo: "Un solo corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati ad una sola speranza, grazie alla vostra vocazione" (Ef 4,4). Gesù Cristo confermò e consacrò in modo solenne questa sua volontà poco prima di morire, così pregando il Padre suo: "Io non prego solamente per essi, ma anche per quelli che mediante la loro parola crederanno in me, affinchè anch’essi siano una sola cosa in noi ... affinchè giungano a perfetta unità" (Gv 17,20-21.23). Che anzi volle che l’unità fosse tra i suoi seguaci così intima e perfetta che in qualche modo imitasse la sua unione col Padre: "Prego ... affinchè tutti siano una cosa sola, come tu, o Padre, sei in me, e io in te" (Gv 17,21). Necessario fondamento di tanta e così assoluta concordia tra gli uomini è il consenso e l’unione delle menti, da cui nasce naturalmente l’armonia delle volontà e la somiglianza delle azioni. E perciò volle, nel suo divino consiglio, che ci fosse nella chiesa l’unità della fede: virtù che tiene il primo luogo tra i vincoli che ci legano a Dio, e da cui riceviamo il nome di fedeli. "Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo" (Ef 4,5), che è quanto dire, che, come uno solo è il Signore, uno il battesimo, così anche una sola deve essere la fede di tutti i cristiani in tutto il mondo. Pertanto l’apostolo Paolo non solo prega, ma domanda e scongiura che tutti abbiano lo stesso sentimento, e fuggano la discordia delle opinioni: "O fratelli, in nome del Signore nostro Gesù Cristo, io vi scongiuro, che tutti teniate uno stesso linguaggio, e non siano tra voi divisioni, ma siate perfettamente uniti in uno stesso sentimento e in uno stesso pensiero" (1 Cor 1,10). E questi testi non hanno certamente bisogno d’interpretazione, poiché parlano chiaramente. Del resto che una debba essere la fede, quanti si professano cristiani comunemente ne convengono. Quello piuttosto che è di massimo rilievo, anzi assolutamente necessario e in cui molti s’ingannano, è di conoscere quale sia questa specie e forma di unità. La qual cosa, come abbiamo fatto più innanzi in simile assunto, si deve discutere non già con argomenti di probabilità e con congetture, ma con la certa scienza dei fatti, ossia si deve giudicare e stabilire quale sia quell’unità di fede, che Gesù Cristo ci ha comandato.
La celeste dottrina di Gesù Cristo, benché in gran parte fissata nella sacra Scrittura, non poteva tuttavia, se fosse stata lasciata all’arbitrio dell’uomo, vincolare le menti. Infatti poteva accadere che desse luogo a varie e differenti interpretazioni: e ciò non solo per sé stessa e per i misteri della sua dottrina, ma anche per la varietà delle menti umane e il turbamento delle passioni, aberranti in contrarie parti. Dalla differenza dell’interpretare nascono necessariamente le divergenze nel sentire: e quindi le controversie, i dissidi, le contese, quali ne vide la stessa età prossima all’origine della chiesa. Degli eretici scrive s. Ireneo: "Essi confessano, è vero, le Scritture, ma ne pervertono il senso". E s. Agostino: "Non sono nate le eresie e certi dogmi perversi, che irretiscono le anime e le precipitano nel profondo, se non quando le sacre Scritture non furono bene intese". Per armonizzare dunque le menti allo scopo di produrre e mantenere l’accordo delle sentenze, oltre le sacre Scritture, era sempre necessario un altro "principio".
Lo esige la divina sapienza: poiché Dio non poteva volere che vi fosse una sola fede, se non avesse provveduto un qualche mezzo adatto per conservare questa unità: ciò che le sacre Scritture, come diremo fra poco, apertamente dichiarano. È certo che l’infinita potenza di Dio non è legata e vincolata ad alcuna cosa, e usa tutte le cose come strumenti docili e obbedienti. Si deve dunque esaminare quale sia questo principio esterno che Cristo ha prescelto per trarre quanti sono in suo potere. Quindi occorre richiamare gli inizi della religione cristiana.

Rammentiamo cose a noi attestate dalle divine Scritture e a tutti note. Gesù Cristo con la sua virtù taumaturgica prova la sua divinità e la sua missione divina; ammaestra con la parola le moltitudini, e comanda a tutti con promessa di premi e minaccia di pene eterne, perché a lui che insegna prestino fede. "Se io non faccio le opere del Padre mio, non credetemi" (Gv 10.37). "Se non avessi operato in loro cose che nessun altro fece, non avrebbero colpa" (Gv 15,24). "Se poi faccio tali cose, e non mi volete credere, credete almeno alle mie opere" (Gv 10,38). Tutto ciò che egli comanda, lo comanda con la stessa autorità, e nell’esigere l’assenso dell’intelletto niente eccettua, niente distingue. Quelli dunque che avevano udito Gesù, se si volevano salvare, erano obbligati a ricevere non solo la sua dottrina in genere, ma ad assentire pienamente a tutte le cose da lui insegnate: poiché ripugna che anche in una cosa sola non si creda a Dio.
Giunto il tempo di ritornare al cielo, egli manda con quello stesso potere, con cui era stato inviato dal Padre, i suoi apostoli, ordinando loro di spandere e diffondere la sua dottrina: "A me fu dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque, e ammaestrate tutte le genti... insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato" (Mt 28,18-20). Saranno salvi quanti obbediranno agli apostoli, e riprovati quanti negheranno loro obbedienza. "Chi crede e si fa battezzare si salverà; chi non crede sarà condannato" (Mc 16,16). Ora, essendo cosa sommamente conveniente alla provvidenza di Dio di non prescegliere alcuno a un grande ed eccellente ufficio senza dargli ad un tempo quanto gli occorre per ben adempierlo, per questo Gesù Cristo promise che avrebbe mandato ai suoi apostoli lo Spirito di verità, e che quello Spirito sarebbe rimasto in essi perpetuamente. "Se vado, vi manderò (il Confortatore) ... quando però verrà lui, lo Spirito di verità, vi guiderà per tutta intera la verità" (Gv 16,7-13). "E io pregherò il Padre, e vi darà un altro Confortatore, affinchè rimanga sempre con voi, lo Spirito di verità" (Gv 14,16-17). "Egli renderà a me testimonianza; e voi pure mi renderete testimonianza" (Gv 15,26-27). Quindi comanda che la dottrina degli apostoli sia ricevuta con religioso ossequio e santamente osservata come la sua propria. "Chi ascolta voi, ascolta me; e chi rigetta voi, rigetta me" (Lc 10,16). Per questo gli apostoli sono ambasciatori di Gesù Cristo, come egli lo è del Padre: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi" (Gv 20,21). Di conseguenza, come dovevano gli apostoli e i discepoli essere ossequienti ai detti di Gesù Cristo, così lo debbono essere a quelli degli apostoli quanti vengono istruiti da loro per divino mandato. Quindi non è lecito ripudiare uno solo degli ammaestramenti degli apostoli, come non si può rigettare alcuna cosa della dottrina di Cristo.
E veramente la voce degli apostoli, investiti dello Spirito Santo, largamente risuonò dappertutto. Ovunque essi si fermassero, ivi sempre si presentavano come ambasciatori di Cristo: "Per lui (Gesù Cristo) ricevemmo la grazia e l’apostolato per sottomettere alla fede nel nome di lui tutte le genti" (Rm 1,5). E la loro divina legazione veniva autenticata da Dio con miracoli. "Essi poi se ne andarono a predicare da per tutto, con la cooperazione del Signore che confermava il loro insegnamento con i miracoli, che l’accompagnavano" (Me 16,20). E quale insegnamento? Quello senza dubbio che in sé conteneva quanto essi avevano imparato dal Maestro: infatti apertamente davanti a tutti essi protestano che non potevano tacere le cose che avevano vedute o udite.
Ma, come abbiamo detto altrove, questa missione apostolica non era tale che potesse terminare con la persona degli apostoli o venisse meno con l’andar del tempo, essendo essa una missione universale e istituita per la salvezza del genere umano. Agli apostoli infatti Gesù Cristo comandò che predicassero "l’evangelo ad ogni creatura", che portassero "il suo nome innanzi alle genti e ai re", e che fossero "suoi testimoni sino all’estremità della terra". E promise loro per l’adempimento di sì grande missione la sua assistenza, non già per alcuni anni o epoche determinate, ma per tutto il tempo sino "alla fine del mondo". A questo proposito san Girolamo dice: "Colui che promette di essere coi suoi discepoli sino alla fine del mondo, fa chiaramente intendere che essi sempre vivranno, e che egli non si allontanerà mai dai credenti". Le quali cose come mai si sarebbero potute verificare nei soli apostoli, soggetti anch’essi per l’umana condizione alla morte? Era dunque nei disegni della provvidenza divina che il magistero, istituito da Gesù Cristo, non finisse con la vita degli apostoli, ma fosse perpetuo. Infatti noi lo vediamo propagarsi e passare per tradizione, diremo così, di mano in mano. Gli apostoli perciò consacrarono dei vescovi, e nominatamente designarono coloro che dovevano succedere loro fra non molto nel "ministero della parola".
Nè si tennero paghi di tanto; ma imposero anche ai loro successori che scegliessero persone idonee, le quali, investite della medesima autorità, avessero lo stesso incarico e ufficio d’insegnare. "Tu, o figlio mio, prendi forza nella grazia, che è in Cristo Gesù, e gli insegnamenti da me avuti in presenza di molti testimoni, trasmettili a uomini fidati, capaci di ammaestrare anche gli altri" (2Tm 2,1-2). E perciò come Cristo fu mandato da Dio, e gli apostoli da Cristo, così i vescovi e quanti successero agli apostoli, sono mandati dagli apostoli. "Gli apostoli furono costituiti per noi predicatori dell’evangelo dal Signore nostro Gesù Cristo, e Gesù Cristo fu mandato da Dio. Cristo perciò fu mandato da Dio, e gli apostoli da Cristo, e l’una e l’altra cosa con ordine fu compiuta per volontà di Dio... Predicando poi la parola nelle regioni e nelle città, costituirono vescovi e diaconi dei credenti coloro che erano stati le primizie dei convertiti, dopo averne provata la capacità... Costituirono i suddetti e quindi ordinarono, che, alla loro morte, altri uomini capaci prendessero il loro posto nel ministero". È dunque indispensabile da un lato che sia costante e immutabile l’ufficio d’insegnare quanto Cristo insegnò, e dall’altro che sia pure costante e immutabile il dovere di ricevere e professare tutta la dottrina degli apostoli. Il che splendidamente s. Cipriano illustra con queste parole: "Quando nostro Signore Gesù Cristo nel suo evangelo affermò che erano suoi nemici quelli che non erano con lui, non additò alcuna specie di eresia, ma mostrò come suoi avversari tutti coloro che, non essendo ne raccogliendo con lui, disperdevano il suo gregge, dicendo: Chi non è con me, è contro di me; chi non raccoglie con me, disperde".
Ammaestrata da tali precetti, la chiesa, memore del suo ufficio, con ogni zelo e sforzo non si è mai tanto preoccupata che di tutelare in ogni sua parte l’integrità della fede e di ritenere ribelli e espellere da sé quanti non la pensassero come lei in un articolo qualunque della sua dottrina. Gli ariani, i montanisti, i novaziani, i quartadecumani, gli eutichiani, non avevano certamente abbandonata in tutto la dottrina cattolica, ma solo in qualche parte: e tuttavia chi ignora che essi sono stati dichiarati eretici ed espulsi dal seno della chiesa? Allo stesso modo vennero in seguito condannati quanti furono in vari tempi promotori di perverse dottrine. "Niente vi può essere di più pericoloso di questi eretici, i quali, mentre percorrono il tutto (della dottrina) senza errori, con una sola parola, come con una stilla di veleno, infettano la pura e schietta fede della divina e poi apostolica tradizione". Tale appunto fu sempre il modo di comportarsi della chiesa, e ciò anche per l’unanime giudizio dei santi padri, i quali ebbero sempre in conto di scomunicati ed eretici tutti coloro, che anche per poco si allontanarono dalla dottrina proposta dal legittimo magistero. Epifanie, Agostino, Teodoreto ci diedero un lungo catalogo delle eresie dei loro tempi. Agostino poi osserva che errori d’ogni specie possono pullulare; e se qualcuno aderisce ad uno solo di essi, per questo si separa dall’unità cattolica: "Chi crede a queste cose (cioè le eresie indicate), per ciò stesso non deve credersi o dirsi di essere cristiano cattolico. Vi possono essere e formarsi anche altre eresie, che non sono ricordate in questa nostra opera; se uno aderisse a qualcuna di esse, non sarebbe cristiano cattolico".
E il beato Paolo nella Lettera agli Efesini insiste sul modo di tutelare l’unità, di cui parliamo, come fu stabilito per divino volere. Egli dapprima ci esorta a conservare con grande cura la concordia degli animi: "Studiatevi di conservare l’unità dello spirito mediante il vincolo della pace" (Ef 4,3ss); e, poiché gli animi non possono essere per la carità in tutto concordi, quando gli intelletti non consentano nella fede, vuole che in tutti vi sia una sola fede: "Un solo Signore, una sola fede"; e così perfettamente una, che rimuova ogni pericolo di errare: "Allora non saremo più fanciulli sbalzati e portati qua e là da ogni vento di dottrina, tra i raggiri degli uomini e la scaltrezza a inoculare l’errore". E questo, egli dice, si deve osservare non per qualche tempo, ma "finché tutti insieme non giungiamo all’unità della fede ... alla misura della piena statura di Cristo".
Ma di questa unità, dove Gesù Cristo pose il principio per stabilirla e il presidio per conservarla? In questo che "è lui che alcuni costituì apostoli ... altri pastori e dottori, per rendere i santi capaci di compiere il loro ministero, affinchè sia edificato il corpo di Cristo" (Ef 4,11-12). Per la qual cosa fin dalla più remota antichità i dottori e padri della chiesa solevano seguire questa regola e ad una voce difenderla. Così dice Origene: "Ogni volta che (gli eretici) mostrano le scritture canoniche, che ogni cristiano ammette e crede, sembrano dire: Ecco la parola di verità. Ma noi non dobbiamo credere loro, nè allontanarci dalla prima tradizione ecclesiastica, nè credere diversamente, se non come per successione le chiese di Dio ci hanno tramandato". E Ireneo afferma: "La vera dottrina è quella degli apostoli ... secondo le successioni dei vescovi ... trattazione ripiena delle Scritture, custodita con diligenza e senza inganno, che giunse fino a noi". Tertulliano dice: "E certo che ogni dottrina, che sia conforme a quelle tenute dalle primitive chiese apostoliche, è veritiera e senza dubbio afferma ciò che le chiese ricevettero dagli apostoli, gli apostoli da Cristo e Cristo ricevette da Dio... Abbiamo comunione con le chiese apostoliche; in nessuna di esse vi è una dottrina diversa: questa è la testimonianza verace". Ilario poi afferma: "(Cristo, insegnando dalla barca) vuole indicare che quelli che sono fuori della chiesa, non possono capire la parola divina. La barca infatti è la figura della chiesa; quelli che sono fuori di essa, e quelli che stanno sterili e inutili sulla riva, non possono comprendere la parola di vita posta e predicata in essa". Rufino loda Gregorio Nazianzeno e Basilio, perché "si dedicavano solamente allo studio dei libri della s. Scrittura, e li interpretavano non seguendo la propria intelligenza, ma secondo l’autorità e gli scritti degli autori precedenti, che a loro volta avevano ricevuto le regole dell’interpretazione dalla successione apostolica".

Da quanto si è detto appare dunque che Gesù Cristo istituì nella chiesa "un vivo, autentico e perenne magistero", che egli stesso rafforzò col suo potere, lo informò dello Spirito di verità e l’autenticò coi miracoli; e volle e comandò che i precetti della sua dottrina fossero ricevuti come suoi. Quante volte dunque questo magistero dichiara che questo o quel dogma è contenuto nel corpo della dottrina divinamente rivelata, ciascuno lo deve tenere per vero, poiché, se potesse essere falso, ne seguirebbe che Dio stesso sarebbe autore dell’errore dell’uomo, il che ripugna: "O Signore, se vi è errore, siamo stati da tè ingannati". Quindi, rimossa ogni ragione di dubitare, a chi mai sarà lecito ripudiare una sola di queste verità, senza che egli venga per questo stesso a cadere in eresia e senza che, essendo separato dalla chiesa, rigetti in blocco tutta la dottrina cristiana?
Tale è infatti la natura della fede, che nulla tanto le ripugna come ammetterne un dogma e ripudiarne un altro. Infatti la chiesa professa che la fede è una "virtù soprannaturale, con la quale, ispirati e aiutati dalla grazia di Dio, crediamo che sono vere le cose da lui rivelate, non già per l’intrinseca verità delle medesime conosciuta con il lume naturale della ragione, ma per l’autorità dello stesso Dio rivelante, che non può ingannare ne essere ingannato". Se dunque si conosce che una verità è stata rivelata da Dio, e tuttavia non si crede, ne segue che nulla affatto si crede per fede divina. Infatti quello stesso che l’apostolo Giacomo sentenzia del delitto in materia di costumi, deve affermarsi di un’opinione erronea in materia di fede: "Chiunque avrà mancato in un punto solo, si è reso colpevole di tutti" (Gc 2,10). Anzi a più forte ragione deve dirsi di questa che di quello. Infatti meno propriamente si dice violata tutta la legge da colui che la trasgredì in una cosa sola, non potendosi vedere in lui, se non interpretandone la volontà, un disprezzo della maestà di Dio legislatore. Invece colui che, anche in un punto solo, non assente alle verità rivelate, ha perduto del tutto la fede, in quanto ricusa di venerare Dio come somma verità e "proprio motivo di fede": perciò sant’Agostino dice: "In molte cose concordano con me, in alcune poche con me non concordano; ma per quelle poche cose in cui non convengono con me, a nulla approdano loro le molte in cui con me convengono".

E con ragione; perché coloro che della dottrina cristiana prendono quello che a loro piace, si basano non sulla fede, ma sul proprio giudizio: e non "rendendo soggetto ogni intelletto all’obbedienza a Cristo" (2Cor 10,5) obbediscono più propriamente a loro stessi che a Dio. "Voi - diceva Agostino – che nell’evangelo credete quello che volete, e non credete quello che non volete, credete a voi stessi piuttosto che all’evangelo".
Per questo i padri del concilio Vaticano nulla hanno decretato di nuovo, ma solo ebbero in vista l’istituzione divina, l’antica e costante dottrina della chiesa e la stessa natura della fede, quando decretarono: "Per fede divina e cattolica si deve credere tutto ciò che si contiene nella parola di Dio scritta o tramandata, e viene proposto dalla chiesa o con solenne definizione o con ordinario e universale magistero come verità da Dio rivelata". Pertanto essendo chiaro che Dio vuole assolutamente nella sua chiesa l’unità della fede, e sapendosi quale essa sia e con quale principio deve essere tutelata per divino comando, ci sia permesso d’indirizzare a quanti non persistono nel voler chiudere gli orecchi alla verità, le seguenti parole di Agostino: "Vedendo noi tanta abbondanza di aiuti da parte di Dio, tanto profitto e frutto, dubiteremo di chiuderci nel seno di quella chiesa, la quale, anche per confessione del genere umano, dalla sede apostolica per la successione dei vescovi, nonostante che intorno a lei latrino vanamente gli eretici, già condannati sia dall’opinione popolare, sia dal grave giudizio dei concili, sia dalla grandezza dei miracoli, è giunta all’apice dell’autorità? Il negarle il primato, è proprio o di una somma empietà, o di una precipitosa arroganza. ... E se ogni arte, per quanto vile e facile, perché si possa apprendere, richiede un insegnante o un maestro: che v’è di più superbamente temerario che non voler conoscere i libri contenenti i divini misteri dai loro interpreti, o, non conoscendoli, volerli condannare?".
È dunque senza dubbio compito della chiesa custodire la dottrina di Cristo e propagarla inalterata e incorrotta. E neppure questo è tutto, anzi nemmeno in ciò si racchiude il fine, per cui la chiesa fu stabilita. Infatti, come Gesù Cristo si è sacrificato per la salvezza del genere umano, e a questo scopo ha diretto quanto ha insegnato e operato, così volle che la chiesa cercasse nella verità della dottrina quanto fosse necessario alla santificazione e alla salute eterna degli uomini.
Ora la sola fede non basta a raggiungere così grande ed eccelsa meta, ma si richiede sia la pietà e la religione, che specialmente consiste nel divin sacrificio e nella partecipazione dei sacramenti, sia la santità delle leggi e della disciplina.
Tutte queste cose deve contenere in sé la chiesa, come quella che perpetua l’ufficio del Salvatore. Essa sola dà ai mortali quella religione perfetta, che egli volle in lei incarnare, e soltanto essa amministra quelle cose, le quali, secondo l’ordine della Provvidenza, sono gli strumenti della salvezza.
E a quel modo che la celeste dottrina non fu lasciata in balia dell’ingegno e della volontà dell’uomo, ma, insegnala al principio da Cristo, venne poi affidata, come già si disse, al magistero della chiesa, così non ai singoli individui del popolo cristiano, ma a persone scelte fu comunicato da Dio il potere di operare e amministrare i divini misteri, insieme al potere di reggere e governare. Infatti non ad altri che agli apostoli e ai loro legittimi successori si riferiscono quelle parole di Gesù Cristo: "Andate per tutto il mondo e predicate l’evangelo ... battezzandoli. ... Fate questo in memoria di me. ... A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi". Allo stesso modo solo agli apostoli e ai loro successori comandò che pascessero il suo gregge, cioè, che governassero tutta la cristianità, e per conseguenza comandò ai semplici fedeli che dovessero essere a loro soggetti e obbedienti. I quali uffici apostolici vengono tutti da san Paolo compendiati in questa sentenza: "Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio" (1Cor 4,1).
Per questo Gesù Cristo invitò tutti i mortali, presenti e futuri, a seguirlo come Salvatore e Capo, e non solo come singoli individui, ma anche come associati e uniti insieme realmente e di cuore, tanto da formare di una moltitudine un popolo giuridicamente costituito in società, e uno per l’unità di fede, di fine, di mezzi e di gerarchia. Così egli pose nella chiesa tutti quei naturali principi che danno origine all’umana società, in cui gli individui raggiungono la perfezione propria della loro natura; egli pose infatti nella chiesa quanto occorre, perché coloro che vogliono essere figli adottivi di Dio, possano conseguire una perfezione conforme alla loro dignità e ottenere la salute. La chiesa dunque, come accennammo altrove, è guida alle cose celesti, e ad essa Dio diede l’incarico di provvedere e stabilire quanto concerne la religione, e di governare con potere proprio e con tutta libertà la società cristiana. Per questo, o non conoscono bene la chiesa, o la calunniano, coloro che l’accusano di volersi intromettere nelle cose civili o invadere i diritti dello stato. Anzi Dio ha fatto sì che la chiesa fosse di gran lunga superiore a tutte le altre società; infatti il fine a cui tende è tanto più eccelso di quello a cui mirano le altre società, quanto la grazia supera la natura e i beni immortali superano quelli caduchi.
La chiesa è una società "divina" nella sua origine; "soprannaturale" nel suo fine e nei mezzi immediatamente a quello ordinati; ed è "umana", perché si compone di uomini. Infatti la vediamo spesso indicata nella sacra Scrittura con nomi che designano una società perfetta; poiché viene detta "casa di Dio, città posta sul monte", dove è necessario che si raccolgano tutte le genti, e anche "ovile", in cui devono riunirsi tutte le pecorelle di Cristo sotto un solo pastore, anzi "regno che Dio fondò", e che "durerà in eterno", e infine "corpo" di Cristo, "mistico", sì, ma però vivo, perfettamente composto e risultante di molti membri, i quali non hanno la stessa operazione e tuttavia si mantengono uniti insieme sotto lo stesso capo, che li regge e governa. Non si può pensare tra gli uomini una vera e perfetta società senza un sommo potere che la regga. Deve dunque Gesù Cristo aver preposto alla chiesa un sommo reggitore, a cui tutta la moltitudine dei cristiani sia sottomessa e obbedisca. Per la qual cosa come per l’unità della chiesa, in quanto è "riunione dei fedeli", si richiede necessariamente l’unità della fede, così per l’unità della medesima, in quanto è una società divinamente costituita, si esige per diritto divino "l’unità di governo", la quale produce e in sé racchiude "l’unità della comunione". "Ora l’unità della chiesa è riposta in queste due cose: nella mutua unione dei membri della chiesa, cioè nella comunione e nella corrispondenza di tutti i membri della chiesa con un solo capo".
Da questo si può capire che gli uomini si separano dall’unità della chiesa non meno con lo scisma che con l’eresia. "Tra l’eresia e lo scisma corre, per comune avviso, questa differenza, che l’eresia ha un perverso dogma, lo scisma invece si separa dalla chiesa per una scissura episcopale". E in ciò concorda anche il Crisostomo, dicendo: "Io dico e professo che non è minor male lo scindere la chiesa, che cadere nell’eresia". Quindi, se non può esser giusta qualsiasi eresia, per la stessa ragione non c’è scisma che si possa giustificare. "Non vi è nulla di più grave del sacrilegio di uno scisma ... non vi è mai giusta necessità di rompere l’unità".
Quale sia poi questo potere, a cui debbono tutti i cristiani obbedire, non si può altrimenti determinare che dopo avere esaminata e conosciuta la volontà di Cristo. Certamente Cristo è re in eterno, e perpetuamente, benché invisibile, tutela e governa dal cielo il suo regno; ma poiché volle che questo fosse visibile, dovette designare chi, dopo la sua ascensione al cielo, facesse le sue veci in terra. "Chiunque affermasse - dice san Tommaso - che il solo capo e il solo pastore della chiesa è Cristo, che è l’unico sposo dell’unica chiesa, non si esprimerebbe con precisione. Infatti è evidente che è lui che opera i sacramenti della chiesa, che battezza, che rimette i peccati, che, vero sacerdote, s’immolò sull’altare della croce, e per la cui virtù ogni giorno si consacra il suo corpo sull’altare; e tuttavia, poiché non sarebbe stato corporalmente e personalmente presente a tutti i fedeli per l’avvenire, elesse dei ministri, per mezzo dei quali potesse dispensare quanto è stato indicato, come già si è detto sopra (cap. 74). Per la stessa ragione, prima di privare la chiesa della sua corporale presenza, gli fu necessario destinare qualcuno che in suo luogo ne avesse cura. Quindi disse a Pietro prima dell’ascensione: "Pasci le mie pecore". Gesù Cristo dunque diede alla chiesa per sommo reggitore Pietro, e nello stesso tempo stabilì che questo principato, istituito in perpetuo per la comune salvezza, si trasmettesse per eredità ai successori, nei quali lo stesso Pietro con perenne autorità sopravvive. E infatti fece quell’insigne promessa a Pietro, e a nessun altro: "Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia chiesa" (Mt 16,18)".
"A Pietro il Signore ha parlato, a lui solo, perché da uno solo fondasse l’unità". "(Gesù) chiama lui e suo padre per nome (beato te, Simone, figlio di Jona), ma poi non sopporta che si chiami ancora Simone, già fin d’ora reclamandolo come suo per i suoi fini, e con significativo paragone volle che si chiamasse Pietro da pietra, perché sopra di lui avrebbe fondato la sua chiesa". Dalla citata profezia di Cristo è evidente che per volere e ordinazione di Dio la chiesa si fonda sul beato Pietro, come l’edificio sul suo fondamento. Ora la natura e la forza del fondamento consiste nel far sì che le diverse parti dell’edificio si mantengano collegate insieme, e che all’opera sia necessario quel vincolo di stabilità e fermezza, senza cui ogni edificio cade in rovina. È dunque proprio di Pietro sorreggere e conservare unita e ferma in indissolubile compagine la chiesa. Ma chi potrebbe adempiere un compito così grave senza il potere di comandare, proibire e giudicare, che veramente e propriamente si dice "giurisdizione"? Infatti solo in virtù di questo potere si reggono le città e gli stati. Un primato di onore e quella tenue facoltà di consigliare e di ammonire, che si dice "direzione", non possono giovare molto né all’unità né alla fermezza. Il potere, di cui parliamo, ci viene dichiarato e confermato da quelle parole: "E le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa".
"A chi si riferisce - domanda Origene - la parola essa? Alla pietra su cui Cristo edifica la chiesa, o alla stessa chiesa? Ambigua è la frase: vorrà dire che siano una stessa cosa la pietra e la chiesa? Questo appunto io credo vero; poiché nè contro la pietra, su cui Cristo edifica la chiesa, nè contro di questa prevarranno le porte dell’inferno". La forza perciò di quella sentenza è questa: qualunque violenza o artificio usino i nemici visibili e invisibili, non sarà mai che la chiesa soccomba e perisca: "La chiesa, essendo edificio di Cristo, che sapientemente edificò la sua casa sulla pietra, non può essere preda delle porte dell’inferno, che possono sì prevalere contro ogni uomo che sia fuori della pietra e della chiesa, ma non contro di essa". Dunque Dio affidò la sua chiesa a Pietro, affinchè egli quale invitto tutore la conservasse perpetuamente incolume.
Quindi lo investì del necessario potere, poiché per tutelare una società qualunque di uomini è indispensabile a chi deve tutelarla il diritto di comandare. Gesù inoltre aggiunse: "E a te io darò le chiavi del regno dei cieli". Egli continua a parlare della chiesa, che poc’anzi aveva chiamata sua, e che aveva affermato di voler stabilire su Pietro come sopra il fondamento. La chiesa è raffigurata non solo come un "edificio", ma anche come un "regno", e nessuno ignora che le chiavi sono il simbolo del comando; perciò quando Gesù promise a Pietro le "chiavi del regno dei cieli", gli promise che gli avrebbe dato la somma autorità e il supremo potere sulla chiesa: "II Figlio (del Padre) diede l’incarico (a Pietro) di diffondere per tutto il mondo la conoscenza del Padre e di se stesso, e a un uomo mortale diede ogni potere in cielo, quando gli affidò le chiavi, ed estese la chiesa per tutto il mondo e la indicò più stabile dei cieli".
Concordano con queste le altre parole di Cristo: "E ciò che legherai sulla terra, resterà legato nei cieli; e ciò che scioglierai sulla terra, resterà sciolto nei cieli". Le parole metaforiche di legare e di sciogliere indicano il diritto di far leggi e insieme il potere di giudicare e di punire; e detto potere si afferma così ampio e di tanta forza, che qualunque cosa venga da esso decretata, verrà da Dio confermata. Pertanto è sommo e del tutto libero, come quello che non ha superiore in terra, e che abbraccia tutta la chiesa e le cose tutte che a questa furono affidate.

Cristo Signore mantiene poi la sua promessa dopo la sua risurrezione, quando, avendo per ben tre volte domandato a Pietro se lo amasse, gli dice con tono di chi comanda: "Pasci i miei agnelli... Pasci le mie pecore" (Gv 21,16-17); Cristo volle così a lui affidate, come a pastore, tutte le pecore che entrerebbero nel suo ovile. "Il Signore non dubita - dice sant’Ambrosio - perché lo interroga non per sapere, ma per insegnare a noi che, ormai sul punto di essere portato in cielo, ce lo lasciava come vicario del suo amore. ... E perciò, poiché è solo fra tutti a dare la testimonianza, a tutti viene anteposto ... affinchè giunto a piena perfezione guidasse anche quanti hanno raggiunto la piena perfezione". Ufficio e dovere del pastore è quello di guidare il gregge e di procurare il suo benessere con la salubrità dei pascoli, con l’allontanarlo dai pericoli, preservarlo dalle insidie e difenderlo dalla violenza: in breve, col reggerlo e governarlo. Essendo dunque Pietro il pastore preposto a tutto il gregge di Cristo, egli ricevette il potere di governare tutti gli uomini, alla cui salvezza Gesù Cristo aveva provveduto col suo sangue: "Perché - dice il Crisostomo - sparse egli il suo sangue? Per redimere quelle pecore, che affidò a Pietro e ai suoi successori".
E poiché è necessario che tutti i cristiani siano tra loro uniti per la comunione di una fede immutabile, perciò Cristo Signore, con la forza della sua preghiera, impetrò a Pietro che nell’esercizio del suo sommo potere non errasse mai nella fede: "Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede" (Lc 22,32); e gli comandò che nel bisogno comunicasse ai suoi fratelli luce e forza: "Conferma i tuoi fratelli" (Lc 22,32). Volle insomma che colui che era destinato a fondamento della chiesa, fosse anche il baluardo della fede. "Non poteva - dice sant’Ambrogio - rafforzare la fede di colui, al quale di propria autorità dava il regno, e che additò, chiamandolo pietra, quale fondamento della chiesa?". Gesù volle che certi nomi, significanti grandi cose, che "a lui per propria potestà convengono, fossero rivolti anche a Pietro per partecipazione con se stesso", affinchè dalla comunanza dei titoli apparisse anche quella dei poteri. E cosi colui che è "pietra angolare, su cui l’intero edificio ben connesso va innalzandosi per formare il tempio santo del Signore" (Ef 2,21), stabilisce Pietro quale pietra fondamentale della chiesa. "Avendo ascoltato [sei pietra] è stato encomiato. Benché sia pietra, però, non è pietra come Cristo, ma come Pietro. Cristo infatti è essenzialmente la pietra inconcussa; e Pietro lo è per (questa) pietra. Infatti Gesù dona le sue cariche onorifiche, ma non si esaurisce... È sacerdote, e fa i sacerdoti... è pietra, e fa la pietra". Il Re stesso della chiesa, che "tiene la chiave di Davide, e quando apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre" (Ap 3,7), consegnate a Pietro le "chiavi", lo dichiara principe della società cristiana. E così pure il sommo pastore, che chiama se stesso buon pastore (Gv 10,11), dà a Pietro il governo "dei suoi agnelli e delle sue pecore": "Pasci gli agnelli, pasci le pecore".
E il Crisostomo commenta: "Esimio era (Pietro) tra gli apostoli, bocca dei discepoli, capo del loro collegio... E (Gesù) per mostrargli che conveniva credere per l’avvenire a lui, dimenticata la negazione, affida a lui il governo dei fratelli, dicendo: Se mi ami, presiedi ai fratelli". Finalmente colui che ci conferma "in ogni opera buona e in ogni buona parola" (2Ts 2,16), comandò a Pietro che "confermasse i suoi fratelli". Giustamente Leone Magno diceva: "Di tutto il mondo il solo Pietro viene eletto per essere preposto e alla chiamata di tutte le genti, e a tutti gli apostoli e a tutti i padri della chiesa: affinchè, per quanto siano molti nel popolo di Dio i sacerdoti e molti i pastori, tutti nondimeno siano retti da Pietro, benché Cristo per lui principalmente li governa tutti". E Gregorio Magno così scriveva all’imperatore Maurizio Augusto: "È evidente a quanti conoscono l’evangelo, che per la parola del Signore è stata affidata la cura di tutta la chiesa all’apostolo Pietro, primo di tutti gli apostoli... Egli ricevette le chiavi del regno dei cieli, a lui è dato il potere di legare e di sciogliere, a lui ancora la cura e il principato di tutta la chiesa".
Ora, essendo questo principato contenuto nella stessa costituzione e ordinamento della chiesa, come parte principale, o piuttosto come principio di unità e fondamento della sua perpetua esistenza, non poteva perire con Pietro, ma doveva trasmettersi dall’uno all’altro ai suoi successori. Perciò san Leone diceva: "Rimane quindi quanto Gesù ha disposto veramente, e il beato Pietro, perseverando nella ricevuta forza della pietra, non lascia il comando della chiesa". Per la qual cosa i vescovi, che succedono a Pietro nell’episcopato romano, ottengono "di diritto divino" la suprema autorità su tutta la chiesa. "Noi definiamo - dicono i padri del Concilio di Firenze - che la santa sede apostolica e il vescovo di Roma hanno su tutto l’orbe il primato, e che lo stesso vescovo di Roma è successore del beato Pietro, primo degli apostoli, vero vicario di Cristo, capo di tutta la chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani, a cui nella persona del beato Pietro fu dato da Cristo pieno potere di pascere, reggere e governare tutta la chiesa, come si afferma negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni". E il concilio Lateranense IV definisce: "La chiesa romana, per disposizione del Signore, primeggia su tutte le altre per l’ordinaria sua potestà, come quella che è madre e maestra di tutti i cristiani".
E questi decreti erano stati preceduti dal consenso di tutta l’antichità, la quale venerò sempre i vescovi romani come legittimi successori del beato Pietro. E chi ignora le tante e sì splendide testimonianze dei santi padri a questo proposito? Luminosa è quella di Ireneo, il quale, parlando della chiesa romana, dice: "A questa chiesa per una più degna supremazia è necessario che concordi ogni chiesa". E Cipriano, parlando della medesima, la chiama "radice e madre della chiesa cattolica", "cattedra di Pietro e chiesa principale da cui è sorta l’unità del sacerdozio". La chiama "cattedra" di Pietro, perché vi siede il successore di Pietro; "chiesa principale", per il primato conferito a Pietro e ai suoi successori; "da cui è sorta l’unità", perché la causa efficiente dell’unità nel cristianesimo è la chiesa romana. E così Girolamo si rivolge a Damaso: "Io parlo col successore del pescatore e discepolo della croce... Alla tua beatitudine, cioè, alla cattedra di Pietro, io per la comunione mi associo. So bene che su quella pietra è edificata la chiesa". E riconosceva sempre un cattolico dalla unione che aveva con la sede romana di Pietro; e diceva: "Se alcuno è unito alla cattedra di Pietro, è dalla mia parte". Allo stesso modo Agostino attesta che "nella chiesa romana sempre fiorì il principato della Cattedra apostolica", e nega che sia cattolico chiunque dissenta dalla fede romana: "Non credere di avere la vera fede cattolica, se non insegni la necessità di avere la fede romana". La stessa cosa afferma Cipriano: "Avere comunione con Cornelio è lo stesso che avere comunione con la chiesa cattolica". Pure Massimo Abate insegna che è segno caratteristico della vera fede e della vera comunione l’obbedienza al vescovo di Roma: "Perciò se non vuoi essere eretico non accontenti questo o quello.... S’affretti ad accontentare la sede romana. Fatto questo, comunemente e ovunque tutti lo riterranno pio e retto. Infatti parla inutilmente e invano chi fa diversamente, e non soddisfa il beatissimo papa della santissima chiesa romana, cioè la sede apostolica". E ne dà la seguente ragione; "Essa ricevette e ha il comando, l’autorità e il potere di legare e di sciogliere dallo stesso Verbo di Dio incarnato, e anche da tutti i concili, secondo i sacri canoni, fra tutte le chiese sante di Dio che si trovano sulla terra. Quando lega o scioglie qualcosa, anche in cielo è ratificato dal Verbo, che comanda ai celesti principati".
Quello dunque che già esisteva nella fede cristiana, quello che non un popolo solo o una sola età, ma tutte le età, e l’Oriente insieme e l’Occidente abitualmente riconoscevano e osservavano, venne dal presbitero Filippo, rappresentante del papa, ricordato al Concilio di Efeso, senza che alcuno sorgesse a contraddirlo; "Nessuno può dubitare, anzi è noto a tutti, che il santo e beatissimo Pietro, principe e capo degli apostoli, colonna della fede e fondamento della chiesa cattolica, ricevette da Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano, le chiavi del regno, e gli fu dato il potere di sciogliere e di ritenere i peccati, a lui, che finora e per sempre vive ed esercita il potere nei suoi successori". Allo stesso argomento si riferisce la sentenza del Concilio di Calcedonia: "Pietro attraverso Leone… ha parlato" a cui fa eco la voce del Concilio Costantinopolitano III: "Il sommo principe degli apostoli era d’accordo con noi; avemmo con noi infatti il suo imitatore e successore nella sede... sembrava carta e inchiostro, e invece Pietro parlava attraverso Agatone".
Nella formula della professione cattolica proposta da Ormisda sul principio del secolo VI, e sottoscritta dall’imperatore Giustiniano e dai patriarchii Epifanie, Giovanni e Menna viene dichiarato con gravi e forti parole: "Poiché non si può tralasciare l’affermazione di nostro Signore Gesù Cristo: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa, ... quanto è stato detto è provato dai fatti, poiché nella sede apostolica la religione cattolica è stata sempre conservata senza macchia".
Non vogliamo citare più a lungo le singole testimonianze; ma ci basterà qui ricordare la formula di fede che professò Michele Paleologo nel Secondo Concilio di Lione: "La santa chiesa romana ha un sommo e pieno primato e principato su tutta la chiesa cattolica, e (il Paleologo) con tutta verità e umiltà riconosce che essa lo ha ricevuto con piena potestà dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, principe e capo degli apostoli, del quale è successore il vescovo di Roma. E poiché questi sopra tutti è tenuto a difendere la verità della fede, così, se nasceranno questioni intorno alla medesima, egli dovrà con sua sentenza definirle".
Sebbene sia somma e piena la potestà di Pietro, non si creda tuttavia che essa sia la sola. Infatti colui che pose Pietro a fondamento della chiesa, "elesse anche dodici... che nominò apostoli" (Lc 6,13). Come è necessario che l’autorità di Pietro si perpetui nel vescovo di Roma, così i vescovi, come successori degli apostoli, ne ereditano l’ordinaria potestà, e quindi l’ordine episcopale necessariamente tocca l’intima costituzione della chiesa. Benché essi non abbiano una somma, piena e universale autorità, tuttavia non devono ritenersi come dei semplici "vicari" dei vescovi di Roma, poiché hanno una potestà propria, e con verità si dicono presuli "ordinari" dei popoli che reggono.
Però, siccome il successore di Pietro è uno solo, e i successori degli apostoli sono molti, è conveniente che si veda quali siano per divina costituzione le relazioni di questi con quello.
E in primo luogo, è certa ed evidente la necessità dell’unione dei vescovi col successore di Pietro; poiché, sciolto questo vincolo, necessariamente si discioglie e si disperde la stessa moltitudine dei cristiani, in modo da non poter formare in alcun modo un solo corpo e un solo gregge. "La salute della chiesa dipende dalla dignità del sommo sacerdote, e se non gli si dà un potere speciale e superiore a tutti, vi saranno nella chiesa tanti scismi, quanti sono i sacerdoti". Pertanto è bene avvertire che niente fu conferito agli apostoli separatamente da Pietro, ma molte cose a Pietro separatamente dagli apostoli.
Giovanni Crisostomo, nel commentare l’affermazione di Cristo (Gv 21,15), si domanda: "Perché Cristo, lasciati gli altri, parla di queste cose solamente a Pietro?"; e risponde: "Perché era il primo fra gli apostoli, la bocca dei discepoli, il capo del loro collegio". Egli infatti era il solo designato da Cristo a fondamento della chiesa; a lui era data la facoltà di "legare" e di "sciogliere"; il solo, al quale era dato di "pascere"; invece, quanto di autorità e di ministero ricevettero gli apostoli, lo ricevettero unitamente a Pietro: "Se la condiscendenza divina volle che alcuna cosa fosse a lui comune con gli altri prìncipi (apostoli), non concedette se non per lui quello che non negò agli altri… Avendo da solo ricevuto molte cose, nulla passò in alcuno senza la sua partecipazione", Perciò è evidente che i vescovi decadono dal diritto e dalla potestà di governare, quando volutamente si separino da Pietro e dai suoi successori; infatti allora si distaccano per scisma dal fondamento, su cui deve basarsi tutto l’edificio; sono esclusi quindi dallo stesso "edificio", e per la Stessa causa separati dall’"ovile", la cui guida è il pastore supremo, e banditi dal "regno", le cui chiavi furono date per volere divino al solo Pietro.

E in questo Noi riconosciamo ancora il celeste disegno e la mente divina che presiedette alla costituzione della società cristiana; cioè, che il divino Autore, avendo stabilita nella chiesa l’unità della fede, del governo e della comunione, elesse Pietro e i suoi successori, perché fosse attuato in essi il principio e il centro dell’unità. Afferma san Cipriano: "Dice il Signore a Pietro: Io ti dico, che tu sei Pietro... Sopra uno solo edifica la chiesa. E benché a tutti gli apostoli, dopo la sua risurrezione, dia uguale potestà, e dica: Come il Padre ha mandato me..., tuttavia per manifestare l’unità, dispose autorevolmente che l’origine della stessa unità cominciasse da uno solo". E Ottato di Milevi dice: "Non puoi negare di sapere che nella città di Roma a Pietro per primo fu conferita la cattedra episcopale, sulla quale sedette il capo di tutti gli apostoli, Pietro; affinchè in quella sola cattedra l’unità fosse mantenuta da tutti e così neppure gli altri apostoli difendessero le proprie cattedre contro di quella, tanto da essere scismatico e in peccato, chi ne ponesse un’altra contro l’unica cattedra". E perciò Cipriano afferma che sia lo scisma sia l’eresia nascono dal fatto che non si presta la dovuta obbedienza alla suprema potestà: "Non da altro infatti sono sorte le eresie e sono nati gli scismi, se non perché non si obbedisce al sacerdote, e non si pensa che nella chiesa vi è un solo sacerdote e un solo giudice vicario di Cristo". Nessuno dunque che non sia unito a Pietro può partecipare dell’autorità, essendo assurdo pensare che possa comandare nella chiesa chi è fuori di essa. Perciò Ottato di Milevi rimproverava i donatisti, dicendo: "Contro le porte (dell’inferno) leggiamo che ricevette le chiavi di salute Pietro, nostro principe, a cui fu detto da Cristo: A te darò le chiavi del regno dei cieli, e le porte dell’inferno non le vinceranno. Perché dunque pretendete di usurpare le chiavi del regno dei cieli, voi che militate contro la cattedra di Pietro?".
Ma l’ordine episcopale allora solamente si deve credere unito a Pietro, come Cristo comanda, se a Pietro è sottomesso e gli obbedisce: altrimenti diventerà necessariamente una moltitudine confusa e disordinata. Per ben conservare l’unità della fede e della comunione non basta un primato di onore, nè una sopraintendenza nella chiesa, ma è assolutamente necessaria una vera e somma autorità, a cui tutta la comunità obbedisca.
E a che altro il Figlio di Dio mirò, quando al "solo" Pietro promise le chiavi del regno dei cieli? L’espressione biblica e il consenso unanime dei padri non lasciano punto dubitare che col nome di "chiavi" venga in quel luogo significato il supremo potere. Nè in altro modo è lecito interpretare quanto viene attribuito separatamente a Pietro, e agli apostoli uniti a Pietro. Se la facoltà di legare, di sciogliere, di pascere fa sì che ognuno dei vescovi, successori degli apostoli, governi con vera potestà il suo popolo, certamente la stessa facoltà deve produrre il medesimo effetto in colui, al quale fu assegnato da Dio l’ufficio di pascere gli "agnelli" e le "pecore". "(Cristo) costituì Pietro non solamente pastore, ma pastore dei pastori; Pietro pasce dunque gli agnelli, e pasce anche le pecore; pasce i figli e pasce anche le madri; regge i sudditi e regge anche i prelati, poiché oltre gli agnelli e le pecore non vi è nulla nella chiesa". Si spiegano quindi le espressioni usate dagli antichi riguardo al beato Pietro, e che significano tutte apertamente un sommo grado di dignità e di potere. Viene indicato spesso coi titoli di principe dell’adunanza dei discepoli, principe dei santi apostoli, corifeo del loro coro, bocca di tutti gli apostoli, capo di quella famiglia, preposto a tutto il mondo, primo fra gli apostoli, baluardo della chiesa; i quali titoli sembra che san Bernardo voglia racchiudere in queste parole al papa Eugenio: "Chi sei tu? Il gran sacerdote, il sommo pontefice. Tu sei il primo dei vescovi, tu l’erede degli apostoli.... Tu sei colui, a cui furono consegnate le chiavi, a cui furono affidate le pecore. Vi sono pure altri portieri del cielo e pastori dei greggi; ma tu hai ereditato un nome tanto più glorioso quanto più diversamente da essi hai ereditato l’uno e l’altro nome. Ogni pastore ha il suo gregge particolare a lui assegnato; a tè tutti i greggi vennero affidati, a te solo l’unico, tutto il gregge, non solo delle pecorelle, ma anche dei pastori; tu solo di tutti sei il pastore. Mi domandi in che modo io lo provi? Dalla parola del Signore. Infatti a chi, non dico dei vescovi, ma ancora degli apostoli, furono in un modo così assoluto e indefinito affidate le pecore? Se mi ami, o Pietro, pasci le mie pecore, Quali? Popoli di questa o di quella città, o regione, o regno? Le mie pecore, disse. A chi non è manifesto non avergli egli assegnate alcune, ma tutte? Nulla si eccettua, ove nulla si distingue".

È cosa contraria alla verità e apertamente ripugna alla costituzione divina il dire che i "singoli" vescovi sono soggetti alla giurisdizione dei papi, e non già tutto il corpo episcopale; poiché tutta la ragion d’essere del fondamento sta nel dare a tutto l’edificio, piuttosto che a "singole sue parti", unità e saldezza. Il che nel caso nostro è tanto più vero, in quanto Cristo signore volle che per la virtù appunto del fondamento le porte dell’inferno non prevalessero contro la chiesa; e questa promessa divina com’è a tutti manifesto, si deve intendere di tutta la chiesa e non delle singole sue parti, le quali possono essere vinte dal furore dell’inferno, e parecchie infatti lo furono. È inoltre necessario che chi è preposto a tutto il gregge non solo abbia il comando sulle singole pecore, ma anche su di esse riunite insieme. Che l’ovile avrà forse da reggere e da guidare il pastore? Forse i successori degli apostoli, uniti in corpo, saranno il fondamento, su cui il successore di Pietro si appoggi per avere fermezza? Chi possiede le chiavi del regno dei cieli, non ha soltanto potere e autorità sopra le singole regioni, ma su tutte insieme; e come ciascun vescovo nella sua diocesi presiede con vera potestà non solo ai singoli individui, ma a tutta la comunità, così pure i papi, il cui potere abbraccia tutta la cristianità, hanno soggette e obbedienti alla loro autorità tutte le parti di questa, anche insieme raccolte. Cristo Signore, come già si disse ripetutamente, concesse a Pietro e ai suoi successori che fossero suoi vicari, ed esercitassero perpetuamente nella chiesa quel potere che egli aveva esercitato nella sua vita mortale. Si dirà forse che il collegio apostolico sia stato superiore al suo maestro?
La chiesa non cessò mai in alcun tempo di riconoscere e di attestare questo potere, di cui parliamo, sopra il corpo episcopale, potere sì chiaramente indicato dalla sacra Scrittura. Ecco come parlano in questa materia i concili: "Noi leggiamo che il vescovo di Roma ha giudicato i prelati di tutte le chiese, ma che egli sia stato da alcuno di essi giudicato noi non lo leggiamo". E se ne dà la seguente ragione: "Non vi è un’autorità superiore alla sede apostolica". Gelasio, parlando dei decreti dei concili, così scrive: "Come fu nullo tutto ciò che non venne approvato dalla prima sede, così ciò che essa ha creduto di dover sentenziare fu ammesso da tutta la chiesa". Infatti fu sempre privilegio dei vescovi di Roma confermare o invalidare le decisioni e i decreti dei concili. Leone Magno annullò gli atti del conciliabolo di Efeso; Damaso rigettò quelli del conciliabolo di Rimini, e Adriano II quelli del conciliabolo di Costantinopoli. Il canone XXVIII del Concilio di Calcedonia, perché privo dell’assenso e della volontà della sede apostolica, rimase, com’è noto, senz’alcun valore. Con ragione dunque Leone X nel Concilio Lateranense V sentenziò: "Solo il vescovo di Roma, temporaneamente in carica, ha il pieno diritto e il potere, come avente l’autorità su tutti i concili, di indire, trasferire, sciogliere i concili; e questo è evidente, non solo per testimonianza della sacra Scrittura, dei detti dei padri e degli altri vescovi di Roma e decreti dei sacri canoni ma anche per l’ammissione degli stessi concili". E per verità al solo Pietro furono consegnate le chiavi del regno celeste, e a lui, unitamente agli apostoli, fu dato, per testimonianza della sacra Scrittura, il potere di legare e di sciogliere; ma non si legge in alcun luogo che gli apostoli ricevessero questo sommo potere "senza Pietro" e "contro Pietro". Davvero non così l’hanno ricevuto da Gesù Cristo.
E per questo, col decreto del Concilio Vaticano intorno alla ragione e alla forza del primato del vescovo di Roma, non fu introdotto un nuovo dogma, ma asserita l’antica e costante fede di tutti i secoli (del cristianesimo).
Né il sottostare a un doppio potere arreca confusione nel governo. Anzitutto la sapienza di Dio, per disposizione della quale questa forma di governo venne stabilita, ce ne vieta anche il semplice sospetto. E poi si deve osservare che l’ordine e le relazioni vengono turbate solamente, se nel popolo vi sono due magistrati dello stesso grado, e indipendenti l’uno dall’altro. Ma il potere del vescovo di Roma è supremo, universale e indipendente, mentre quello dei vescovi è ristretto entro certi confini e non è del tutto indipendente. "Non è conveniente che due siano costituiti sopra lo stesso gregge con poteri uguali; ma non ripugna che due, dei quali uno è superiore all’altro, siano costituiti sullo stesso popolo; così sullo stesso popolo vi sono immediatamente e il parroco e il vescovo e il papa". I vescovi di Roma, memori del loro ufficio, vogliono meglio degli altri conservare nella chiesa tutto ciò che fu divinamente istituito; e quindi come tutelano la loro autorità con quella cura e vigilanza che si conviene, così sempre si preoccuparono e si preoccupano perché l’autorità dei vescovi sia mantenuta; anzi reputano fatto a sé tutto l’onore e l’ossequio che si rende ai medesimi. Per questo san Gregorio Magno diceva: "E mio onore l’onore della chiesa universale. Mio onore è il solido vigore dei miei fratelli. Io sono veramente onorato, allorquando a ognuno di loro non si nega il dovuto onore".
Con quanto si è detto finora abbiamo fedelmente espressa, secondo la divina costituzione, l’immagine e la forma della chiesa. Abbiamo ragionato a lungo dell’unità, e spiegato in che cosa essa consista e con quale principio il divino Autore abbia voluto conservarla. Non dubitiamo punto che la Nostra voce apostolica sia ascoltata da coloro che per favore e grazia di Dio, essendo nati nel seno della chiesa cattolica, vivono in essa: "Le mie pecore ascoltano la mia voce" (Gv 10,27); né dubitiamo che essi ne trarranno incitamento a istruirsi più profondamente e ad unirsi con maggiore affetto ai propri pastori e per essi al supremo pastore, affinchè possano con più sicurezza rimanere nell’unico ovile e cogliere maggiore ricchezza di frutti salutari. Senonché, fissando il Nostro sguardo "al promotore e coronatore della fede, a Gesù" (Eb 12,2), di cui, benché impari a tanta dignità e ufficio, sosteniamo la vicaria potestà, il cuore s’infiamma della sua carità; e a Noi non senza ragione applichiamo quello che Cristo disse di se stesso: "Ho altre pecore, che non sono di questo ovile; anche quelle bisogna che le raduni e ascolteranno la mia voce" (Gv 10,16). Non ricusino dunque di ascoltarci e di assecondare il Nostro paterno amore quanti hanno in abominio l’empietà, sì largamente diffusa, e riconoscono e confessano Gesù Cristo Figlio di Dio e Salvatore del genere umano, e tuttavia vanno errando lontano dalla sua sposa. Quelli che ricevono Cristo, è necessario che lo ricevano tutto intero: "Tutto il Cristo è capo e corpo (insieme); è capo l’unigenito Figlio di Dio; suo corpo è la chiesa; lo sposo e la sposa, due in una carne. Chiunque intorno allo stesso capo discorda dalla sacra Scrittura, ancorché concordi in tutti quei punti in cui è designata la chiesa, non è nella chiesa. E così pure, chiunque ammette tutto ciò che nella Scrittura si dice dello stesso capo, ma non è unito in comunione con la chiesa, non è nella chiesa". Con lo stesso affetto l’animo Nostro vola a coloro che il pestilente soffio dell’empietà non ha del tutto corrotto; essi almeno desiderano grandemente questo, che il vero Dio, creatore del cielo e della terra, sia loro Padre. Costoro considerino attentamente e comprendano che non possono essere annoverati tra i figli di Dio, se non riconoscono come loro fratello Gesù Cristo, e insieme come loro madre la chiesa. A tutti dunque amorosamente ci rivolgiamo con le parole dello stesso Agostino: "Amiamo Dio nostro Signore, amiamo la sua chiesa; quello come padre, questa come madre. Nessuno dica: Sì, vado dagli idoli, consulto gli invasati e gli indovini, e tuttavia non abbandono la chiesa di Dio: sono cattolico. Tenendo la madre, hai offeso il padre! Un altro dice: Non consulto alcun indovino, non cerco gli invasati, non cerco sacrileghe divinazioni, non vado ad adorare i demoni, non servo agli dei di pietra; però sono dalla parte di Donato. Che ti giova non avere offeso il padre, se questi vendica la madre offesa? Che ti vale confessare il Signore, onorare Dio, predicarlo, riconoscere il suo Figlio e confessare che siede alla destra del Padre, se bestemmi la sua chiesa?… Se tu avessi un patrono, a cui ogni giorno prestassi ossequio; e tuttavia manifestassi una sola colpa della sua consorte, avresti tu l’ardire di entrare in casa sua? Abbiate dunque, carissimi, abbiate tutti concordemente Dio per padre, e per madre la chiesa".
Avendo piena fiducia in Dio misericordioso, che può muovere efficacemente il cuore degli uomini e spingerli come e dove vuole, con tutto l’affetto raccomandiamo alla sua bontà tutti coloro a cui rivolgemmo la Nostra esposizione. E come pegno dei celesti doni e attestato della Nostra benevolenza, a voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo amorevolmente impartiamo nel Signore l’apostolica benedizione.

Roma, presso S. Pietro, il giorno 29 giugno dell’anno 1896, decimonono del Nostro pontificato.

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